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sabato 5 dicembre 2020

Mes, cos'è e cosa prevede la riforma (AdnKronos)

"L'Esm o Mes, Meccanismo Europeo di Stabilità, è il meccanismo per la risoluzione delle crisi creato nel 2012 per gli Stati dell'area euro. Serve a fornire assistenza ai Paesi dell'Eurozona che hanno seri problemi finanziari; raccoglie fondi sul mercato dei capitali e mediante transazioni sul mercato monetario. Non è finanziato da denaro dei contribuenti, capitale a parte: si finanzia sui mercati, emettendo obbligazioni. (...) 

BACKSTOP - Tra questi obiettivi, c'è anzitutto il backstop , cioè la garanzia di ultima istanza, per il Single Resolution Fund (Srf), o Fondo Unico di Risoluzione: quest'ultimo è un fondo, finanziato dalle banche stesse e non dai contribuenti, che interviene per 'risolvere', come si dice in gergo, le banche fallite. Questa garanzia (backstop) dovrebbe essere fornita dall'Esm, con una linea di credito che fa, appunto, da garante di ultima istanza, cioè nel caso in cui l'Srf si trovi a corto di fondi. La sua esistenza dovrebbe contribuire a scoraggiare attacchi speculativi.

Il backstop, nelle intenzioni originarie, sarebbe dovuto entrare in vigore, entro il primo gennaio 2024; ora dovrebbe entrare in vigore prima, a inizio 2022, avendo le banche fatto progressi sufficienti nella riduzione degli Npl, come vengono detti in gergo i crediti deteriorati. Le banche del Sud Europa, specie in Italia quelle più grandi, hanno in gran parte ripulito i bilanci dalle sofferenze eredità della passata crisi, e ora dovranno caricarsi quelle che verranno prodotte dalla crisi in corso. (...)

LINEE DI CREDITO AGLI STATI - Il Mes ne ha a disposizione di due tipi, le Precautionary Conditioned Credit Lines (Pccl) e le Enhanced Conditions Credit Line (Eccl); la riforma punta a rendere le prime più "efficaci".

Le linee del Pandemic Crisis Support creato nella prima metà del 2020 per aiutare gli Stati a combattere la pandemia di Covid-19, e finora inutilizzate, non fanno parte della riforma.

Le Pccl sono a disposizione di Stati membri dell'area euro con fondamentali economici "solidi", ma che vengono colpiti da choc avversi al di là del loro controllo. La Pccl funziona come una polizza di assicurazione: in pratica, l'assunzione di base è che il fatto stesso che esista sia sufficiente a placare i mercati; in questo modo, non ci dovrebbe essere neanche bisogno di utilizzarla.

In poche parole, le Pccl servono a disinnescare le crisi, impedendo che diventino più gravi  (...)

Chi richiede la Pccl non dovrà firmare un memorandum d'intesa e fare riforme, ma firmerà una lettera di intenti, in cui si impegna a continuare a rispettare tutti i criteri di eligibilità; il rispetto degli stessi verrà valutato ogni sei mesi. Se un Paese membro del Mes non rispetta più i criteri, allora la linea di credito viene interrotta, a meno che il board non decida per consenso di mantenerla.

Il Paese cui viene recisa la linea di credito può comunque chiedere un altro tipo di aiuto dall'Esm. I membri dell'Esm che non rispettano i criteri per la Pccl possono chiedere la Eccl, Enhanced Condition Credit Line; devono comunque avere una situazione economica e finanziaria "solida". Il Paese che richiede una Eccl deve siglare un memorandum d'intesa, con cui si impegna a rispettare le condizioni previste dal memorandum stesso.

Il Paese si impegna ad adottare misure correttive che affrontino le sue debolezze e per evitare problemi futuri per quanto riguarda l'accesso ai mercati. Quando ottiene una Eccl oppure preleva da una Pccl, il Paese è soggetto a sorveglianza aumentata da parte della Commissione Europea, sorveglianza che copre le condizioni finanziarie del Paese e il suo sistema finanziario. Queste regole esistono dal 2012 e rimangono invariate nel trattato che dovrebbe emergere dalla riforma. 

LE CACs - C'è poi il capitolo delle Cacs, le clausole di azione collettiva (Collective Action Clauses, previste nei titoli di Stato: consentono di cambiare le condizioni contrattuali a maggioranza, rendendo i cambiamenti efficaci per tutti i titoli, non solo per quelli detenuti da coloro che hanno acconsentito ad una ristrutturazione.

Le Cacs esistono da anni (vengono previste nei titoli di Stato dell'Eurozona, quindi anche nel nostro debito, fin dal 2013) e non sono un'invenzione della riforma; sono state introdotte per rendere più facili e ordinate le ristrutturazioni dei debiti sovrani.

Le Cacs sono essenzialmente uno strumento per rendere più gestibile, rapida e ordinata, per quanto possibile, la ristrutturazione di un debito, senza che rimanga incagliata per anni per via di cause giudiziarie. Attualmente, le Cac sono 'Double-Limb': prevedono cioè, per cambiare le condizioni contrattuali e rendere le condizioni di ristrutturazione efficaci erga omnes una doppia maggioranza, una al livello di ogni serie di titoli e l'altra a livello di tutte le serie combinate.

Con la riforma verrebbero introdotte le Single-Limb Cacs, che prevedono solo la seconda delle due maggioranze, rendendo così meno probabile la formazione di minoranze di blocco tra i bondholders, minoranze che possono ostacolare la ristrutturazione del debito. Le Single-Limb Cacs verrebbero introdotte a partire dal primo gennaio 2022. Su questa parte della riforma, come su quella relativa alle linee di credito, incidono le tradizionali preoccupazioni dei Paesi nordici, che vedono i rendimenti dei titoli di Stato come un utile freno alle supposte tendenze dei Paesi mediterranei ad allargare i cordoni della borsa. (...)

RUOLO DELLA COMMISSIONE E DEL MES - Tornando alla riforma, il Mes, nell'ambito della ristrutturazione di un debito, può, se richiesto dallo Stato stesso, facilitare il dialogo tra il Paese e gli investitori privati. Nei prossimi programmi di assistenza finanziaria, l'Esm avrà un ruolo maggiore, specie nel delineare la condizionalità politica: ogni memorandum d'intesa verrà firmato sia dalla Commissione che dal direttore dell'Esm.

Commissione e Mes prepareranno insieme le valutazioni necessarie ai nuovi programmi. Nel caso in cui il Mes e la Commissione non concordino sull'analisi di sostenibilità del debito, la seconda sarà responsabile dell'analisi, il primo valuterà la capacità del Paese di rimborsare l'Esm. Il nuovo trattato sull'Esm entrerà in vigore solo dopo la ratifica in tutti i 19 Stati membri, il che comporta il via libera dei Parlamenti nazionali, dopo la firma nel gennaio 2021.

https://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2020/11/30/mes-cos-cosa-prevede-riforma_NLGSSd4RvKQIdhoRtJ5u2K.html?refresh_ce


Mes, cosa prevede la riforma? Le modifiche e il significato per l’Italia (Federico Fubini, Corriere della Sera - Economia)

"(...)  vale la pena vederne almeno i cinque aspetti salienti: tre rilevanti perché sono stati varati dall’Eurogruppo lunedì scorso e due rilevanti proprio perché non fanno parte della riforma (anche se alcuni Paesi avrebbero voluto introdurli). Vediamo dunque prima di tutto cosa c’è nella riforma del Mes e poi cosa non c’è.

1. Il paracadute per le banche

La riscrittura del trattato sul Mes introduce la possibilità di anticipare all’inizio del 2022, cioè di fatto fra un anno, il cosiddetto «backstop» al Fondo unico di risoluzione per le banche. Di che si tratta? Si può pensare al «backstop» come a un paracadute finanziario, le cui risorse proverrebbero dal Mes, da aprire quando una banca in dissesto va smantellata, ma le risorse disponibili per farlo in modo ordinato - cioè mantenendo l’operatività per i clienti - non bastano. (...)


2. Le «clausole di azione collettiva» sul debito

Le CACs, o clausole di azione collettiva sul debito, sono già inserite dal 2013 nei prospetti che fissano i termini contrattuali di tutti i bond emessi da Stati dell’area euro con maturità di un anno e oltre. Sono peraltro ormai pratica molto diffusa a livello internazionale. Queste clausole dicono in pratica una cosa sola: lo Stato emittente può modificare i termini del bond che ha emesso (per esempio, decide di rimborsarlo dopo o di rimborsarlo in parte, in sostanza decide una forma di default) se c’è l’approvazione di una maggioranza qualificata dei suoi creditori. L’iniziativa dev’essere sempre dello Stato in questione e presumibilmente viene presa solo quando quest’ultimo è in profonda crisi finanziaria, schiacciato dal proprio debito e incapace di trovare nuovi prestiti sul mercato per rimborsare regolarmente i vecchi. Le CACs essenzialmente servono a rendere il processo di default più ordinato, prevedibile e senza trattamenti di favore o discriminazioni verso singoli creditori.

Ma quale è la novità nella riforma del Mes? L’esperienza dei default degli Stati mostra che, quando questi avvengono, ci sono sempre fondi speculativi che comprano i bond coinvolti a valori frazionali (per esempio, cinque centesimi quando il valore teorico di rimborso regolare sarebbe un euro) e rifiutano l’offerta ristrutturata di rimborso da parte dei governi in crisi (per esempio, trenta cent invece di un euro). Sono i cosiddetti «holdout» (i «resistenti»), che non di rado fanno appello ai tribunali per ottenere pieni rimborsi anche molti anni più tardi. Per esempio, nel default dell’Argentina del 2005 i fondi speculativi «holdout» dopo dieci anni riuscirono a farsi rimborsare al 100% bond per venti miliardi di dollari (mentre molti piccoli risparmiatori italiani restarono quasi interamente bruciati). E nel default della Grecia del 2012 alcuni degli stessi «holdout» riuscirono a fare lo stesso con 6,5 miliardi di euro di titoli di Atene, mentre i cittadini italiani e europei contribuirono a pagarli tramite costosissimi salvataggi a ripetizione.

Per rendere le ristrutturazioni del debito meno soggette ai raid degli «holdout», la riforma del Mes introduce un meccanismo già raccomandato dal Fondo monetario internazionale: le votazioni singole, le cosiddette «Single-Limb CACs». Di che si tratta? In sostanza, per uno Stato che vuole ristrutturare il debito si introduce la possibilità di mettere la decisione sulla ristrutturazione con un unico voto di tutti i creditori. Non più dunque doppio voto come oggi («Double-Limb CACs») in cui prima votano i detentori di ogni singolo bond e poi votano insieme tutti i detentori di tutti i bond. Questo sistema a doppio voto dà ai fondi speculativi la possibilità di comprare a prezzi di saldo, per esempio, il 40% di un singolo bond e bloccare la decisione di ristrutturarlo, se essa necessita del 70% dei consensi. La mossa successiva degli «holdout» sarà poi andare in tribunale per farsi restituire il 100%. Ma questo significa che tutti gli altri creditori dovranno subire perdite ancora maggiori, proprio perché le risorse di quello Stato in default sono comunque limitate. (...)


3. Le linee di credito precauzionali

Si tratta di linee di credito più leggere a titolo precauzionale se uno Stato minaccia di finire in difficoltà, ma non ha ancora perso l’accesso ai finanziamenti di mercato. Come sempre, la decisione di richiede il prestito del Mes spetta solo e soltanto al governo interessato. In teoria - anche se è poco plausibile - un governo a corto di liquidità per pagare pensioni e stipendi potrebbe anche decidere di chiedere un prestito alla Cina, al Fondo monetario internazionale o di fare default e non onorare i propri impegni finanziari (ma questo gli renderebbe impossibile trovare altri prestiti in futuro). Le linee «precauzionali» (che esistono già da anni) vengono naturalmente molto prima di questi scenari drammatici. (...)


Ma altrettanto importante è sottolineare quello che nella riforma del Mes non c’èO magari poteva esserci ma alla fine non è stato inserito.

4. Nessun «bail-in» del debito pubblico

Non c’è nella riforma del Mes alcun «bail-in» del debito pubblico, come inizialmente richiesto da molti in Germania o in Olanda. L’idea era che, prima di ricevere l’assistenza del Mes, uno Stato fosse obbligato in via preliminare a fare default sui suoi creditori esistenti. Questa proposta non è entrata nella riforma del Mes: si è valutato che avrebbe reso più nervosi gli investitori, alzato gli interessi di mercato sul debito pubblico dei Paesi fragili e reso una crisi più probabile. Ci sarà invece una valutazione preliminare di sostenibilità del debito ad opera della Commissione europea e dello stesso Mes. Ma questo cambia molto poco rispetto alla situazione attuale e alla normale pratica di organismi del genere, per esempio del Fondo monetario internazionale.

5. La Commissione Ue ultimo arbitro

Non c’è nella riforma del Mes un trasferimento dei compiti di sorveglianza di bilancio dalla Commissione europea (organismo comunitario, che decide a maggioranza) al consiglio del Mes (organismo intergovernativo, che decide con diritti di veto di ciascuno degli Stati sulle scelte più importanti). In sostanza Paesi «frugali» come Olanda o Finlandia non potranno divenire arbitri ultimi della misura in cui l’Italia rispetta o non rispetta le regole di bilancio. Lo sarà sempre la Commissione europea, più abituata al negoziato e ai compromessi. Anche questa richiesta era stata avanzata da ambienti dell’Europa del Nord, ma è stata respinta. Il direttore generale del Mes avrà il compito di preparare le decisioni sui singoli Paesi da parte del consiglio dell’ente. Ma questo cambia poco rispetto alla situazione attuale. (...)"


https://www.corriere.it/economia/finanza/20_dicembre_03/mes-cosa-prevede-riforma-modifiche-significato-l-italia-34487b72-34b5-11eb-b1bc-a76a672bf85e.shtml

lunedì 26 gennaio 2015

L'Europa (Forse) Sta Cambiando - Rassegna Stampa

Per carattere e per scetticismo innato nelle possibilità della politica, andrei cauto ad entusiasmarmi per la vittoria di Syriza in Grecia, e forse anche per il QE di Draghi; sicuramente sono segnali molto positivi ma tutt'altro che risolutivi. Ritorno alla politica contro la tecnocrazia? difficile crederlo possibile; il braccio della politica in Grecia si è rafforzato, ma per il momento di sole parole e consenso; la tensione con le autorità che devono sorvegliare il debito greco non si risolve né con i comizi né con i voti. E la torsione "di sinistra" di Syriza può sempre rischiare di alimentare prospettive ben più reazionarie (si veda il discreto successo di Alba dorata).

Comunque è stato importantissimo che si siano rese più "visibili" le sofferenze dei cittadini greci, e quindi la necessità urgente di riformulare il percorso di uscita dalla crisi. Se i politici - greci, ma anche nostri per quel che ci riguarda - eviteranno di farsi illusioni, si potrà fare un percorso utile e positivo per tutti. 

Le rivoluzioni annunciate sovente falliscono: meglio calibrare con attenzione obiettivi e reale potere; e forse sarebbe meglio cominciare a costruire una politica europea degna di questo nome. Di seguito alcuni articoli per approfondire la situazione in Grecia e cosa aspettarsi dalle manovre dello Zar Draghi.

Francesco Maria Mariotti

ps: prima di tutto, però, un articolo sul Presidente che verrà...
Vorremmo, poi, un Presidente che sappia servire in maniera privilegiata i più deboli: se è vero, come sostenevano don Loreno Milani e la sua Scuola di Barbiana, che “non c'è niente di più ingiusto che trattare i diseguali da eguali”, il Capo dello Stato dovrà essere attento alle disuguaglianze, vigile nel segnalarle, di stimolo nel superarle, perché cresca la distribuzione dei beni e dei servizi a vantaggio di tutti, e nessuno sia escluso dai diritti di cui da cittadino della Repubblica deve poter godere, da quello alla vita, alla casa e al lavoro, al diritto alla salute, allo studio e alla partecipazione alla vita politica e sociale del Paese.
di Bruno Forte - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/4ejE7Y

***
GRECIA

Eppure, Tsipras non ha mai ricordato che senza l’Ue non sarebbe stato possibile ottenere oltre 240 miliardi di euro. Non ha mai ricordato che senza il supporto della Bce le banche elleniche sarebbero collassate sotto il peso della pressione dei mercati finanziari nella fase più severa della crisi. Ma soprattutto, non ha mai ricordati ai suoi elettori che rinegoziare i patti, o memorandum of understanding, sottoscritti con la troika significa uscire de facto dall’eurozona. Il motivo è semplice. Dato che ogni erogazione finanziaria deve essere il frutto di un patto fra il Paese e il prestatore, se essi vengono meno chi potrà mai finanziare, ai prezzi attuali, la Grecia sui mercati obbligazionari? Nessuno. Perché il concetto di premio per il rischio, quando si parla di bond governativi, è ben ricordato dagli investitori internazionali. Più un Paese è incerto, incapace di avere una prospettiva di lungo periodo e poco credibile, più dovrà pagare per collocare i propri bond. Ed è indubbio che sul mercato obbligazionario il cappello di protezione della troika ha giovato alla Grecia, dato che i rendimenti dei suoi titoli di Stato si sono ridotti in modo significativo dall’inizio della crisi a oggi. Tsipras però questo non lo rammenta di proposito. Quello che è certo è che se ne renderà conto in fretta. Più cresce l’incertezza legata al destino del Paese, più i mercati saranno sotto stress. E l’unica rete di protezione talmente forte da contrastare queste spinte è l’area euro. Ecco perché Tsipras dovrà negoziare con la troika, dopo averla attaccata a lungo. Potranno esserci delle concessioni, ma il pacchetto di misure strutturali da introdurre non muterà.

Alexis Tsipras non cambierà l’Europa. E nemmeno la Grecia. Ne sono convinti tanto i mercati finanziari quanto i policymaker europei. Nonostante gli annunci choc e gli attacchi diretti alle politiche comunitarie, Syriza non potrà far marcia indietro rispetto a quanto sottoscritto dal Paese con la troika composta da Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Commissione Ue. Perché se così accade, Atene corre il rischio di ritornare al centro della crisi dell’eurozona. Senza le protezione europee, però.

Quei due milioni, così, non solo agitano lo spettro - a Berlino e in parte anche a Bruxelles - di un nuovo governo che getti a mare le imposizioni della troika e le politiche di austerità dettate, ma vengono già accolti dalla sinistra radicale in tutta Europa come il segno - anzi l’annuncio salvifico - di un cambiamento possibile. E del resto se un messaggio arriva dalla Grecia è quello che di troppa austerità si muore; o almeno muore politicamente chi governa, schiacciato ad esempio dal peso dei 300 mila cittadini che su una popolazione di 11 milioni di persone non possono più permettersi l’energia elettrica.
Germania in arrocco e Grecia in attacco, dunque. E il resto dell’Europa?​

È stato detto che la Grecia è troppo piccola perché la sua uscita dall’eurozona abbia effetti irreparabili sulle sorti dell’euro e dell’Unione Europea. Sarebbe forse vero se l’economia fosse soltanto cifre e la politica un teorema basato su fattori esclusivamente quantitativi. Ma la Grecia è anche altre cose che la buona politica non può ignorare. È una parte essenziale della nostra storia, della nostra cultura e di quella che, con parola abusata ma particolarmente adatta in questo caso, viene definita identità. Se l’Ue vuole essere molto più di una semplice alleanza, non è realistico pensare che i grandi Paesi, dagli Stati Uniti alla Cina, reagirebbero distrattamente all’abbandono di Atene. Penserebbero che l’Europa di Bruxelles e Strasburgo è soltanto una costruzione utilitaria e contingente, priva di qualsiasi motivazione ideale, pronta a sbarazzarsi del più vecchio dei suoi passeggeri se la barca s’imbatte in una tempesta. E da questa constatazione trarrebbero inevitabilmente conclusioni negative sull’autorità e sull’affidabilità del progetto europeo. 



Chi è Alexis Tsipras
Tsipras è nato ad Atene il 28 luglio del 1974, quattro giorni dopo la caduta della dittatura dei Colonnelli: ha una compagna, due figli, vive in periferia e si è laureato nel 2000 in ingegneria all’Università di Atene (il padre era un imprenditore edile vicino al Pasok). Tsipras ha iniziato a fare politica alla fine degli anni Ottanta con il movimento dei Giovani comunisti greci, durante l’università era diventato membro del sindacato degli studenti (riuscendo a vincere contro il governo la battaglia per il ritiro di una controversa riforma scolastica) e, dopo essersi allontanato dal partito comunista, nel 1999 era stato eletto segretario dell’area giovanile del partito della sinistra radicale, Synaspismós.


Un’ultima nota, per tornare da Atene a Roma. La vittoria di Syriza deve servire per costruire un’Europa più plurale, aperta, fondata sul lavoro che genera crescita e su una solidarietà fra popoli che fa di essi un solo popolo federato. Non può, non deve servire, a giustificare la mancanza d’impegno nel rendere sostenibile la finanza pubblica nazionale e nel mettere ordine in situazioni contabili, politiche e di distribuzione delle risorse grandemente sbilanciati e nel medio periodo non più sostenibili. Dobbiamo, insomma, negoziare con i tedeschi per un’Europa più equilibrata come se non ci fossero debolezze errori e lacune nazionali; ma al contempo dobbiamo combattere i disordini, la spesa pubblica inutile e le troppe tasse su chi lavora e produce che servono per mantenerla, le clientele e le corruzioni di casa nostra, come se non fosse l’Europa a chiedercelo, ma la premura per il nostro futuro. Che è poi la verità: ad Atene, come a Roma.

BCE 

Quello della Bce sarà un Qe differente da quelli osservati finora. Prima di tutto, come ha spiegato Goldman Sachs, per via del contesto. “Il Qe della Bce è diverso e non solo a causa della mancanza di unità dell’area euro. Tassi nominali e rendimenti a termine sono già molto più bassi rispetto agli Stati Uniti prima dei suoi programmi di Qe”, spiegano gli analisti della banca americana. Inoltre, “i tassi reali sono molto più bassi che in Giappone prima che iniziasse il passaggio al Qqe (Qualitative quantitative easing, ndr)”. Infine, continua Goldman Sachs, “la Bce si trova ad agire in un contesto con aspettative di mercato sull’inflazione decisamente diminuite in tutto il mondo e rafforzate dal calo del prezzo del petrolio”. Sotto un profilo operativo, conclude Goldman Sachs, il Qe nella versione di Draghi “può fornire un maggiore supporto se è in grado, da un lato, di restringere gli spread del credito sovrano nei Paesi periferici e, dall’altro, di convincere il mercato ad aumentare le aspettative di inflazione più a lungo termine”. Traduzione: deve convincere gli investitori sull’inversione di rotta nella zona euro e sul ripristino del corretto meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Un compito non facile.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Com'è accaduto negli altri Paesi, questa forte iniezione di liquidità indurrà le banche a rivedere la composizione del loro attivo e i capitali privati a spostarsi su investimenti più rischiosi, principalmente azioni e obbligazioni ad alto rischio. In assenza di sorprese dalla Grecia, quindi, la reazione positiva dei mercati azionari dovrebbe continuare, così come la discesa del tasso di cambio. Ciò fa parte degli effetti voluti, e del meccanismo con cui il Qe si trasmette all'economia reale.
di Guido Tabellini - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/tI7Amq

Ma c'è un contesto storico di più ampio respito. Nel lungo percorso verso l'unificazione europea, l'azione di Draghi rappresenta una svolta equiparabile a quella di Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti che elaborò le fondamenta economiche del paese con la sua “triologia” scritta fra il 1790 a il 1793: a) sulla necessità di creare una Banca Centrale (che venne però oltre un secolo dopo); b) sul consolidamento del debito pubblico (dopo i forti indebitamenti per la guerra di Indipendenza dagli inglesi); e c) sulle manifatture, sull'importanza di “proteggerle per rafforzarle”. C'era anche un quarto rapporto, minore, una zecca autonoma.
di Mario Platero - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Cp8Q8R

L’acquisto da parte della Bce e delle Banche centrali nazionali di titoli di istituzioni europee (Esm ed Eib) e di titoli di stato limitatamente al 20% del totale con solidarietà nel rischio condivisa è stato visto dai più come un vulnus all’unità del Sistema europeo di Banche centrali. Potrebbe però essere letto anche come una premessa per il varo di quegli eurobond senza i quali l’Eurozona non potrà mai fare una politica fiscale, di bilancio e di investimenti (pubblici) che è essenziale per l’integrazione sia politica che dell’economia reale.
di Alberto Quadrio Curzio - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8Sw4t3

Tutto ciò premesso, ci sono altri effetti collaterali del QE della Bce da analizzare. Il primo è quello tradizionale di operazioni di questo tipo: quando una banca centrale compra debito pubblico domestico, su di esso incassa le cedole. Che accade a queste cedole? Che vanno a contribuire all’utile della banca centrale, che viene poi girato secondo statuto al Tesoro nazionale. Il fatto che la Bce abbia precisato, giovedì pomeriggio, che le cedole non potranno essere corrisposte immediatamente al Tesoro, non cambia la sostanza delle cose. Quell’utile di Banca d’Italia finirà sotto forma di “dividendo” al Tesoro, mediato assieme alle altre determinanti dell’utile della banca centrale. Salvare la forma per offuscare la sostanza. E qui, la considerazione sorge spontanea: confidiamo che la Banca d’Italia non andrà a beneficiare con questo utile da QE anche le banche private sue azioniste: sarebbe un assoluto non senso, oltre che una presa in giro.

Altra perla politica di Draghi è l’aver minimizzato i rischi della ridotta mutualizzazione dell’operazione affermando che, se mai vi fossero default, le singole banche centrali nazionali hanno comunque cuscinetti di capitale più che sufficienti per assorbire le perdite sui titoli di stato da esse acquistati. Ma un programma ben costruito non è necessariamente un programma efficace. Le forze deflazionistiche continuano a soffiare forte; il QE arriva comunque molto tardi; la crescita globale, con l’eccezione (sinora) degli Usa è in rallentamento; il sistema finanziario dell’Eurozona resta fortemente bancocentrico, e ciò attenua l’efficacia delle misure.

mercoledì 25 giugno 2014

Il Nodo E' Il Debito (da ilSole24Ore)

(...) La Bundesbank ha già lanciato l'allarme e chiesto di «rafforzare» anziché «allentare» le regole di bilancio. Renzi e Hollande dovrebbero stanare Sigmar Gabriel, capo dell'Spd, e farlo uscire dall'ambiguità. Fu Gabriel, dopo il vertice dei partiti a Parigi, ad annunciare la strategia di dilazione dei tempi in cambio di riforme di cui si discute fin dal 2013 sulle ceneri della proposta degli «accordi contrattuali» cara alla cancelliera. A ben vedere la distanza tra le parti non è grande. Infatti, come è noto ai lettori di questo giornale, i margini di allentamento dei vincoli del deficit non hanno mai messo in discussione il tetto del 3% sopra il quale scatta inesorabile una procedura di infrazione che irrigidisce le politiche di bilancio. La dilazione riguarda invece i tempi di rientro del debito. Si tratta di evitare la riduzione automatica annuale di un ventesimo dell'eccesso di debito che dovrebbe scattare dal prossimo anno. Una riduzione più graduale del debito implica anche un deficit più vicino al 3% che allo zero, giustificabile dai molti caveat inclusi nei trattati. (...)
 
di Carlo Bastasin - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/bPbZb2

martedì 17 giugno 2014

Argentina Chiama Europa? Ancora Rischio Default?

Fra pochissimo l'Argentina potrebbe di nuovo tornare sulle nostre prime pagine come protagonista negativa di una crisi finanziaria. La speranza è che si trovi una soluzione alternativa che riesca a convincere i creditori che non avevano aderito a precedenti soluzioni e che hanno ottenuto da un tribunale americano sentenza favorevole a un pagamento immediato dei debiti (in un articolo del Sole si ipotizzava un accordo extragiudiziario).

Al di là dei passaggi tecnici, di nuovo appare sulla scena il timore di un default per il paese sudamericano.

E per noi? Lo spettro del default - sia pure per dinamiche diverse da quelle argentine - è cosa superata?

Sì e no, mi pare il caso di dire, da inesperto: sì, potremmo dire che un rischio specifico per l'Italia come "sorvegliato speciale" si sia molto ridotto; no, perché in realtà il problema della compatibilità fra gestione del debito pubblico e scenari politici accettabili per le democrazie occidentali, rimane aperto, per noi e per tutta l'Europa.

Ne parla ampiamente il sempre interessante Mario Seminerio in un articolo che propongo alla lettura.

Ritorna il problema di un'azione più incisiva della Banca Centrale Europea? Ma allora è necessario che l'Europa decida di essere qualcosa di diverso

Sarebbe meglio fare passi in avanti prima di arrivare ancora sul ciglio del burrone.

FMM

(...) In Eurozona, oltre al credit crunch bancario, abbiamo un eccesso di debito privato che di fatto non è ancora neppure stato scalfito. Anzi, la profondità della recessione ha messo pressione a questi rapporti di indebitamento. Ad esempio, il debito privato portoghese, in percentuale del Pil, è passato dal 226,4% del 2009 al 220,4% di fine 2013. E’ evidente che, con simili numeri, cercare crescita è puramente velleitario. Non solo: sempre in modalità “è nato prima l’uovo o la gallina?”, l’alto rapporto di indebitamento contribuisce a tenere depressa la crescita, che a sua volta mette pressione al rialzo all’indebitamento medesimo, almeno sin quando non si giunge al punto di rottura e scoppiano i default, personali ed aziendali.

Che a loro volta impattano pesantemente sui conti pubblici. Il tutto viene ulteriormente amplificato dalle pressioni disinflazionistiche/deflazionistiche necessarie al processo di aggiustamento europeo. Secondo Münchau (ed anche secondo il buonsenso), il rischio che si giunga a default per evitare sollevazioni popolari ed esiti elettorali “irrazionali” è destinato a crescere.
Da qui tutte le trasformazioni al quadro istituzionale che stiamo vivendo in Europa, prima fra tutte la nuova “regola del cerino” sulla risoluzione delle banche in dissesto:
«Non sono sicuro che gli investitori comprendano. Né sembrano comprendere le implicazioni della recente legislazione Ue, che stabilisce una nuova gerarchia di chi paga quanto ed in quale ordine quando una banca fallisce. Quando la casa di debito crolla, sono loro [gli investitori], non i contribuenti, ad essere i primi della lista»
Noi aggiungiamo che le banche centrali potranno (anzi, dovranno) sempre più intervenire in modo non convenzionale per evitare cataclismi, e questo finirà col valere anche per la Bce. Con buona pace dell’ortodossia tedesca.

lunedì 28 aprile 2014

Le mille leggende sul Fiscal Compact (da Linkiesta)

Articolo molto interessante: è un po' lungo e complesso, ma merita; il concetto centrale è che nel nostro dibattito pubblico si sta parlando in modo molto impreciso del Fiscal compact.

Francesco Maria Mariotti

"(...) Il Fiscal Compact non obbliga affatto al pareggio di bilancio, inteso come deficit zero, e quindi entrate finali della pubblica amministrazione uguali alle uscite finali in ogni anno. Non lo fanno i regolamenti comunitari che costituiscono l’impianto normativo Ue sul coordinamento delle politiche di bilancio[1], né tantomeno lo fa la nostra Costituzione dopo la modifica dell’art.81 avvenuta nel 2012. Né, infine, lo fa l’ultimo tassello normativo, la legge attuativa 243/12.
Basta ad esempio leggere il Trattato (art.3) per comprendere innanzitutto che quello che viene chiamato “pareggio” non è pareggio. Il deficit (dopo vedremo quale) deve essere pari a quello che viene definito Obiettivo di Medio Termine (Mto, nell’acronimo inglese), fissato dal Regolamento UE n.1175/2011. Tale norma fissa il Mto allo 0,5% del Pil per i paesi con un rapporto debito/Pil superiore al 60% e all’1% per i paesi con un debito inferiore a tale soglia. Per l’Italia dunque il vincolo prescrive come limite inferiore un deficit allo 0,5% del Pil, non a zero. Si tratta di una differenza di quasi 8 miliardi di euro, non esattamente un’inezia.(...)"


martedì 11 febbraio 2014

Fumo. Soltanto Fumo

Stiamo passando una giornata politica un po' assurda, sull'onda di notizie-scoop che scoop non sono.

Quel 2011 lo ricordiamo in tanti, credo tutti; la "guerra del debito pubblico" era in corso da tempo: si legga un editoriale di Mario Deaglio dell'agosto del 2010 per capire come la preoccupazione per la sostenibilità dell'Italia fosse già palpabile mesi prima. 

Con il mondo in preda alla crisi economica, e con le dinamiche finanziarie che colpivano l'Europa, sarebbe stato assai strano - e veramente colpevole - se il Presidente della Repubblica non si fosse attivato, in presenza di una maggioranza molto fragile, come quella che caratterizzava il governo Berlusconi dell'epoca. Si doveva decidere tutto in poche ore quando tutto fosse crollato? Sarebbe stato quello sì comportamento da irresponsabili. 

E' ridicolo spacciare queste notizie come "rivelazioni" ed è fastidioso, quando si valorizzano queste presunte "rivelazioni" con frasi un po' populiste come "le élites sapevano, la massa no" (ha detto una frase simile Alan Friedman nella puntata di Piazza pulita che sta andando in onda questa sera). 

No, la distinzione élite - massa risparmiamocela. La cittadinanza democratica è un esercizio che può superare queste distinzioni, a cui populisti e reazionari sono affezionati, e in quei mesi la consapevolezza della gravità della crisi era comune, non era "patrimonio nascosto" di qualche élite tecnocratica (mondialista, bolscevica, plutocratica, fate voi). 

Di Monti premier si discuteva da diversi mesi. Si parva licet, nel mio minimo 'spazio pubblico' avevo fatto girare l'ipotesi, come forse qualcuno ricorderà (E - sia detto per inciso - l'azione di Monti risulterà fondamentale per permettere a Mario Draghi di convincere i governi dei paesi dell'euro a muoversi efficacemente a garanzia della moneta comune)

E' assolutamente normale che in situazioni di crisi, i vertici e le istituzioni di un paese prendano in esame tutti gli scenari possibili, e laddove sia necessario, comincino a operare per i dovuti cambiamenti. Accade così anche nella guerra, quella vera, probabilmente. Per la sicurezza dello Stato non puoi attendere che i fatti avvengano; e se il rischio è "totale", ti muovi in anticipo perché devi evitare a tutti i costi che il rischio si avveri.

Per cui, nessuna novità. Nessuno scoop. Come ha detto Napolitano, fumo. Soltanto fumo.

Francesco Maria






(...) L’instabilità o il vuoto politico potrebbero infatti avere rilevanti ripercussioni negative sulla gestione del debito pubblico italiano. Va ricordato che l’Italia è stata per decenni uno dei maggiori «produttori» di debito pubblico, ossia di titoli sovrani acquistabili sui mercati finanziari ma che, con il generale peggioramento dei bilanci pubblici delle economie avanzate, su questo mercato mondiale del debito l’Italia deve competere molto più duramente di prima con molti Paesi, quali Germania, Francia e Gran Bretagna che devono «piazzare» i propri titoli per avere le risorse necessarie a quadrare i propri bilanci.

 
Il debito pubblico italiano è complessivamente gestito bene, senza addensamenti eccessivi di scadenze, il che limita la possibilità di grandi ondate speculative, del tipo di quelle che hanno colpito la Grecia e, in misura minore, il Portogallo. E finora l’Italia ha rigorosamente rispettato gli obblighi di disciplina di bilancio - tra i quali il varo della recente manovra - che si era assunta in sede europea. Alcune aste importanti negli ultimi mesi, specialmente quelle di giugno, sono state superate in maniera molto soddisfacente; 

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tra la fine delle ferie e la fine dell’anno, però, vengono a scadere circa 100-120 miliardi di debito, concentrati soprattutto a settembre e a novembre e dovranno essere rifinanziati, ossia sostituiti con titoli nuovi.
 
Chi li acquisterà? Una parte rilevante - si può stimare un po’ più della metà - sarà sottoscritta da risparmiatori italiani, tradizionalmente attratti da questo prodotto «di casa» (l’impiego di risparmio in debito pubblico è uno dei più importanti comportamenti unificanti dell’Italia di oggi). Il resto dovrà trovare compratori all’estero nelle condizioni concorrenziali e difficili di cui si diceva sopra. 

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Quando devono decidere se - e a che prezzo - acquistare titoli di uno Stato sovrano, i grandi operatori finanziari, tra i quali figurano molte banche centrali, come quella cinese, esaminano a tutto campo la situazione del Paese debitore e in questo esame la stabilità politica e la volontà di rispettare i propri debiti hanno uno spazio molto importante.
 
Quale sarà la reazione del banchiere cinese, del finanziere americano, dell’analista finanziario che lavora per qualche grande banca internazionale di fronte alle «sparate» dei politici di questi giorni? Gli esperti internazionali che si occupano dell’Italia sono in gran parte abituati alle iperboli, al sarcasmo, alle pesanti ironie, alle punte di volgarità del dibattito politico italiano. La possibilità che tutto questo si possa riflettere sul piano istituzionale senza alcun riguardo per la posizione finanziaria del Paese non potrà però non preoccuparli. 

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E potrebbe indurli a chiedere un «premio», ossia un tasso di interesse sensibilmente maggiore di quello applicato ad altri Paesi che si tradurrebbe, come minimo, in qualche migliaio di miliardi in più di spesa per lo Stato italiano, da recuperare poi con nuova austerità e, nella peggiore delle ipotesi, in una più generale «bocciatura finanziaria» dell’Italia.
 
Ai politici che in questi giorni così abbondantemente si esprimono deve quindi essere consentito di rivolgere una sommessa preghiera: tengano presente che quando parlano non hanno di fronte solo il pubblico, spesso non troppo numeroso, dei loro sostenitori politici, o i giornalisti desiderosi di riempire spazi che le festività rendono vuoti. 

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Ad ascoltarli, a pesare le loro parole più di quanto essi stessi si rendano conto, c’è tutta la finanza mondiale. Che deciderà se sottoscrivere i nostri titoli di debito anche sulla base delle loro parole e dei loro programmi.


venerdì 7 febbraio 2014

La Pistola Greca Alla Tempia Della Troika (da Phastidio.net)


"(...) Ma che è accaduto, nell’ultimo anno? Per la Grecia, essenzialmente due cose: la prima, che il paese ha di fatto solo debiti verso creditori istituzionali internazionali (Eurozona, Bce e Fmi). In secondo luogo, Atene ha praticamente raggiunto un avanzo primario di bilancio pubblico, cioè incassa ogni anno più di quanto spende, se non si prende in considerazione il servizio del debito.

Il problema resta la sostenibilità del rapporto debito-Pil, che è in continua ascesa a causa della persistenza di deficit pubblico e di una crescita del Pil nominale che continua ad essere inferiore al costo del debito. E questo malgrado l’ultima rinegoziazione di debito con la Troika sia avvenuta a condizioni realmente di favore (leggere qui per credere), con enormi riduzioni del tasso di interesse ed un allungamento delle scadenze di debito. Quella rinegoziazione ha segnato la suprema decisione politica tedesca che nessuno deve uscire dall’Eurozona, perché le conseguenze rischierebbero di essere catastrofiche per l’intera area. Alla fine, vedete che anche i tedeschi ci arrivano, serve solo pazienza.(...)

Solo che, nel frattempo, la Grecia è giunta all’agognato avanzo di bilancio primario, ed è quindi nella condizione teorica di alzarsi una mattina e di andare dalla Troika dicendo di essersi stancata di essere eviscerata. E qui entrano in scena Tsipras ed il suo manifesto. L’idea è quella di chiedere ai creditori (in primo luogo la Ue, o meglio ancora la Germania) una ristrutturazione del debito greco, che ormai non è più posseduto dai privati ma solo da istituzioni internazionali. In caso di diniego la Grecia, che ora ha un avanzo primario, potrebbe agire unilateralmente, a patto di essersi sincerata di avere un sistema bancario che non necessiti di ulteriori ricapitalizzazioni. Perché quella è la chiave di volta. Insomma, pare che gli astri stiano allineandosi a favore della Grecia, almeno in linea maledettamente teorica, perché sarebbe una mano di poker da far tremare le vene ai polsi.

La condotta di Tsipras spingerà a forme di imitazione da parte di Samaras. Anzi, l’imitazione è già iniziata, per molti aspetti, visto che il premier greco ormai non lascia più passare giorno senza ammonire la Troika contro la austerity fatigue che ha colpito la Grecia ed il suo popolo. Ma tra le argomentazioni di Tsipras ce n’è una molto specifica, ed è rivolta alla Germania, che il leader di Syriza considera praticamente l’unico interlocutore (problema per noi italiani, per i motivi che vedremo tra poco).

Tsipras sostiene quello che tutti pensano, in Europa e fuori: l’Eurozona è sinora stata un enorme bonus per la Germania. Bonus miope(...)

Alcune considerazioni a margine: in primo luogo questo è un gambling enorme, ma potrebbe avere le gambe. In secondo luogo, Tsipras “dimentica” che i fondi alla Grecia non sono stati erogati solo dalla Germania: anche il nostro paese è uno dei grandi creditori dell’Eurozona. Alla fine, da un writeoff del debito greco noi italiani usciremmo cornuti e mazziati, non avendo avuto i benefici dei tedeschi ma essendo stati sinora solo pagatori e “fideiussori”, visto che non siamo in assistenza finanziaria ma paghiamo la nostra quota della cordata con cui impiccarci. Terzo punto: come direbbero gli avvertimenti in sovraimpressione in alcune trasmissioni televisive, “non cercate di farlo a casa vostra”. La Grecia potrebbe fare una mossa del genere perché ha solo creditori internazionali. Anche i meno perspicaci tra voi avranno intuito che questo scenario è del tutto differente da quello tafazziano di un default sui nostri Btp. Lo hanno capito anche quelli meno svegli ma non Grillo, ovviamente. Che vuole tagliarsi le gonadi per dispiacere alla moglie (in senso metaforico, s’intende).(...)"

http://phastidio.net/2013/12/04/la-pistola-greca-alla-tempia-della-troika/

lunedì 23 dicembre 2013

Il Sogno di Saccomanni (da Linkiesta.it)

Fabrizio Saccomanni ha fatto un sogno. Si è visto, in una piovosa e grigia mattinata londinese, uscire dal n.11 di Downing Street, proprio accanto alla residenza del primo ministro, e mostrare ai fotografi, riuniti per l’annuale occasione, una valigetta consunta che un tempo era rossa, sempre la stessa dai tempi di Gladstone per lo stesso rito. Un sorriso alla stampa, la valigetta alzata per i flash, poi via ai Comuni a depositare davanti ai rappresentanti del popolo il bilancio della Corona. Il bilancio è sigillato, solo lui ne conosce le cifre prima di sottoporlo al voto: prendere o lasciare.
 
(..​.) Quanti ministri del Tesoro (chiamati oggi, più pomposamente, dell’economia) hanno sognato la stessa britannica scena e si sono risvegliati nell’incubo quotidiano di Montecitorio e palazzo Madama. Westminster era quel che aveva in mente Beniamino Andreatta, il più inglese degli economisti democristiani, nel 1978 quando istituì la legge finanziaria che doveva essere composta idealmente del solo articolo 1, quello che fissa il saldo netto da finanziare (cioè la differenza tra entrate e uscite) e il limite del ricorso al mercato, cioè l’indebitamento annuo. Alla valigetta rossa del Cancelliere dello scacchiere faceva riferimento costante Luigi Spaventa, l’economista di sinistra che, da tutt’altra sponda, in quel clima di unità nazionale seguito al delitto Moro aveva contribuito a creare uno strumento più razionale per rendere conto del bilancio pubblico.
 
Il debito non era ancora così alto, arrivava sì e no al 70% del prodotto lordo, ma sia Andreatta sia Spaventa capivano che si sarebbe impennato ben presto per pagare a pie’ di lista le riforme sociali di quegli anni: le pensioni, la sanità per tutti, la cassa integrazione, la legge Prodi sui salvataggi aziendali, le regioni, insomma l’impalcatura dello stato assistenziale italiano così come lo conosciamo ancor oggi. Andreatta e Spaventa da allora in poi non hanno mai cessato di alzare il dito contro l’illusione del pasto gratis, cioè di poter sostenere la continua corsa della spesa pubblica senza pagare un prezzo, in termini non solo di entrate (cioè tasse) rimaste sempre, sistematicamente molto inferiori alle uscite, ma anche di efficienza e produttività. Entrambi erano ancora in prima fila, uno al centro e l’altro a sinistra, quando nel 1992 il debito pubblico arrivò al 120%, crollò la lira e con essa il sistema politico che aveva consentito a una intera generazione di spostare il conto sulla generazione futura. Hanno anche cercato un rimedio, si pensi alle privatizzazioni. Ma le cure peggiori del male sono state senza dubbio le manovre correttive (...)
 
Il modello britannico non è la panacea, la crisi fiscale dello stato è profonda ovunque, ma resta l’unico modo finora conosciuto per dare razionalità alla politica di bilancio, stabilire le responsabilità del governo e del parlamento nell’autonomia dei loro poteri. Quando ci sarà un ministro che esce da via XX Settembre con la sua ventiquattrore piena di cifre che nessuno conosce per recarsi alla Camera dei deputati unica istituzione depositaria del potere legislativo, ma senza facoltà di aumentare le spese, ebbene allora l’Italia sarà un paese più moderno e affidabile.
 

domenica 22 dicembre 2013

Unione bancaria, la partita sulla leadership europea e i diktat tedeschi (da HuffingtonPost.it)

(...) Il primo obiettivo, riguardante l'accentramento della vigilanza, è stato raggiunto: è stato, infatti, adottato un regolamento e il sistema sarà pienamente operativo dal prossimo anno. Alla Banca Centrale Europea spetta la vigilanza diretta sulle principali banche (circa 130), mentre resta in capo agli organi nazionali quello sulle altre banche (ferma restando la facoltà della BCE di intervenire per assicurare la coerente applicazione degli standard europei). Nel frattempo è partita l'Asset Quality Review che insieme agli stress test consentiranno alla BCE di avere una radiografia accurata del sistema bancario europeo.

Il secondo obiettivo, discusso in questi giorni, riguardava, invece, la creazione di un meccanismo comune di gestione delle crisi creditizie che possano avere ripercussioni gravissime sul paese di appartenenza e, in ultima analisi sull'intera Eurozona, com'è accaduto per Portogallo, Spagna, Cipro, e come avverrebbe se la situazione italiana dovesse precipitare. La Commissione ha proposto un meccanismo uniforme che però ha incontrato notevoli resistenze soprattutto dalla Germania. Al di là dei pretesti giuridici inizialmente invocati (non c'è una base giuridica nel Trattato, la competenza dovrebbe spettare al Consiglio e non alla Commissione) il vero tema era: chi paga in caso di default di una banca? La preoccupazione sottostante era ancora una volta che i contribuenti tedeschi finissero per pagare per il salvataggio di banche dei paesi del sud Europa.

Di qui una serrata battaglia per assicurarsi che innanzi tutto le crisi gravino, con un ordine di priorità prestabilito, su azionisti, obbligazionisti, creditori e clienti (salvo quelli garantiti per depositi fino a 100.000 Euro). E' poi stata prevista l'istituzione di un fondo comune, alimentato dalle stesse banche, che nell'arco di una decina di anni dovrebbe raccogliere cinquantacinque miliardi. Fin qui tutto bene. Il problema è che succede nel frattempo, in caso di crisi, se questi fondi sono insufficienti. Lo stesso rischio vale a regime dinanzi a crisi di proporzioni simili a quella passata. Su questi temi lo scontro si è fatto pesante e nei giorni scorsi il Ministro Saccomanni ha preso carta e penna per chiarire formalmente la propria posizione, favorevole all'utilizzo anche di fondi pubblici dell'UE. Alla fine il compromesso trovato nella notte sembra prevedere che gli Stati o l'European Stability Mechanism possano erogare finanziamenti ponte, ove necessario.(...)

lunedì 16 dicembre 2013

Dove va l'Irlanda? (da ilPost)

Domenica 15 dicembre l’Irlanda è uscita dal programma di aiuti europei (il cosiddetto “bailout”) cominciato tre anni fa in seguito allo scoppio della crisi finanziaria. Da allora, l’Irlanda aveva ricevuto una serie di prestiti pari in tutto a 85 miliardi di euro. Questi prestiti sono stati concessi in cambio di alcune misure fiscali, un esempio della cosiddetta “austerity” che ha riguardato diversi altri paesi europei.

Da adesso, l’Irlanda tornerà a fare affidamento sul mercato per finanziare la propria spesa pubblica. Il paese sta attraversando un momento di ripresa economica, ma, come fanno notare quasi tutti gli osservatori, si tratta di una ripresa ancora fragile. Nonostante questo, il governo ha già promesso che dall’anno prossimo le tasse, alzate fino a raggiungere il record storico durante la crisi, saranno abbassate.

L’uscita dal programma di aiuti ha fatto tornare attuale una discussione che divide da molto tempo gli economisti, i commentatori e la stessa Commissione europea: l’Irlanda è davvero la dimostrazione che austerity più riforme incisive possono salvare un paese dalla crisi e riportare la crescita economica?

La crisi dell’Irlanda
Il Financial Times ha scritto che l’uscita dell’Irlanda dal programma di aiuti è un segno dell’importanza di rimuovere i legami tra lo stato e le banche. Nel 2010, infatti, il bilancio dell’Irlanda era in una situazione ancora gestibile, ma le sue banche si trovavano in una profonda crisi. Il governo intervenne per aiutarle in una maniera che si rivelò poi disastrosa.
La soluzione scelta per salvare il sistema finanziario dal governo dell’epoca – legato ai dirigenti e ai proprietari di diversi istituti bancari – fu di garantire completamente i debiti di sei banche. Questa garanzia si rivelò immensamente più costosa di quanto il governo aveva immaginato. In sostanza, il debito delle banche divenne debito dello stato, che passò in pochi anni dal 25 per cento del PIL all’attuale 124 per cento. A causa di questa situazione, alla fine del 2010 l’Irlanda chiese l’aiuto dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale e cominciò ad adottare una lunga serie di misure di austerità. (...)

domenica 10 novembre 2013

Incubo Deflazione?

(...) Ad occhio, l’idea di un sistema economico dove, mese dopo mese, i prezzi continuano a diminuire, sembra ideale. Ma non è così. Durante lunghi periodi di deflazione non sono solo i prezzi di quello che compriamo a calare, sono anche i prezzi dei servizi, dei trasporti e quindi, con il tempo, anche gli stipendi. C’è una cosa che però rimarrà probabilmente a un valore stabile: gli interessi sui debiti. Quindi, mentre gli stipendi calano e in generale il reddito nazionale diminuisce, diventa in proporzione sempre più difficile pagare gli interessi sul proprio mutuo o sul proprio debito pubblico.
Il secondo principale effetto della deflazione è che rende poco conveniente spendere i propri soldi. Se ad esempio qualcuno volesse comprare un televisore in un periodo di deflazione, avrebbe la tendenza a rimandare ancora un po’ l’acquisto, aspettandosi che il suo prezzo scenda. Questa tendenza non è solo dei privati: anche un’azienda potrebbe decidere di rimandare un investimento produttivo in attesa di trovare un prezzo più conveniente. Soprattutto in una situazione come quella attuale, il meccanismo può far sparire anche i timidi segni di ripresa economica a cui stiamo assistendo.
Quando il PIL non cresce può accadere un’altra cosa a paesi con un altissimo debito pubblico come l’Italia: il rapporto debito/PIL è formato da un numeratore, il valore del debito, e un denominatore, il PIL. Più è alta l’inflazione più il denominatore sale, anche in assenza di crescita “reale”, per il solo fatto che i prezzi aumentano. Nella stessa situazione, con il PIL reale fermo o in crescita molto bassa, se non c’è inflazione, o addirittura con deflazione, il PIL nominale cala, rendendo il rapporto debito/PIL sempre più elevato e potenzialmente ingestibile.(...)


Servirebbe probabilmente qualcosa di simile alle operazioni non convenzionali attuate dalle altre maggiori banche centrali del mondo ma, come noto, ciò è precluso alla Bce dalla intransigenza tedesca, la cui fobia inflazionistica trova nuova linfa nella tendenza al rialzo dei prezzi immobiliari in alcune aree del paese. A ciò si aggiunge che i tedeschi si oppongono alla revisione della metodologia proposta dalla Commissione europea per calcolare il deficit strutturale di bilancio, cioè quello calcolato rispetto al Pil potenziale. Secondo la prima versione di tale metodologia gran parte del deficit pubblico dei paesi più deboli sarebbe strutturale e non ciclico. Cioè persisterebbe anche in caso di ripresa, rendendo l’austerità necessaria. Come sempre, il diavolo si nasconde nei particolari, soprattutto in quelli più esoterici per il grande pubblico.

venerdì 8 novembre 2013

Difendere Draghi Con i Fatti: Riforme e Disegno Europeo

Attenzione a sottovalutare le critiche della Germania a Draghi. Attenzione anche a reagire in modo sbagliato, rimproverando ai tedeschi - come si sta facendo da tempo - l'eccessiva severità. 

Il modo migliore per "fare quadrato" attorno a Draghi è smentire con i fatti le preoccupazioni tedesche: approfittare delle azioni della BCE per andare avanti in un percorso di riforme coordinato fra i paesi europei, e sfidare la Germania, convincendola che solo con un disegno europeo di una maggiore integrazione politica ed economica si potranno fare i passi giusti per combattere la crisi, che non può essere curata - soprattutto per motivi di urgenza - solo con manovre di austerità. 

La Germania ha approfittato della possibilità di sforare la soglia del 3% a suo tempo, ma ha fatto riforme che ora sembrano funzionare, anche se problemi di eguaglianza e di precariato permanente, per esempio, sembrano esserci anche lì. 

Deve essere preparato un piano complessivo di riforme per tutta l'Eurozona, che convinca i cittadini europei - tedeschi come greci, come italiani - che nello stare insieme si conquista una forza diversa, che può sconfiggere il male terribile che rischia di rovinare definitivamente le nostre comuità.

FMM

La stampa tedesca dà eco alle critiche delle associazioni dei consumatori tedeschi, che vedono minacciati i risparmi di chi mette da parte per la vecchiaia. Il presidente dell'Associazione dei titolari di polizze assicurative, Axel Kleinlein, dichiara al Tagesspiegel che il calo dei tassi di interesse fa svanire le speranze di un'adeguata sicurezza in vecchiaia, poiché «vengono puniti quelli che risparmiano per quando saranno vecchi». Anche il presidente dell'Associazione delle società di assicurazione (Gdv), Joerg von Fuerstenwerth, parla di «segnale fatale per chi in Germania risparmia per la vecchiaia». Rimbalza sui media tedeschi la notizia della Reuters, secondo cui oltre un quarto dei 23 componenti del Consiglio direttivo della Bce, capeggiato dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, si sarebbe opposto alla decisione di abbassare i tassi di interesse. 

articoli di Elysa Fazzino e Rossella Bocciarelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/rPBZH