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domenica 28 aprile 2019

Cina: che crescita sarà? Più qualità e meno debiti (F.Fasulo, ISPIOnLine)

"Nel 2019 la crescita cinese continuerà il suo processo di graduale rallentamento avviato con l’ingresso della fase denominata New Normal. È questo quello che emerge dal rapporto sull’operato del governo pronunciato il 5 marzo dal Premier Li Keqiang all’apertura della sessione annuale dell’Assemblea Nazionale del popolo durante il quale ha fissato per il 2019 un obiettivo di crescita tra il 6 e il 6,5%. Questo valore è il più basso mai proposto e fa seguito al 6,6% raggiunto nel 2018, a sua volta il valore più basso dal 1990.
L’attenzione del premier cinese è rivolta soprattutto alla gestione delle incertezze senza ricorrere all’indebitamento. Non è un caso, infatti, che il termine che ha avuto maggiore evidenza nelle osservazioni degli analisti sia stato “rischio”, un aspetto che era emerso anche in occasione di un inedito incontro con i vertici di partito convocato dal Presidente Xi Jinping il 21 gennaio di quest’anno. Il timore di Pechino è che il rallentamento dell’economia, rafforzato dagli effetti della guerra commerciale con gli Stati Uniti, possa portare all’insorgere di costi sociali eccessivi. 
Per questa ragione, tra gli obiettivi del governo sono stati individuati la creazione nuovi posti di lavoro – il valore fissato è di 11 milioni di posti nelle sole aree urbane con un tasso di disoccupazione inferiore al 4,5% - e il supporto alle piccole e medie imprese. Le politiche a supporto della volontà del governo in questo campo si manifestano in particolare sotto forma di riduzioni dei costi per le imprese per un valore totale stimato in 2.000 miliardi di Rmb, ovvero circa 300 miliardi di dollari. Una quota importante della diminuzione del carico per le imprese è rappresentata dalle modifiche apportate alle imposte sul valore aggiunto. A partire dal 1° aprile, infatti, l’Iva per il settore manifatturiero è scesa dal 16 al 13%, quello delle costruzioni e trasporti dal 10 al 9%, mentre quello per i servizi che si attesta al 6%, un valore già contenuto, viene confermato ma con l’introduzione della possibilità di maggiori deduzioni.   
Se queste iniziative possono essere lette positivamente nell’ottica del raggiungimento degli obiettivi di crescita fissati, resta aperta la questione sul finanziamento di tali misure. Infatti, contrariamente al dichiarato proposito di non aumentare l’indebitamento gravato dalle politiche dell’ultimo decennio – come conseguenza dello stimolo resosi necessario dopo la crisi economica globale - e oggi prossimo alla soglia del 300% del pil, Li Keqiang ha annunciato nel suo discorso la volontà di portare il deficit di bilancio dal 2,6% del 2018 al 2,8% del Pil per l’anno in corso attraverso investimenti infrastrutturali per 577 miliardi di Rmb e l’emissione di bond a livello locale per 2.150 miliardi di Rmb, in crescita rispetto ai 1.350 miliardi del 2018. Sembra così che Pechino non sia ancora riuscita a trovare una fonte di crescita alternativa agli investimenti pubblici, una prospettiva che potrebbe risultare molto penalizzante per una società che ha bisogno di rafforzare il proprio sistema di welfare alla luce dell’invecchiamento della popolazione e di una economia in transizione che potrebbe comportare la gestione di posti di lavori persi in settori ad alta intensità di lavoro. In aggiunta vi è anche molta incertezza per quanto riguarda l’andamento delle esportazioni, in attesa che le negoziazioni commerciali fra Stati Uniti e Cina attualmente in corso possano finalmente rendere il quadro più chiaro. (...)"

domenica 27 agosto 2017

Testi Utili (Barca, Letta, Kissinger, Fischer)

Alcune citazioni da letture sparse; importanti, anche se in alcuni casi datate, per capire errori e difficoltà di oggi. Nella politica economica e sociale del nostro Paese, e nella politica estera (non solo del nostro Paese).

Francesco Maria Mariotti

"(...) Le riforme non sono state scontate nelle aspettative e, quindi, nei comportamenti degli operatori. Al tempo stesso esse appaiono incomplete. (...) La soluzione del paradosso sembra, allora, risiedere nel fatto che alle riforme non si è associata la condivisione su quale ne fosse lo scopo. È mancato, è la tesi, un sistema di convincimenti e di valori condivisi che consentisse di interpretare in maniera sostanzialmente univoca il cambiamento perseguito; un modello condiviso della società italiana, del suo capitalismo, e quindi della finalità delle riforme. L'attuazione, allora, è avvenuta senza unitarietà di intenti e senza consenso culturale e politico. Le condizioni prospettate dalle riforme non si sono in larga misura realizzate; le aspettative non sono in larga misura cambiate. (...) Da un lato, stavano i 《giacobini》, dall'altra, i 《conservatori》.

I giacobini ci raccontavano la visione di un'Italia da normalizzare, fondata sull'idea che esista un modello unico di capitalismo, (...) I conservatori ci narravano la storia di un'Italia anormale, secondo cui il decentramento e la specializzazione del nostro sistema produttivo, la natura profondamente radicata nei territori delle nostre competenze,  la storia e la cultura del paese, richiederebbero forme diffuse di tutela e protezione dagli impulsi concorrenziali e modalità di governo rivolte a questo scopo. (...)

Il combinato disposto delle due visioni ha concorso alla scarsa efficacia del processo istituzionale.  Giacobinismo e conservatorismo si sono combattuti, validandosi reciprocamente.  Il risultato è stato uno solo: togliere al processo di riforma la base di un convincimento condiviso; togliere ai soggetti privati e pubblici che dovevano attuarlo l'incentivo, e poi anche la passione, per dargli corpo. (...) È venuta a mancare la leva delle aspettative anticipatorie ed è, viceversa,  subentrato nei soggetti privati e pubblici un atteggiamento attendista, che ha eroso l'efficacia delle riforme o la loro stessa attuazione. (...)"

Fabrizio Barca, Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Donzelli, 2006, pp.50-54

***

(...) Se l'Italia vuole raggiungere e superare in competitività i suoi partner e concorrenti,  il concetto di comunità deve diventare l'obiettivo e al tempo stesso il metodo. I valori comunitari non sono più, se visti con lo sguardo lungo, quel vincolo alla competitività del sistema che spesso risuona nei toni di chi pensa che basti la politica delle mani libere sempre e comunque per garantire il successo economico del sistema Italia. Non è così. La comunità è condizione decisiva per la competitività di un sistema.

La competitività non è infatti un obiettivo astratto fatto di cifre e performance. Se sono realmente importanti i criteri che abbiamo definito dell'"ambiente favorevole", questi ultimi richiamano tutti un profondo senso della comunità,  fatto di valori condivisi e di forte senso dell'interesse generale. 

Perché questi sentimenti pervadono il sistema, sono necessarie alcune condizioni. Bisogna che ci siano solide istituzioni per rendere possibile la partecipazione e la condivisione delle scelte. Oggi, per essere solide, queste istituzioni devono garantire la coesistenza della rappresentatività e dell'efficacia decisionale. (...)"

Enrico Letta, La comunità competitiva. L'Italia, le libertà economiche e il modello sociale europeo. Donzelli, 2001, pp. 21-22

"(...) Quando si parla di riforme, si evocano immediatamente tempi lunghi e processi a più fasi. Non si può credere  che le riforme consistano solo nello scrivere norme. È l'applicazione dei disegni riformatori il momento più insidioso. Essa richiede costanza e determinazione. Soprattutto, i due momenti, teoria e prassi, hanno protagonisti spesso diversi, a causa dei frequenti cambi di governo che tradizionalmente caratterizzano la vicenda italiana. È allora importante che si crei, su molte riforme fatte o in corso, un clima di continuità che prescinda dalle asprezza dello scontro politico ed eviti il rischio, tipico della storia del nostro Paese, di prassi che svuotano, nei fatti, le leggi. In competizione, come oggi siamo, non possiamo più permetterci simili incoerenze. (...)"

Enrico Letta, La comunità competitiva. L'Italia, le libertà economiche e il modello sociale europeo, 2001, Donzelli,  pp. 18-19

***

(...) Le difficili scelta della decisione politica sono sempre solitarie. Dove, in un mondo di social network onnipresenti, l'individuo può trovare lo spazio per sviluppare la fermezza necessaria per prendere decisioni che, per definizione, non possono essere basate sul consenso? L'adagio secondo il quale i profeti non vengono riconosciuti dai loro contemporanei è vero in quanto essi operano al di là della concezione corrente;  il che è proprio ciò che ne fa dei profeti. Nella nostra epoca potrebbe non esserci più il 《tempo tecnico》per la profezia. La ricerca della trasparenza e della connettività in tutti gli aspetti dell'esistenza,  distruggendo la dimensione privata, inibisce lo sviluppo di personalità dotate della forza di prendere decisioni solitarie. (...)

La portata globale e la velocità della comunicazione minano la distinzione tra sconvolgimenti interni e internazionali, e tra i leader e le richieste immediate dei gruppi più numerosi. (...)

La tentazione di andare incontro alle richieste della moltitudine che si rispecchia nella comunicazione digitale può prevalere sul discernimento necessario per tracciare una rotta complessa, in armonia con gli obiettivi a lungo termine. La distinzione fra informazione, conoscenza e saggezza si indebolisce. (...)

Se la vecchia diplomazia a volte mancava di offrire sostegno a forze politiche moralmente degne, la nuova diplomazia rischia interventi indiscriminati,  privi di connessione con la strategia. Proclama assoluti morali davanti a un pubblico globale prima che sia divenuto possibile valutare le intenzioni a lungo termine dei protagonisti, le loro prospettive di successo o la loro capacità di dar corso a una politica di lungo termine. (...)

L'ordine non dovrebbe avere la precedenza sulla libertà,  ma l'affermazione della libertà dovrebbe essere innalzata dal livello di umore al rango di strategia. (...)"

Henry Kissinger, Ordine mondiale, Oscar Mondadori, 2015, pp. 349 - 355


"(...) L'Europa, che per lungo tempo si è considerata l'attore decisivo sulla scena mondiale,  rischia nel XXI secolo di diventare una potenza che recita soltanto nei teatri di provincia. Presa in sé, questa tendenza non è nulla di cui si possa lamentare. L'ascesa e il declino di grandi potenze non è una vicenda insolita nella storia e la grandezza non è in sé un valore degno di essere perseguito, però questo declino, sostanzialmente auto-prodotto e fondato su una debolezza "colpevole", è destinato ad avere gravi conseguenze per lo status politico ed economico degli europei. Visti dall'esterno, gli europei oggi sono ricchi, vecchi e deboli,  e questa è una combinazione che in un mondo inquieto e crudele di rampanti affamati non promette sicurezza e tranquillità. Se gli europei non dovessero essere in grado di organizzarsi in modo nuovo e di difendere i loro interessi, non passerà molto tempo e le potenze mondiali del XXI secolo tenteranno di trascinare l'Europa nelle loro rispettive sfere di influenza e di interesse. (...)"

Joschka Fischer, Se l'Europa fallisce?, Ledizioni, 2015, p.106

lunedì 25 agosto 2014

Mario Draghi e l'Europa irriformabile (da Linkiesta.it)

(...) Nessuno dei quattro grandi paesi che adottano l’euro è davvero a posto, nessuno può alzare il ditino o indossare l’aureola del santo. Ma chi è in grado di convincerli a seguire la retta via? È questo il dilemma che Draghi ha posto indirettamente, ma con chiarezza. E si è scontrato contro un muro, perché nessuno oggi ha il potere di farlo, certo non la Ue che è ridotta sempre più a un club di nazioni chiassose e litigiose, ma nemmeno la Bce che pure è l’unica istituzione federale dotata di veri strumenti d’intervento. I cambiamenti principali finora sono stati compiuti sotto la pressione degli eventi, davanti a rischi drammatici come la crisi bancaria del 2008, il crack della Grecia nel 2010 o il collasso dell’euro nel 2012. E sono comunque rimasti cambiamenti a metà, accettati di mal grado dalla Germania che pure vanta il proprio europeismo federalista.

Draghi ha chiesto un’ulteriore cessione di sovranità e vuole un patto per le riforme da accompagnare al patto fiscale. Se si vuole dare all’euro una intelaiatura più solida è un passaggio inevitabile. Ma oggi non c’è consenso né tra i paesi del sud né in quelli del nord Europa. Dunque, la politica economica europea è in un cul de sac. La Bce alla fine sarà costretta a fare come la Fed se arriverà davvero una nuova tempesta finanziaria. Ma senza dietro un paracadute politico, nessuno può garantire che sia davvero efficace. Draghi lo sa e lo ha detto. Anche la sua diventerà una predica inutile?

Il rischio è ancor più forte se si passa alla riforma delle riforme, quella del sistema finanziario dove è cominciato il grande crack. Qui i passi sono stati ben più timidi di quelli compiuti dalle politiche fiscali dei governi. I grandi protagonisti, le megabanche, i supermarket della moneta, i fondi di investimento, hanno continuato ad assumere rischi come se nulla fosse e poco è cambiato del loro comportamento. Sono migliorati gli strumenti di controllo, anche se non a sufficienza, ma sono sempre interventi ex post, nulla che possa in alcun modo prevenire lo scoppio a catena di nuove bolle e una crisi sistemica. (...)

venerdì 13 giugno 2014

Prepotenza, Solo Piccola e Sciocca, E Pericolosa, Prepotenza

Un po' di tempo fa ho scritto: "(...) Forse nella figura "leaderistica" - e un po' populista - di questo Presidente del Consiglio l'italia ritrova la periodica tentazione di credere nel "seducente" obiettivo del "primato della politica". Tale espressione - che affascina perché sembra voler riportare "ordine" nelle dinamiche sregolate dell'economia - purtroppo il più delle volte è semplice copertura di poche idee e poca concretezza, surrogate da "volontarismo" e "velocità". 
L'uscita dalla crisi non può avvenire per improvvisazioni. Il cammino sarà lungo, e le scorciatoie e le furbizie (correre alle elezioni dicendo che questo Parlamento non lo lascia lavorare, per esempio?) non funzioneranno, o faranno danni.(...)" (http://mondiepolitiche.blogspot.it/2014/02/inizio-preoccupante.html)
Di seguito qualche riflessione su quanto sta succedendo, in questi giorni, e che temo confermi quello che poteva sembrare un mio eccesso di pessimismo.

FMM

Senza dubbio c'è del vero in questo ragionamento. Come è noto, anche l'inglese Gladstone ai suoi tempi sosteneva che «tra la propria coscienza e il proprio partito si deve scegliere il secondo». Tuttavia è singolare che il Pd renziano stia riscoprendo oggi una forma di «centralismo democratico» che riporta a una tradizione politica alla quale egli è estraneo. Ma c'è dell'altro. Nel momento in cui s'intende riformare il Senato, è pericoloso dare l'impressione di voler soffocare il dibattito e zittire le voci fuori dal coro: specie quando si tratta di abolire o trasformare radicalmente un'assemblea legislativa. Sotto questo aspetto, il caso Mineo diventa il paradigma di un errore politico.
 
di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/FSjQNY
 
Chiti e Mineo fuori dalla commissione Istituzionale. Come definirebbe questa operazione del Pd?
«Una decisione di Renzi, eseguita da Zanda, perché oggi lo stesso premier l’ha rivendicata dalla Cina. A volte queste cose venivano dalla Bulgaria, ma evidentemente siamo ancora più esotici. È una scelta molto grave dal punto di vista dei rapporti interni del partito e del gruppo. In secondo luogo è un errore politico perché la sostituzione dei due senatori non impedisce che le contraddizioni si manifestino poi in aula, cioè quando si andrà davvero a votare la riforma del Senato. Il testo Boschi passerebbe in commissione, ma non in aula, dove le perplessità riemergerebbero, a maggior ragione dopo l’umiliazione costituzionale di mercoledì. E allora la mia domanda è: “Non è che questa sostituzione di Mineo nasconda le difficoltà di tenuta dell’accordo con Berlusconi? Avrebbe una grande maggioranza con Forza Italia per votare le riforme, quindi perché tanta prepotenza?»
 
Tredici senatori vicini alle sue idee si sono autosospesi dal partito. L’onorevole Corsini ha definito la vicenda «un’epurazione». Casson parla di «metodi militari».Qualcun altro dice che questo è il «renzismo».
«Non userei questi toni. Semplicemente è un momento di superficialità e di prepotenza di chi interpreta questa nuova fase. Un atteggiamento molto grave nella consuetudine e nella conversazione democratica. Ricordo quando i dissidenti erano i renziani. Noi stavamo votando tra mille incertezze il presidente della Repubblica, loro addirittura votavano un loro candidato: Sergio Chiamparino. Martedì Giachetti, il furbo renziano, in aula ha dichiarato di votare con le destre sulla responsabilità civile dei magistrati. E fa il vicepresidente della Camera, non fa il dissidente per conto Pd. Mi sorprende che dal “dissenso strategico” che lo ha portato a scalzare un intero gruppo dirigente del Pd, ora Renzi sia passato ad una logica di ortodossia vecchio stile e molto pesante».
 
Potrei chiedere come fa il governo a sapere che quei dodici milioni di italiani hanno votato specificamente per la riforma Renzi sul Senato. Potrei chiedere di quali elettori si parla. Perché se si parla di quelli che hanno eletto l'attuale Parlamento, allora il Premier attuale non è stato votato e Mineo sì. Se invece parla del voto per le Europee andrebbe ricordato che il pur immenso consenso non è comunque consenso politico diretto.
In ogni caso gli eletti, come abbiamo ricordato di recente in merito alla ondate di espulsioni dal M5S, hanno diritto alla libertà di opinione. Come del resto i militanti di partito - in questo caso, se parliamo al segretario del Pd, mi pare che andrebbe ricordato che in quel partito si è lavorato una vita (del Pd stesso e di varie generazioni di militanti) per affermare il diritto al dissenso interno, con conseguente richiesta di affrontare questo dissenso con pratiche il più possibile lontane dallo stalinismo.
Questi sono naturalmente dettagli. Si sa che i renziani credono che il potere che hanno in mano vada gestito in maniera decisionista. Chi dissente è palude, lo sappiamo.
Tuttavia, visto che la convivenza civile è fondata sulla salvaguardia - che nel suo piccolo riguarda la salvaguardia delle regole - non posso che segnalare che brandire l'investitura popolare come legittimazione ad agire forzando le regole costituisce una tentazione autoritaria. Non farò a Renzi il torto di accostarlo a Berlusconi, perché sappiamo che ha ambizioni e riferimenti storici molto più alti.
Nelle sue idee il paragone è Blair, o Obama. Peccato che anche la traiettoria di questi leader dimostri che il vasto consenso popolare non fornisce un passaporto con il destino. Blair è alla fine caduto nella trappola delle sue forzature (ricordate l'Iraq? In queste ore qualcosa di molto drammatico ce lo ricorda) e Obama in quelle della sua inefficacia.

Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio. (...)
Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.

Ma certo mi stupisce che anche i più strenui difensori del valore dibattimentale a un certo punto crollino. Da ultimo leggevo l’articolo di poche ore fa di Roberto Giacchetti, che ieri da garantista ero molto contento che avesse guidato una fronda interna al PD per fare votare a favore della responsabilità dei giudici (seppure in un decreto omnibus molto arrangiato ma sic). Ecco che invece oggi molla l’idea che ci possa essere una discussione nel merito sulla riforma del Senato. “E innumerevoli volte Renzi ha affermato che il voto sulla sua persona sarebbe stato anche una formale approvazione del suo programma nel quale appunto c’era questa specifica proposta di riforma costituzionale.” O con Renzi o contro di Renzi, qualunque cosa questo significhi.
Ora, uno con un minimo di coscienza democratica, uno con il desiderio di confrontarsi come dire, uno ancora non fulminato sulla via di Rignano sull’Arno, può farmi capire qual è il valore politico in sé di una battaglia contro le minoranze? Qual è il valore politico di una mancata discussione sulla riforma del Senato che coinvolga anche voci dissenzienti come Mineo, Chiti o sì anche Mauro di Per l’Italia? (...)
Essere sul carro del vincitore, credo, generi uno strano effetto galvanizzante. Si va avanti spediti, come alla guida di una macchina di un videogioco automobilistico, o Grand Theft Auto. Intorno i pedoni, gli altri autisti, la gente che incrociamo, che attraversa le strisce, persino quelli che ci stanno a guardare sugli spalti… possiamo spazzare via tutto, senza nemmeno usare troppo il volante, investirli semplicemente spingendo ancora il piede sul pedale. Vogliamo dire che stiamo guidando il Paese avanti, rapidi, sicuri, perché ce ne freghiamo di qualunque cosa che ci passi vicino?


giovedì 29 maggio 2014

La Golden Rule dei sogni (da Phastidio.net)

Pare che il premier Matteo Renzi proverà nuovamente, in sede europea, a chiedere l’esclusione degli investimenti pubblici dal computo del rapporto deficit-Pil. Si tratta di una antica aspirazione dei politici italiani, sinora sistematicamente frustrata perché più che altro rimasta nel libro dei sogni, essendo stata sempre ignorata a livello comunutario. Cambierà qualcosa, oggi?
L’idea di Renzi sarebbe quella di escludere dal calcolo gli investimenti pubblici, inclusi quelli per scuola e ricerca. Inoltre, il premier italiano vorrebbe escludere dal calcolo del deficit-Pil anche il cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali europei. Questi ultimi si svolgono in regime di matching funds, cioè per ogni euro erogato dalla Ue vi è un euro di spesa pubblica da parte del paese destinatario. All’Italia arriveranno, tra il 2014 ed il 2020, fondi comunitari pari a 43 miliardi di euro, ed altrettanti dovranno essere messi dal nostro governo. Metterli a deficit potrebbe dare un aiutino, ma solo se tali fondi avranno impatto elevato in termini di efficacia di sistema sulla crescita.
Il problema di queste iniziative politiche è sempre quello: la definizione di ciò che è “investimento”, ed i relativi margini per giochetti contabili nazionali. L’occasione fa il governo ladro (letteralmente), e ci vuole davvero poco per camuffare spesa corrente in spesa per investimenti. Quindi, ammesso e non concesso che il paese sia in grado di spendere in modo efficace ed efficiente i fondi comunitari (la vera rivoluzione di cui avremmo bisogno), servirebbe comunque una supervisione molto stretta da parte della Ue, ad evitare abusi e frodi contabili. Per ottenere ciò si potrebbe pensare quindi a mettere in campo lo strumento degli accordi di partnership bilaterale, già vagheggiato dalla Merkel.
Solo che la declinazione tedesca di questi accordi era quella di una camicia di forza e di una sorta di “nuovo memorandum”, per niente light, per paesi che non sono in assistenza della Troika, mentre Renzi non si spinge a dettagliare le modalità di controllo ma vuole solo ottenere “flessibilità contro riforme”. (...)

lunedì 16 dicembre 2013

Dove va l'Irlanda? (da ilPost)

Domenica 15 dicembre l’Irlanda è uscita dal programma di aiuti europei (il cosiddetto “bailout”) cominciato tre anni fa in seguito allo scoppio della crisi finanziaria. Da allora, l’Irlanda aveva ricevuto una serie di prestiti pari in tutto a 85 miliardi di euro. Questi prestiti sono stati concessi in cambio di alcune misure fiscali, un esempio della cosiddetta “austerity” che ha riguardato diversi altri paesi europei.

Da adesso, l’Irlanda tornerà a fare affidamento sul mercato per finanziare la propria spesa pubblica. Il paese sta attraversando un momento di ripresa economica, ma, come fanno notare quasi tutti gli osservatori, si tratta di una ripresa ancora fragile. Nonostante questo, il governo ha già promesso che dall’anno prossimo le tasse, alzate fino a raggiungere il record storico durante la crisi, saranno abbassate.

L’uscita dal programma di aiuti ha fatto tornare attuale una discussione che divide da molto tempo gli economisti, i commentatori e la stessa Commissione europea: l’Irlanda è davvero la dimostrazione che austerity più riforme incisive possono salvare un paese dalla crisi e riportare la crescita economica?

La crisi dell’Irlanda
Il Financial Times ha scritto che l’uscita dell’Irlanda dal programma di aiuti è un segno dell’importanza di rimuovere i legami tra lo stato e le banche. Nel 2010, infatti, il bilancio dell’Irlanda era in una situazione ancora gestibile, ma le sue banche si trovavano in una profonda crisi. Il governo intervenne per aiutarle in una maniera che si rivelò poi disastrosa.
La soluzione scelta per salvare il sistema finanziario dal governo dell’epoca – legato ai dirigenti e ai proprietari di diversi istituti bancari – fu di garantire completamente i debiti di sei banche. Questa garanzia si rivelò immensamente più costosa di quanto il governo aveva immaginato. In sostanza, il debito delle banche divenne debito dello stato, che passò in pochi anni dal 25 per cento del PIL all’attuale 124 per cento. A causa di questa situazione, alla fine del 2010 l’Irlanda chiese l’aiuto dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale e cominciò ad adottare una lunga serie di misure di austerità. (...)

venerdì 15 novembre 2013

Abe In Dieci Punti (da ilSole24Ore.it)

​Vediamo in dieci punti luci e ombre, risultati positivi e aspetti problematici di un esperimento di politica economica e fiscale che ha suscitato grande attenzione internazionale come un modello alternativo _ sia pure rischioso _ per rilanciare la crescita economica in un Paese avanzato ad altissimi livello di indebitamento. Alternativo soprattutto rispetto alle politiche prevalenti nell'Eurozona, da molti considerate insufficienti o anche controproducenti
 
di Stefano Carrer - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/F92HC