martedì 30 aprile 2019

Giappone: abdica Akihito, “Imperatore del popolo” (ISPIOnLine)

"(...) Il 30 aprile, all’età di ottantaquattro anni, l’imperatore Akihito cederà il trono al Principe ereditario Naruhito nella convinzione che l’età avanzata e le condizioni di salute siano diventati ostacoli insormontabili all’adempimento dei suoi doveri di imperatore. Akihito lascia un’eredità morale che sarà difficile da eguagliare. L’imperatore ha infatti sgretolato, pezzo dopo pezzo, il lascito di una monarchia inaccessibile, acquisendo una sempre maggiore corporeità nella percezione nazionale, esternalizzata in una maggiore presenza pubblica e nell’utilizzo della lingua giapponese in forma moderna. Perfino il matrimonio con l’imperatrice Michiko, una comune cittadina, prima unione di questo tipo nella storia della monarchia giapponese, lo ha avvicinato al popolo giapponese ancora di più: una condizione che è in linea con l’attuale Costituzione e che spoglia l’imperatore di una qualsiasi aura di divinità (e di qualsiasi potere politico), trasformandolo in un “simbolo dello stato e dell’unità del popolo”.
È sicuramente vero che non tutti in Giappone sono entusiasti dei successi ottenuti dall’imperatore Akihito nell’ultimo decennio nell’interazione con i propri sudditi. Molto spesso, gli studiosi più conservatori hanno accusato Akihito e la sua famiglia di aver confuso le priorità. In una recente intervista su “The Japan Times”, il costituzionalista Hidetsugu Yagi, per esempio, ha lamentato la tendenza di Akihito nel sottolineare il ruolo dell’imperatore come “simbolo” del Giappone: “[Akihito] ha stabilito un precedente riguardo a cosa significhi essere un simbolo per gli imperatori, ma quel ruolo di simbolo non è al centro di cosa significa essere imperatore. Lo status di imperatore non si concentra sull’ottenimento del consenso popolare, pertanto essere accettati dal pubblico non dovrebbe avere alcuna importanza”, ha sostenuto Yagi. Tuttavia, coloro che in Giappone auspicano di ripristinare il ruolo dell’imperatore come capo di stato sono destinati a rimanere delusi. Infatti, le priorità di Akihito sono dettate dalla Costituzione democratica post-bellica del Paese, che ne determina le azioni – insieme a quelle della famiglia imperiale – fin dal 1947, quando l’imperatore fu obbligato a rinunciare ad ogni potere militare e politico, rappresentando il Paese esclusivamente con funzione simbolica.
Il maggior grado di accessibilità di Akihito è legato al suo sforzo di ovviare alle cicatrici lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale (combattuta nel nome del padre, l’imperatore Hiroito), nonché al suo impegno nel portare conforto alle vittime delle catastrofi emerse dal conflitto. Durante i suoi trent’anni di regno, Akihito si è proposto come una figura liberale ed esposta internazionalmente, aperta e accessibile. Non a caso Akihito è stato il primo moderno monarca giapponese a condurre una visita di stato in Cina nel 1992 durante la quale ha condannato le sofferenze che il Giappone ha inflitto alla Cina durante i quasi dieci anni della seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), culminata nello stupro di Nanchino (南京强奸Nanjing qiangjian) del gennaio 1938. Nel 2015, in occasione del settantesimo anniversario della resa giapponese nella Seconda Guerra mondiale, Akihito ha ricordato al popolo giapponese di imparare dalla storia: invito chiaramente esteso anche al primo ministro Shinzo Abe e ai suoi seguaci revisionisti. Al fine di sottolineare la propria estraneità alle affermazioni poco veritiere dei revisionisti giapponesi secondo cui il Giappone è vittima invece che colpevole, nel suo discorso del 2015, Akihito ha fatto riferimento all’incidente mancese, l’attentato perpetrato nel 1931 dall’esercito giapponese a Mukden, in Manciuria, come pretesto per accusare i terroristi cinesi: “Penso che abbia maggiore importanza per noi approfittare dell’occasione per studiare e imparare dalla storia di questa guerra a partire dall’incidente mancese del 1931, mentre prendiamo in considerazione la direzione che il nostro Paese prenderà in futuro”. Quest’affermazione è particolarmente significativa poiché l’incidente mancese del 1931 incarna l’inizio della guerra di occupazione giapponese in Cina. Menzionandolo, Akihito ha evidenziato il proprio rifiuto a sottostare alle asserzioni dei revisionisti che interpretavano il secondo conflitto sino-giapponese come una guerra di autodifesa che mirava alla “liberazione panasiatica”, ossia alla presunta liberazione dell’Asia dall’imperialismo occidentale e dal colonialismo.
Akihito si è da sempre posto a tutela della memoria degli orrori perpetrati dal suo Paese nel corso della storia, andando inevitabilmente a scontrarsi con la concezione sostenuta dalla leadership governativa di Shinzo Abe. L’impostazione di Abe pone l’accento su una forma di nazionalismo giapponese e sull’idea di un Giappone che acquisisce un tono conciliatorio nei confronti del suo passato militare, creando frizioni con la Costituzione del Paese che lo dipinge invece come campione del principio pacifista. La Costituzione del 1946, prodotto della sconfitta del Paese durante la Seconda Guerra Mondiale, include una clausola che prevede che il Giappone non possa formare un esercito, poiché “aspirando sinceramente a una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, e alla minaccia o all’uso della forza, quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”. Ad oggi, il Giappone si avvale di forze di autodifesa in un contesto fortemente critico che vede Abe riproporre ciclicamente una riforma della Costituzione.
Nonostante Akihito non detenga alcun potere politico, la grande popolarità di cui gode e la crescente esposizione pubblica a livello nazionale ed internazionale hanno contribuito a una rivoluzione del ruolo della monarchia giapponese e all’affermarsi una rivalità interna con il governo di Abe a causa delle posizioni diametralmente opposte sostenute dai due leader del Paese.(...)"

domenica 28 aprile 2019

Cina: che crescita sarà? Più qualità e meno debiti (F.Fasulo, ISPIOnLine)

"Nel 2019 la crescita cinese continuerà il suo processo di graduale rallentamento avviato con l’ingresso della fase denominata New Normal. È questo quello che emerge dal rapporto sull’operato del governo pronunciato il 5 marzo dal Premier Li Keqiang all’apertura della sessione annuale dell’Assemblea Nazionale del popolo durante il quale ha fissato per il 2019 un obiettivo di crescita tra il 6 e il 6,5%. Questo valore è il più basso mai proposto e fa seguito al 6,6% raggiunto nel 2018, a sua volta il valore più basso dal 1990.
L’attenzione del premier cinese è rivolta soprattutto alla gestione delle incertezze senza ricorrere all’indebitamento. Non è un caso, infatti, che il termine che ha avuto maggiore evidenza nelle osservazioni degli analisti sia stato “rischio”, un aspetto che era emerso anche in occasione di un inedito incontro con i vertici di partito convocato dal Presidente Xi Jinping il 21 gennaio di quest’anno. Il timore di Pechino è che il rallentamento dell’economia, rafforzato dagli effetti della guerra commerciale con gli Stati Uniti, possa portare all’insorgere di costi sociali eccessivi. 
Per questa ragione, tra gli obiettivi del governo sono stati individuati la creazione nuovi posti di lavoro – il valore fissato è di 11 milioni di posti nelle sole aree urbane con un tasso di disoccupazione inferiore al 4,5% - e il supporto alle piccole e medie imprese. Le politiche a supporto della volontà del governo in questo campo si manifestano in particolare sotto forma di riduzioni dei costi per le imprese per un valore totale stimato in 2.000 miliardi di Rmb, ovvero circa 300 miliardi di dollari. Una quota importante della diminuzione del carico per le imprese è rappresentata dalle modifiche apportate alle imposte sul valore aggiunto. A partire dal 1° aprile, infatti, l’Iva per il settore manifatturiero è scesa dal 16 al 13%, quello delle costruzioni e trasporti dal 10 al 9%, mentre quello per i servizi che si attesta al 6%, un valore già contenuto, viene confermato ma con l’introduzione della possibilità di maggiori deduzioni.   
Se queste iniziative possono essere lette positivamente nell’ottica del raggiungimento degli obiettivi di crescita fissati, resta aperta la questione sul finanziamento di tali misure. Infatti, contrariamente al dichiarato proposito di non aumentare l’indebitamento gravato dalle politiche dell’ultimo decennio – come conseguenza dello stimolo resosi necessario dopo la crisi economica globale - e oggi prossimo alla soglia del 300% del pil, Li Keqiang ha annunciato nel suo discorso la volontà di portare il deficit di bilancio dal 2,6% del 2018 al 2,8% del Pil per l’anno in corso attraverso investimenti infrastrutturali per 577 miliardi di Rmb e l’emissione di bond a livello locale per 2.150 miliardi di Rmb, in crescita rispetto ai 1.350 miliardi del 2018. Sembra così che Pechino non sia ancora riuscita a trovare una fonte di crescita alternativa agli investimenti pubblici, una prospettiva che potrebbe risultare molto penalizzante per una società che ha bisogno di rafforzare il proprio sistema di welfare alla luce dell’invecchiamento della popolazione e di una economia in transizione che potrebbe comportare la gestione di posti di lavori persi in settori ad alta intensità di lavoro. In aggiunta vi è anche molta incertezza per quanto riguarda l’andamento delle esportazioni, in attesa che le negoziazioni commerciali fra Stati Uniti e Cina attualmente in corso possano finalmente rendere il quadro più chiaro. (...)"

Intervista a Mario Monti. Politici cinici e ignoranti, così l’Europa non va lontano (Eco di Bergamo)

"(...) Come giudica il contrasto (se esiste) tra establishment ed opinione pubblica e il ruolo della tecnocrazia nel rapporto con la politica?
«L’establishment, inteso come classe dirigente o élite, esiste in ogni Paese, con ogni sistema politico. Il problema si ha quando l’élite si consolida indipendentemente dai meriti ed è difficile, anche per i meritevoli, entrare a farne parte. Fa difetto, allora, la “circolazione delle élite”. La società è allora iniqua, l’economia stagnante. Questo è, per l’Italia, un tema drammatico. Agli infuocati attacchi all’élite si accompagna curiosamente, soprattutto nella sinistra e nei movimenti che si dicono “populisti”, la mancanza di interventi che servirebbero a stimolare la circolazione delle élites : l’insistenza sul merito, la tassazione progressiva (in Italia ora si tende a preferire la flat tax), un’imposizione sulle successioni del livello riscontrabile in altri Paesi (in Italia è più bassa), una modesta ma ricorrente imposta patrimoniale (anatema, in Italia). Finiremo così per avere un’élite sempre più sclerotica e che non si rinnova, un odio sempre maggiore per le élites, una politica che disdegna sempre più le competenze».
E il rapporto tra politica e tecnocrazia?
«A me sembra che la competenza tecnica (“tecno”) possa diventare “tecnocrazia” in due casi: se soggetti diversi dai rappresentanti politici eletti dal popolo “prendono” il potere, ad esempio con un colpo di stato ; oppure se i rappresentanti politici, in una determinata situazione, decidono liberamente di ricorrere a qualcuno che ritengono in grado, per competenza, credibilità, forse anche per la sua estraneità ai partiti politici, di esercitare i poteri di governo meglio di come essi, nelle circostanze, sarebbero in grado di fare. Allora gli conferiscono, con la designazione o con un voto di fiducia, il potere di governare, creando essi una “tecno-crazia”. A mio parere, la prima forma di tecnocrazia va rigettata completamente, in quanto estranea alla democrazia; quanto alla seconda, se vi si ricorre è segno che la politica è in crisi grave. L’ideale, sempre secondo me, è che il processo di selezione dei politici valorizzi anche le competenze, per farne dei politici più consapevoli e più capaci di dialogare con i “tecnici”, che è comunque utile consultare nel processo delle decisioni politiche».
«I nazionalisti lasciati allo stato brado ci porterebbero alle guerre»: l’ha detto lei. È un rischio reale? È vero che, contrariamente a ciò che molti credono, indeboliscono il Paese che li alimenta?
«“Le nationalisme c’est la guerre!” Così François Mitterrand concluse il suo ultimo discorso al Parlamento europeo nel gennaio 1995, il primo discorso che ascoltai come neo-commissario europeo. Aveva ragione. I movimenti nazionalisti dei vari Paesi europei che cos’hanno in comune ? La volontà di ridimensionare, forse azzerare, i poteri di Bruxelles. Al di là di questo obiettivo, se per un momento supponiamo che l’abbiano conseguito, che cosa avrebbero in comune? Nulla, solo la volontà che la nazione di ciascuno prevalga sulle nazioni degli altri, foss’anche con l’uso della forza. No, grazie. Per questi nobili ideali, abbiamo già avuto decine di milioni di morti. Nel frattempo, ogni Paese sarebbe più debole, in mancanza di un’Europa più forte. Più debole verso le eventuali prepotenze di questo o quel Paese europeo. Più debole verso le potenze extraeuropee, politiche, militari o anche soltanto tecnologiche». (...)"

sabato 27 aprile 2019

La telefonata di Trump, l'attacco con gli elicotteri

"(...) A livello regionale gode del sostegno esplicito di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. A livello mondiale Russia e Francia lo appoggiano ma non apertamente. Ma è stata la telefonata di Donald Trump, il 15 aprile, a dargli il via libera definitivo per quello che dal punto di vista del diritto internazionale è l’assalto a un governo legittimo, l’unico riconosciuto dall'ONU. (...)"

mercoledì 24 aprile 2019

"Liberi di ricordare" (Vittorio Foa, 2001)

Sempre bella da rileggere, questa intervista di Vittorio Foa (2001)
Francesco Maria Mariotti

"(...) "La Liberazione può essere vista e vissuta in modo diverso. Dipende da tanti fattori: l'età, l'ambiente, le radici culturali, le idee. In fondo, non bisogna guardare a questa data solo come la Liberazione dal fascismo e dal nazismo. Quel giorno segna anche la fine di una guerra drammatica, tragica. E per noi quella fu una svolta storica: con la fine del nazifascismo conquistavamo l'Europa, entravamo nel consesso degli altri grandi paesi europei. Il raggiungimento di questo traguardo, la soddisfazione per avercela fatta, non la posso dimenticare e molti probabilmente conservano lo stesso ricordo che ho io. Ma oggi non potrei fare davvero nulla per sollecitare la memoria di tutti. E del resto non voglio farlo. Come possiamo imporre la storia? Il ricordo non va imposto". (...)

Lei cosa farà oggi?
"La mia salute non è buona, ho dei gravi problemi alla vista. Starò in silenzio, preferisco ascoltare".


E cose le piacerebbe sentire in questo giorno?
"Mi piacerebbe ascoltare delle parole di verità. La verità. Ognuno deve esprimere la propria posizione personale. Ma non raccontino bugie, non ne posso più di certe palle clamorose. Le idee politiche non devono essere costringenti. Voglio delle idee libere. Dicano la verità, per favore"[bb].

Ci si lamenta perché i ragazzi non sanno molto della Liberazione. 
"Come fanno a ricordare una cosa di più di 50 anni fa? Se hanno voglia di sentire la storia di quei giorni, bisogno raccontargliela assolutamente. E bene. Altrimenti... Le ripeto: non credo che il ricordo vada imposto. Il ricordo più è libero e più vale. E questa è anche l'unica strada per farlo diventare un valore condiviso da tutti".

(25 aprile 2001)"

lunedì 22 aprile 2019

Cosa sappiamo degli attentati in Sri Lanka (ilPost)

"Il numero dei morti negli attentati compiuti domenica, nella giornata di Pasqua, nelle chiese cattoliche e negli alberghi in Sri Lanka è salito ad almeno 290, mentre i feriti sono più di 500. Lunedì il governo ha attribuito le responsabilità degli attacchi al National Thowheeth Jama’ath, un semisconosciuto e recente gruppo terroristico islamista locale. Un portavoce del governo ha però aggiunto che si sospetta che il gruppo abbia ricevuto aiuti da organizzazioni internazionali. 24 persone sono state arrestate: la polizia ha detto che sono estremisti religiosi.
La polizia ha detto che è stata aperta un’indagine per verificare le responsabilità dell’intelligence srilankese, che potrebbe non aver preso sufficienti precauzioni dopo alcune allerte riguardo a possibili attentati nelle chiese cattoliche del paese arrivate nei giorni scorsi. Lo stesso governo ha già ammesso che si è trattato di un grande fallimento dell’intelligence, che sembra fosse stata avvertita fin dallo scorso 4 aprile. (...)

Quello di domenica è uno dei più gravi attentati contro la comunità cristiana nel Sud Est asiatico nella storia recente, e si è verificato in un paese che fino al 2009 ospitò una lunga e sanguinosa guerra civile tra il governo regolare e i ribelli separatisti noti come Tigri Tamil, che rivendicavano la creazione di uno stato indipendente nel nord e nell’est del paese. Lo Sri Lanka, che ha 21 milioni di persone, è per il 70 per cento buddista, per il 12 per cento induista, per il 10 per cento musulmano e per il 6 per cento cattolico. La fine della guerra civile non mise fine alle gravi tensioni etniche e settarie esistenti nel paese, alimentate dalla crescita del nazionalismo cingalese buddista che negli ultimi anni ha provocato un’ulteriore emarginazione delle minoranze e diversi episodi di violenza ai danni di quella musulmana.
Gli attentati esplosivi erano molto frequenti ai tempi della guerra civile, andata avanti dal 1983 al 2009, e le Tigri Tamil, a maggioranza induista, diventarono famose per l’importanza strategica che attribuirono a questo tipo di azioni. Il Cinnamon Grand, uno degli alberghi colpiti negli attentati di domenica, era già esploso nel 1984.


mercoledì 17 aprile 2019

“Lavorare meno, lavorare tutti” sogno o realtà? (da laVoce.info)

"(...) Le leggi francesi degli anni Ottanta e Novanta con cui i governi socialisti approvarono riforme significative dell’orario di lavoro a parità di salario sono state oggetto di vari studi. Bruno Crépon e Francis Kramarz (2002), per esempio, analizzando la riforma francese del 1982, che ha ridotto le ore settimanali da 40 a 39 a salario invariato, non trovano un effetto positivo sull’occupazione, ma, anzi, un aumento del rischio di disoccupazione a causa del costo orario più elevato, in linea con le previsioni della “teoria classica”. Matthieu Chemin e Etienne Wasmer (2009) studiano l’impatto della famosa riforma delle 35 ore di fine anni Novanta e anch’essi, comparando con il resto della Francia l’andamento dell’occupazione in Alsazia-Mosella, regione meno toccata dalla riforma in quanto più autonoma per motivi storici, non trovano effetti particolari (lo studio, però, è stato non poco criticato in patria).
I risultati per altri paesi vanno in direzione simile. In Germania, per esempio, Jennifer Hunt (1999) non trova effetti positivi delle riduzioni graduali degli orari di lavoro avvenute tra gli anni Ottanta e Novanta. Anche nel caso del Québec, dove l’orario di lavoro è stato gradualmente ridotto da 44 a 40 ore, non si sono registrati aumenti del numero di occupati (Mikal Skuterud, 2007). Stessa storia in Cile: la riduzione nel 2001 da 48 a 45 ore non ha avuto effetti tangibili sul numero di occupati (Rafel Sanchez, 2013). Un paese in controtendenza, invece, è il Portogallo dove secondo Pedro S. Raposo e Jan C. Van Ours (2010) la riforma che nel 1996 ha fatto scendere da 44 a 40 le ore di lavoro settimanali ha ridotto il tasso di distruzione di posti di lavoro (cioè licenziamenti o chiusure aziendali) con un effetto positivo sul totale dell’occupazione. Gli autori, cercando di comprendere il risultato in controtendenza con il resto della letteratura, ipotizzano che l’effetto positivo sia dovuto ai più ampi margini di flessibilità di aggiustamento dell’orario di lavoro che la riforma ha dato alle imprese.
Le esperienze europee non sembrano suggerire che ridurre le ore di lavoro porti ad aumenti dell’occupazione. Tuttavia, la discussione sul tempo di lavoro resta pertinente se si volge lo sguardo, e gli obiettivi, verso altre questioni: uno studio sulle riforme in Francia e Portogallo (Anthony Lepinteur, 2018), per esempio, fa vedere come quelle degli anni Novanta abbiano portato nei due paesi a un aumento del benessere dei lavoratori, con un effetto duraturo nel tempo. Altri studi, poi, mostrano come, in casi specifici, orari ridotti possano avere effetti benefici sulla produttività del singolo lavoratore (si vedano, per esempio, John Pencavel, 2015 e Marion Collewet e Jan Sauermann, 2017). (...)"

lunedì 15 aprile 2019

La partita libica e il governo giallo verde versus Macron (Massimo Nava su Fb)

Da un post fb di Massimo Nava
FMM

"La partita libica e il governo giallo verde versus Macron
Mentre il generale Haftar scatena l’offensiva alla conquista del potere in Libia, rendendo fragilissimo il processo di stabilizzazione del Paese e di unità  nazionale, il governo italiano si ritrova in un vicolo cieco e non basta avere buone ragioni e legittimi argomenti per uscirne. 
Ha ragione il nostro ministro degli interni #Salvini quando accusa nemmeno velatamente la #Francia di giocare alla guerra, cioè di sostenere #Haftar, anche se Parigi nega di avere dato semaforo verde all’offensiva. E ha ragione più in generale l’Italia quando ricorda che il caos libico non nasce oggi ma comincia con la sciagurata operazione di #Sarkozy per ragioni anche inconfessabili (Macron ha riconosciuto l’errore e c’è un’inchiesta aperta a carico dell’ex presidente per presunti fondi neri di Gheddafi) che hanno destabilizzato il Paese e provocato le ondate migratorie di questi anni.
D’altra parte, si rischia di abbaiare alla luna se non si tiene conto di altri dati di fatto.
1) Haftar ha il sostegno di sauditi, emirati, Egitto, Russia e probabilmente anche Cina. Riceve armi e denaro. Gioca anche una partita tutta sua, per sedersi da uomo forte, quale già è, al tavolo delle trattative future. Non è infondata l’ipotesi che sia sentito un po’ meno appoggiato dalla Francia e abbia cercato alleati altrove.
2) il governo legittimo dii Tripoli è debolissimo, nonostante l’appoggio ufficiale della comunità internazionale e quello, un po’ ingenuo, dell’Italia che solo tardivamente ha cercato nei mesi scorsi il dialogo anche con Haftar.
3) Avere ragione sul dossier Libia non basta a fare dimenticare gli screzi, i dispetti, gli errori recenti nei rapporti con Parigi su altri dossier e problematiche, dai gilet gialli al voltafaccia sulla Tav. Non è improbabile una ritorsione di Parigi, nel senso che Macron ha colto al volo l’occasione per perseguire gli interessi del suo Paese, in tutta evidenza in contrasto con quelli italiani nella partita del petrolio.
Comunque sia, la partita è delicata e aperta. Bene sarebbe non accentuare la tensione con Parigi. (...)."


sabato 13 aprile 2019

Libia: Cosa Fa Il Figlio Di Gheddafi?

"(...) Secondogenito di Muhammar, erede designato o quasi del padre, più volte Saif viene indicato come colui che appare destinato a continuare a portare avanti il nome dei Gheddafi nel mondo politico libico. Non si vede in pubblico dal giorno della cattura nel sud della Libia nel 2011, condannato a morte e poi graziato, Saif negli ultimi mesi fa sentire la sua voce solo tramite emissari. Da quando è però iniziata la battaglia per la presa di Tripoli, il suo silenzio è diventato ancora più forte e, per questo, anche più rumoroso. (...) "

mercoledì 10 aprile 2019

Segnalazione: Siamo razzisti? O forse siamo stanchi di essere soli? (Nuove Radici)

Segnalo che il sito Nuove Radici ha pubblicato un mio intervento, in cui tento di comprendere alcune delle dinamiche che segnano il difficile rapporto fra italiani e immigrazione.
Spero possa servire a capire, prima di giudicare.

In ogni caso, approfittatene per approfondire la conoscenza di Nuove Radici, un bell'esperimento portato avanti da Cristina Giudici e altri, e che merita di essere seguito

Buon tutto

Francesco Maria Mariotti

"Approfitto della presenza di Nuove Radici.World e degli stimoli che mi sono pervenuti dalla lettura dei vostri interventi per proporre un ragionamento sul perché — di questi tempi — in tanti, temo, abbiamo rischiato di diventare razzisti. Forse razzisti è parola grossa, ma a volte ci si sente “condannati” così, quando si esprimono dubbi sull'immigrazione e sulle politiche di accoglienza; e così ci si sente sempre più soli. Non mi pare di essere affetto da “etnocentrismo” o cose simili, in realtà; ma da “solitudine” sì; e credo di non essere solo, come accennavo: non siamo razzisti ma cittadini che si sentono poco rispettati nella loro intelligenza, da un progressismo (chiamiamolo così, con qualche timore per la semplificazione) che ha fretta (comprensibile, sotto alcuni aspetti, visti i ritardi italiani), ma molto poco “attento” a dinamiche collettive tutto sommato elementari. (...)
È anche per questo che a mio avviso è stato “disastroso”, dal punto di vista politico (e direi etico, se non fosse parola troppo impegnativa), portare avanti la battaglia per una legge — per quanto giusta come potrebbe essere quella sulla cittadinanza — presentandola come un’istanza suprema, spartiacque di civiltà.
Al di là della questione nel merito, la cui complessità non può essere risolta sulla base di slogan, potrebbe anche essere utile tentare di capire alcune reazioni che si provocano nel tessuto sociale: in un momento di grave crisi economica, l’estensione della cittadinanza forse viene percepita anche come ulteriore concorrenza dell’immigrato rispetto al cittadino già italiano.
Si dirà: “ma facciamo pochi figli, gli immigrati ci pagano le pensioni”, e via così dicendo; il che è vero, ma non dovrebbe stupire che sottolineando questa “dipendenza” aumentino ansia e timori, nel confermare la sensazione che l’Italia rischia di non farcela “da sola”. (...)

Andando da richiamo morale a richiamo morale: l’emergenza umanitaria è stata in questi mesi messa spesso al centro dell’attenzione per giustificare l’accoglienza; naturalmente questo è sacrosanto, nel momento in cui donne e uomini fuggono da morte o sofferenze pressoché certe. Ma anche qui, temo che si sia sottovalutato l’impatto duplice e ambivalente di un tale richiamo. (...) 
Un incendio fa paura. Di per sé; e mentre chiamiamo i pompieri comunque guardiamo attentamente cosa succede, e se le fiamme da quel palazzo non rischino di venire verso noi. E se per caso sorge il sospetto che fra quelle persone ci sia proprio uno di quelli che ha usato con leggerezza il gas o i fiammiferi nella casa in fiamme… beh, forse saremmo molto guardinghi nell'accettare la vicinanza dei fuggitivi. Perché sembra così inaudito ad alcuni che i sentimenti si mischino e che gli esseri umani abbiano difficoltà a essere totalmente solidali con chi scappa da una tragedia? Cosa c’è di difficile nel capire che — in una situazione di emergenza — mentre si dà un bicchiere d’acqua, è legittimo e normale (e sano, per un “animale” sociale che si vuole autoconservare!) che “si tenga d’occhio” chi arriva? Che si abbia paura che l’emergenza si scarichi anche su chi aiuta? È una “doppiezza”, un’ambiguità, inevitabile. È legato a questa difficoltà a capire questa mescolanza di cose, mi pare, l’errore più tragico dello schieramento progressista, (...)
c’è chi preferisce inorgoglirsi delle buone azioni, dei richiami contro l’indifferenza, dei paragoni con la seconda guerra mondiale e con la battaglia contro il nazismo. Forse c’è qualcosa di vero, ma si sono persi molti compagni di strada, su questa “via alla santità”. Di fatto aprendo le porte alla situazione attuale, alle “inutili cattiverie” dei porti chiusi, alle decisioni affrettate e dannose sulla protezione umanitaria. (...)"

venerdì 5 aprile 2019

Libia Fuori Controllo? L'Ora Di Haftar?

"La Libia di nuovo ostaggio della guerra. Nel giorno in cui il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, mette piede a Tripoli per la sua prima storica visita nel Paese, Khalifa Haftar dichiara guerra alla capitale. Così il presidente Fayez al Sarraj è costretto a dichiarare l’emergenza nazionale e mettere in allerta i caccia pronti al decollo, mentre le unità anti-terrorismo di Misurata si preparano a stroncare l’avanzata delle unità dell’Esercito nazionale libico comandato dal generale. «Eccoci, Tripoli. Eccoci, Tripoli. Eroi, l’ora é suonata, é venuto il momento» del «nostro appuntamento con la conquista», tuona l’uomo forte della Cirenaica in un messaggio in cui annuncia l’avvio dell’«Operazione per la liberazione di Tripoli». Nell’audio, postato sulla pagina Facebook dell’Ufficio stampa del Comando generale delle Forze armate libiche, il generale dice anche: «Colui che depone le armi é salvo. Colui che resta a casa é sicuro. Colui che sventola bandiera bianca é in sicurezza». (...) La vicenda ha messo in allarme titta la comunità internazionale: Guterres, ha esortato le fazioni libiche ad evitare una escalation per consentire lo svolgimento della conferenza nazionale prevista fra dieci giorni a Ghadames. «Non ci può essere una conferenza nazionale in queste circostanze», ha detto il segretario generale nella punto stampa che era stato programmato proprio da Tripoli nel corso del suo viaggio nel Paese maghrebino. Viaggio che avrebbe dovuto proprio rilanciare gli sforzi del suo inviato, Ghassan Salame, a sostegno dellla «roadmap» per la stabilizzazione della Libia il cui passaggio chiave sarebbe stata la conferenza nazionale prevista a Ghadames dal 14 al 16 aprile. (...)"


"I governi di Francia, Italia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui si dicono profondamente preoccupati per i combattimenti vicino a Garian, in Libia, e sollecitano tutte le parti ad allentare immediatamente le tensioni, che ostacolano le prospettive di mediazione politica delle Nazioni Unite. “In questo momento delicato di transizione in Libia – afferma la nota – le posizioni militari e le minacce di un’azione unilaterale rischiano di spingere la Libia verso il caos. Crediamo fermamente che non esista una soluzione militare al conflitto in Libia. I nostri governi si oppongono a qualsiasi azione militare in Libia e ritengono responsabile qualsiasi fazione libica che faccia scaturire ulteriori conflitti civili”. I governi hanno rinnovato il loro supporto all’Inviato Speciale delle Nazioni Unite, Ghassan Salame, (...)".