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lunedì 23 dicembre 2013

Ora le potenze si misurano nei mari d'Asia (da ISPIonline.it)

Dopo una breve parentesi di relativa tranquillità, di recente le acque del Mar Cinese Orientale sono tornate a intorbidirsi, contribuendo all’esacerbazione delle già non idilliache relazioni tra Tokyo e Pechino e a un generale clima di tensione nella regione.
Questa situazione di preoccupante instabilità è stata innescata dalla decisione di Pechino, annunciata dal Ministero della Difesa il 23 novembre, di creare una Zona di Identificazione per la Difesa Aerea (comunemente definita adiz, Air Defense Identification Zone) che insiste su un’area geografica in cui ricadono anche le celebri Senkaku (per i giapponesi) o Diaoyu (per i cinesi), un arcipelago di isolotti completamente disabitato e inospitale da decenni al centro di una disputa tra cinesi, giapponesi e taiwanesi, che ne rivendicano la sovranità sulla base di differenti ragioni ed evidenze storiche e giuridiche.  
È bene sottolineare, in primo luogo, come la creazione di una adiz non sia una pratica vietata: non si tratta di una zona in cui il traffico aereo è contingentato o proibito, ma di una “zona di sicurezza” posta in essere per scongiurare eventuali attacchi al territorio del paese che rivendica il controllo su quello spazio aereo. In quello spazio, quindi, velivoli non identificati sono tenuti a farsi riconoscere e, laddove necessario, possono essere perfino intercettati con lo scopo di essere identificati. Non esistono accordi internazionali che regolino le adiz: gli stati non sono esplicitamente autorizzati ad istituire queste zone, ma non è neanche loro esplicitamente negata la possibilità di farlo. 
È ovvio che il concetto di adiz non è nient’altro se non un lascito della Guerra fredda: furono proprio gli Stati Uniti – in maniera unilaterale – a dare vita alla prima adiz, negli anni ’50, al fine di abbattere il rischio di possibili attacchi a sorpresa da parte dei sovietici. Oltre alla questione relativa alla sicurezza, una adiz può soddisfare molteplici necessità: limitare il rischio di collisioni aeree, combattere i traffici illeciti di droga, aumentare la trasparenza riducendo la necessità di decollo dei jet da combattimento con scopi di ispezione visiva. (...)
Due sembrano essere le questioni aperte in questo gi-nepraio innescato dalle azioni cinesi. La prima è relativa alla volontà cinese di far rispettare fermamente la sovranità nei cieli sopra le isole Senkaku/Diaoyu: uno scenario in cui velivoli cinesi e giapponesi possano un giorno fronteggiarsi in quell’area è diventata una seria possibilità e potrebbe dare il via a una escalation militare. 
La seconda questione è probabilmente più importante, in particolar modo se vagliata in senso prospettico, e fa riferimento alla possibilità che questa nuova adiz cinese rifletta una più ampia intenzione di fare ricorso alla forza per appianare qualsivoglia disputa territoriale. La Cina ha cominciato a perseguire un approccio ambivalente: in primo luogo, facendo valere unilateralmente le proprie richieste minacciando il ricorso alla forza se necessario; ed in secondo, ampliando le proprie richieste mentre acquisisce i mezzi, inclusi quelli di tipo militare, per supportarle. La nuova adiz ricade pienamente in tale strategia di condotta, che diventa in questa specifica zona geografica ad alto rischio proprio perché deve confrontarsi con altri due paesi molto dotati dal punto di vista militare. L’estensione della zona di controllo cinese potrebbe comunque indicare una mossa preliminare a cui seguirà in un futuro prossimo o remoto il tentativo di forzare il controllo delle Senkaku/Diaoyu. 
In un’altra, non necessariamente non ipotizzabile, direzione, ci si potrebbe chiedere se la prossima mossa nella complessa agenda cinese, non possa essere l’imposizione di una adiz sulla regione del Mar Cinese Meridionale, che ricalchi in qualche modo la famigerata “linea ad U” all’interno della quale i cinesi fanno ricadere la quasi totalità delle acque disputate. (...)
Insomma, l’insegnamento dietro questa storia è che nonostante la storia, il sentimento nazionalistico, o le fonti energetiche siano fattori di rilievo per l’atteggiamento cinese, la verità è che gli Stati Uniti e il Giappone – per rimanere alle Senkaku/Diaoyu – saranno costretti a modellarsi in relazione alle capacità(anche militari) e agli interessi cinesi. Ciò che stiamo vivendo ci insegna quindi che la crisi sino-giapponese sulle Senkaku/Diaoyu, piuttosto che essere risolta con le leve della diplomazia, potrebbe rappresentare il preludio per più ampi conflitti nella regione. 

lunedì 4 novembre 2013

Il caso Datagate e l'ombra della debolezza americana (da Ispionline.it)

Pur non coinvolgendoli in maniera diretta, le iniziative degli Stati Uniti nel campo della sicurezza rischiano, infatti, di alimentare i timori di una lunga serie di paesi, primi fra tutti quelli del delicato scacchiere asiatico. Ciò vale tanto per realtà come il Giappone o la Corea del Sud, che intrattengono solide relazioni con Washington sin dall’inizio degli anni Cinquanta ma che potrebbero essere in qualche modo contagiati dalla “sindrome europea”, anche alla luce del “riallineamento geopolitico” che stanno sperimentando e della relativa autonomizzazione che lo accompagna, quanto per realtà come la Cina e, per certi aspetti, l’India, che con gli Stati Uniti coltivano un rapporto più complesso, permeato da una parte da una certa diffidenza, dall’altra (almeno allo stato attuale delle cose) da considerazioni di reciproco interesse(1). Allo stesso modo, le notizie sulle attività statunitensi hanno comportato la vivace reazione di alcuni paesi dell’America Latina, primi fra tutti il Messico (che tradizionalmente gestisce in maniera difficile la prossimità fisica con il vicino nordamericano e l’influenza da questo esercitata sui suoi equilibri interni) e il Brasile, che, nonostante le difficoltà sperimentate da qualche tempo a questa parte, appare intenzionato ad affermare con crescente concretezza il ruolo politico che la posizione ricoperta in seno al gruppo del BRICs gli assegna “in potenza”(2). Anche la trasversalità di questi timori è significativa. Negli ultimi mesi l’amministrazione USA sembra, infatti, essere riuscita (forse per la prima volta dall’inizio della sua parabola politica) a coagulare un effettivo “consenso trasversale”, pur se in chiave più o meno apertamente antagonista. Per chi – in Europa soprattutto – continuava a confidare in Barack Obama per ristabilire su basi più solide un rapporto transatlantico percepito come ormai logoro, è questa, forse, la fine delle illusioni. Un simile giudizio merita, tuttavia, di essere oggetto di qualche considerazione più ampia.