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domenica 19 gennaio 2014

Il nuovo mostro globale si chiama stag-deflazione (da Linkiesta.it)

(...) Scelte monetarie coraggiose (americane, ma anche europee) hanno impedito che la grande recessione diventasse una grande depressione. Adesso, però, si vede che le banche centrali da sole non riescono ad avviare un nuovo ciclo di sviluppo. Quanto alle politiche fiscali, sono alla frutta. Se è così, ci aspetta un futuro dominato da spinte negative: popolazione in calo, aspettative crescenti e risorse calanti, mancanza di un acceleratore della forza e pervasività dell’elettronica, e soprattutto di un paradigma forte come la rivoluzione liberista che ha risposto al cambiamento dei termini di scambio provocato dall’aumento improvviso e fortissimo del petrolio e delle materie prime. Teoria e prassi allora si mossero all’unisono, in questo modo ebbero un ruolo importante, anzi determinante. Oggi non è così anche se la forza delle cose riporta in auge la mano pubblica come alternativa ai fallimenti della mano invisibile del mercato.
Il ritorno dello stato, in realtà, non appare un passo avanti, ma semmai due passi indietro ed è tutto giocato sul breve periodo; nessuno può più pensare che un governo possa gestire l’automobile, l’acciaio, le telecomunicazioni. Tanto meno nell’era web. Internet è il moderno monumento alla libertà individuale e al mercato. (...) 

Il driver, dunque, non può essere il governo. Anche perché non è possibile fare il keynesismo in un solo paese: era vero quando c’erano le frontiere nazionali è ancor più vero oggi. Lo sanno anche i keynesiani i quali, infatti, chiedono qualche forma di controllo sui capitali o di tassazione alle attività finanziarie. Con il rischio di un grave effetto boomerang: il libero scambio delle merci e dei capitali è sempre stato (fin dall’Ottocento) la chiave della crescita mondiale e il ristagno odierno s’accompagna a un inaridirsi delle fonti di finanziamento e degli investimenti. Il flusso tra le economie del G20 era pari al 20% del prodotto totale nel 2007, con la recessione è sceso al 4,3%. Paul Krugman (economista e premio Nobel, ndr) sostiene che il limite delle attuali politiche di deficit spending è che non si è speso abbastanza, i nuovi keynesiani, in altre parole, non sono puri e duri come i vecchi. Eppure, è chiaro che ormai nemmeno il governo degli Stati Uniti il quale tradizionalmente ha sempre avuto minori vincoli esterni, può spendere e spandere quanto vuole. Il signoraggio del dollaro come lo chiamava il generale de Gaulle s'è ridotto. Persino negli anni del boom il mercato non riusciva a finanziare i consumi e gli investimenti degli americani i quali si sono messi nelle mani dei cinesi; figuriamoci adesso. E anche se ci fosse un governo mondiale, non sarebbe mai in grado di controllare il gran gioco dello scambio, come lo chiamava Fernand Braudel. E per fortuna.(...)

venerdì 17 gennaio 2014

Disoccupazione: Come Reagire? Basterà La Ripresa?

Il dramma della disoccupazione rischia di aggravarsi, nonostante si percepiscano i primi segnali di ripresa. Come già scritto in passato il rischio è che la situazione si aggravi per persone che sono rimaste ferme troppo tempo. Mi pare vadano in questo senso i ragionamenti che vengono svolti negli articoli di Nomisma che propongo di seguito. 

Non so dire se la soluzione proposta (una sorta di patrimoniale che viene descritta nel secondo articolo in particolare; purtroppo in questo momento il link appare non raggiungibile) sia efficace, ma quel che è certo è che non può bastare toccare nuovamente le regole sul lavoro, anche perché i fattori importanti oggi - come forse quasi sempre - non sono quelli normativi

Prima la politica la smetterà di discutere di questioni di riforme istituzionali, e darà una tregua al paese sulle questioni di "politica politicata", prima si potranno prendere in mano le questioni economiche e aiutare i cittadini a riacquistare fiducia nel futuro.

FMM 

(...) Il mercato del lavoro del 2007 era segmentato, iniquo, escludente; ma di pieno impiego. Come valutare quello di oggi? Il raddoppio delle statistiche dalla disoccupazione non è stato causato da un peggioramento dei difetti di funzionamento che si avevano nel 2007, ma dalla recessione. Quella che si osserva è per la gran parte disoccupazione di tipo keynesiano, determinata da un livello inadeguato della domanda aggregata. I posti di lavoro disponibili sono pochi e razionati, al punto che la disoccupazione non può essere eliminata per quanto prolungato è lo sforzo di ricerca condotto dai lavoratori inoccupati e per quanto significativo è il taglio di retribuzione che essi sono disposti ad accettare pur di accedere a un lavoro. In queste condizioni vi è un’elevata probabilità che se un’impresa non assume un lavoratore in più non è tanto per un suo costo eccessivo, quanto perché, in un mercato asfittico e con rarefazione del credito, non saprebbe come utilizzarlo. A corollario di questa osservazione, è rilevabile che misure volte ad abbassare i costi espliciti e impliciti (come quelli di licenziamento) di ingresso nell’occupazione e le connesse rigidità, pur contribuendo a intensificare il ricambio nei flussi di entrata e uscita nel mercato del lavoro e a renderlo meno iniquo, non riescono a ridurre in modo sostanziale il livello complessivo della disoccupazione che dipende dallo stato dell’economia .  Si modificherà con l’incipiente ripresa questa situazione? Dato il modesto tasso di crescita atteso, c’è il rischio che il miglioramento del mercato del lavoro risulti insufficiente. (...)
In mancanza di una ripresa adeguata, la disoccupazione tende a incancrenirsi. Già oggi si osserva che una quota pari al 57% dei disoccupati è costituita da individui che sono senza lavoro da oltre un anno; tra i disoccupati sotto i 25 anni questa percentuale è del 54%. Il distacco prolungato da un’attività produttiva deteriora le abilità lavorative, rendendo queste persone meno attraenti per un datore di lavoro. Ne consegue che le probabilità di reimpiego di coloro che sono a lungo senza un’occupazione risultino, in condizioni di ripresa economica, più basse rispetto agli altri lavoratori. Ciò può essere particolarmente penalizzante per i giovani, il cui ritardato ingresso nel mondo del lavoro determina danni permanenti nelle loro future carriere retributive e contributive. Ma gli effetti avversi della disoccupazione di lungo periodo riguardano più in generale il funzionamento dell’economia. L’ampliarsi del bacino di persone inoccupate per lungo tempo rischia di alimentare la disoccupazione strutturale, ovvero quella quota di senza lavoro che è resistente al miglioramento del ciclo economico e sotto la quale non si può scendere senza creare inflazione. La disoccupazione keynesiana se non corretta con una decisa ripresa della domanda può, dunque, tradursi in un peggioramento permanente degli equilibri del mercato del lavoro.(...)
Il peggioramento della relazione tra posti vacanti e disoccupazione (più disoccupati per ogni posto vacante) non è, infatti, un fenomeno generalizzato, ma è da attribuire alla componente dei disoccupati che sono senza lavoro da oltre un anno (figg. 2a e 2b). In altri termini, la pur bassissima domanda di lavoro è rimasta per una sua quota insoddisfatta perché si è modificata la composizione del bacino dei disoccupati con una crescita della presenza di quelli di lungo periodo, caratterizzati da una minore appetibilità rispetto alle necessità delle imprese e per questo motivo non più richiesti. (...)
L’aumento prolungato della disoccupazione keynesiana porta quindi con se, in assenza di correzione, i germi di un deterioramento strutturale che è difficile da curare. Il reinserimento dei disoccupati di lungo periodo nel mondo del lavoro solleva problemi in parte diversi da quelli che riguardano l’inclusione dei giovani che si affacciano nel mercato del lavoro o degli inattivi che tornano a cercare un’occupazione. Se un disoccupato da oltre un anno viene percepito per le sue caratteristiche come non rispondente alle esigenze delle imprese, può non essere sufficiente abbassarne il costo di reclutamento per renderlo appetibile. Occorrono efficienti politiche di formazione, riorientamento e inserimento nelle imprese in espansione, politiche di cui, però, l’Italia è oggi effettivamente priva. Esse vanno associate a un adeguato sistema di assistenza sociale (dal sussidio di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro a forme universali di sostegno del reddito) che miri sì ad attivare inclusione, ma che metta anche nel conto la possibilità di fallimenti nelle operazioni di reinserimento. Questi ultimi saranno infatti tanto più probabili in un’economia in cui l’attività crescerà a ritmi molto contenuti e dove l’offerta di lavoro supererà per un prolungato periodo la domanda, talché la concorrenza tra disoccupati per l’accesso a posti scarsi tenderà a mantenere persistentemente “fuori dai cancelli” le tipologie di lavoratori che risulteranno meno attraenti per le imprese.

Per contrastare lo scenario di bassa crescita che contraddistingue la nuova normalità italiana e tornare ad avvicinarsi fra cinque anni, anziché dieci, ai livelli di benessere che i cittadini del nostro Paese avevano nel 2007, occorrerebbe un’accelerazione dell’attività economica verso ritmi del 2-2,5% all’anno tra il 2014 e il 2018[1]. Le attuali previsioni, anche le più ottimistiche, proiettano dinamiche del PIL distanti da questo sentiero, con un mercato del lavoro che non tornerà, neppure nel 2023, ai livelli pre-crisi (6% di disoccupazione). Il freno a una ripresa più robusta deriva da un difetto di domanda aggregata, come mostrano le stime dei previsori circa un ampio output gap (differenza tra domanda effettiva e prodotto potenziale) per diversi anni a venire. Se non corretta, la mancanza di domanda rischia di tradursi in un deterioramento delle capacità di sviluppo della nostra economia, incidendo, insieme con la rarefazione del credito, su dimensione ed efficienza della base produttiva. Se ciò si verificasse, l’output gap si annullerebbe non tanto per l’aumento della domanda aggregata, quanto per l’adeguamento dell’offerta potenziale alle più basse capacità di assorbimento del Paese. Una domanda maggiore è dunque oggi essenziale, più ancora delle riforme strutturali, per salvaguardare il lato dell’offerta.
Per cercare di conseguire una ripresa più forte sarebbe necessario un mutamento sostanziale nel framework europeo, con passi significativi verso una politica UE per la crescita, il ridisegno dei tempi del risanamento fiscale dei paesi periferici, una maggiore simmetria nel riequilibrio competitivo intra-euro. Si tratterebbe di una rivoluzione copernicana rispetto all’approccio finora seguito. Implicherebbe il formarsi in Europa di un coeso gruppo di pressione, costituito dai paesi che condividono problemi e interessi comuni, come Italia, Francia e Spagna. Un mutamento di alleanze tutto da costruire: complesso, pur se non impossibile. Esso richiederebbe tempi lunghi che vanno, forse, al di là di quelli a disposizione per evitare che lo scenario di debole ripresa si trasformi in una prolungata depressione.
Per questo motivo si devono cercare strade interne, di natura anche straordinaria, per il sostegno della domanda e della crescita economica. Senza rompere con l’Europa, ma operando nel pieno rispetto delle regole del Fiscal compact e inscritte in Costituzione. Nell’ambito di questi stretti paletti, il bilancio pubblico può essere modificato, a parità di saldi, in senso espansivo; ciò può essere fatto in modo più efficace e consistente di come si è tentato nella Legge di stabilità, paralizzata da interessi contrapposti, veti reciproci, ambizioni insufficienti.(...)
La strada per reperire le risorse necessarie a realizzare in modo adeguato queste due priorità e, con esse, l’obiettivo della crescita passa per una mobilitazione straordinaria del risparmio di “chi più ha” e la sua distribuzione a favore delle fasce più povere della popolazione, con elevata propensione al consumo, e del mondo produttivo impegnato nella competizione internazionale.
Si possono immaginare diverse varianti di questa operazione. Una possibilità è seguire, su dimensioni del tutto diverse, la manovra impostata dal governo nella riduzione della pressione fiscale sui lavoratori e contributiva sulle imprese, aggiungendovi le misure necessarie a neutralizzare la povertà.(...)
http://www.nomisma.it/index.php/it/soluzione-10x100 [in questo momento - ore 22 circa del 17 gennaio 2014 - il link non è raggiungibile...]

La ripresina europea
Nell’area euro, dopo due anni consecutivi di contrazione, la Banca mondiale prevede una crescita dell’1,1% quest’anno e dell’1,4 e dell’1,5% rispettivamente nel 2015 e 2016. Negli Usa il Pil è stimato a +2,8% quest’anno dal +1,8% del 2013 e a +2,9% e +3% nel 2015 e nel 2016. In Cina il Pil nel 2014 salirà del 7,7%, invariato rispetto al 2013 ma rallenterà al 7,5% nel 2015. «Gli indicatori dell’economia globale - spiega il capo economista della Banca mondiale, Kaushik Basu - mostrano un miglioramento, ma non occorre essere particolarmente astuti per vedere dei pericoli insorgere sotto la superfice. L’area euro è fuori dalla recessione ma il reddito pro-capite continua a scendere in molti paesi. Ci aspettiamo che i paesi più avanzati crescano sopra il 5% nel 2014, con alcune aree meglio delle altre, con l’Angola all’8%, la Cina al 7,7%, l’India al 6,2%. Tuttavia è importante evitare la stasi politica».

Di questo passo, tra molte chiacchiere e ancora più indecisioni su riforme e tagli alla spesa, la discesa agli Inferi dell'Italia nell'eurozona, più che un rischio, appare una scelta quasi scientifica. Ormai però in perfetta solitudine. Non a caso, in un incontro a porte chiuse a Strasburgo il presidente della Commissione, Josè Barroso, ha richiamato il nostro paese al «coraggio delle riforme, senza le quali non può poi lamentare l'assenza di crescita e di lavoro». 
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Q3hhd

Si tratta della manifestazione palese che il legame nefasto tra banche e stati sovrani (il cosìdetto "doom loop"), lungi dall'essere stato spezzato, si è anzi rafforzato, nonostante i reiterati impegni di un vertice europeo dopo l'altro. Le banche hanno continuato a fare incetta di titoli sovrani, in una marcia ininterrotta. La liquidità eccezionale fornita dalla Bce (Ltro) è finita tutta lì: solo in Italia il portafoglio bancario di titoli di stato è raddoppiato da 200 miliardi di euro a fine 2011 a 403 miliardi dell'ultima rilevazione Bankitalia (novembre 2013). Nel contempo, com'è noto, i prestiti a imprese e famiglie si sono ridotti, e non vi è segno di ripresa – anzi, la stretta creditizia pare persino inasprirsi. È per questo che qualsiasi nuova iniezione di liquidità della Bce, se avviene, sarà probabilmente destinata esclusivamente al finanziamento delle imprese e delle famiglie, in una variante europea dello schema Funding for Lending della Banca d'Inghilterra.
di Alessandro Leipold - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/kipb1

domenica 12 gennaio 2014

Chi è Stanley Fischer?

(...) Ma perché Fischer le credenziali di Fischer sono così elevate? Il banchiere centrale è un keynesiano atipico, senza pregiudizi o dogmi particolari. «Ritengo che il lavoro di John Maynard Keynes debba essere riconsiderato, in meglio, dopo questa crisi. E’ sotto gli occhi di tutti quanto sia il suo valore», disse in un’intervista nel corso del 2010. Per essere un keynesiano, ammira anche Milton Friedman, che fu suo collega quando, dal 1970 al 1973, ha insegnato all’Università di Chicago. «Le ragioni della crisi globale sono tante, non si può solo dare la colpa al liberismo, professando le politiche keynesiane come le più corrette per l’uscita dalla fase critica», spiegò Fischer. Un approccio tanto pragmatico quanto intellettualmente corretto. Il banchiere centrale israelo-statunitense aveva messo in guardia più di una volta, fra il 2005 e il 2007, gli eccessi visti nel mercato immobiliare statunitense. Secondo lui si doveva iniziare a sterilizzare liquidità fin dal principio di bolla, ma la Fed non fece così, anzi. Di fatto, era un gioco, quello del credito facile e dei subprime, che faceva gola a tutti. Alla banca centrale, alle banche statunitensi e ai cittadini. Ognuno ne traeva benefici, ma i costi sono stati devastanti. «Era facile comprendere cosa sarebbe successo coi subprime, ma si è deciso di chiudere entrambi gli occhi. Lo shock è stato forte», commentò Fischer. Del resto, conosceva bene queste dinamiche. (...)


Quale corso prenderà la Federal Reserve nel dopo-Bernanke? La banca centrale americana entra nel vivo del nuovo anno con al timone due personalità nuove. Sebbene l'approccio monetario dell'istituto non sia destinato a cambiare, resta da vedere come l'imminente numero uno Janet Yellen se la intenderà con Stanley Fischer, ex governatore della banca centrale di Israele, scelto oggi da Obama per diventare il numero due della banca centrale americana. Il duo è promettente. Con curricula eccellenti Yellen e Fischer, per citare il presidente degli Stati Uniti, costituiranno un «team fantastico». Ma forse qualche diversità di vedute tra i due non mancherà. 

di Stefania Spatti - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/zxtRT

mercoledì 20 novembre 2013

La Germania Visionaria (da ilSole24Ore.it)

(...) Tre false illusioni sono responsabili della crescente avversione dell’opinione pubblica tedesca nei confronti dell’integrazione europea - e della mancata comprensione da parte di molti tedeschi del fatto che sia la Germania ad avere maggiormente da perdere dal crollo dell’euro. (...)

Certo, i tedeschi non hanno del tutto torto; la crisi nella periferia dell’Europa indebolisce le prospettive di crescita economica della Germania. Ma si dovrebbero ricordare che, solo un decennio fa, era la Germania la malata d’Europa, e che la forte crescita ed il dinamismo di altre aree europee hanno contribuito sostanzialmente alla sua ripresa. E devono riconoscere che gli europei sono tutti sulla stessa barca; ciò che è bene per l’Europa è un bene per la Germania, e viceversa.(...)

In questo contesto, il terzo governo della Cancelliera Angela Merkel, una volta costituito, deve liberare il paese delle illusioni che gli impediscono di giocare un ruolo dinamico e costruttivo nel garantire che l’Europa funzioni come un’unione. Tale impegno richiede, soprattutto, il ripristino della fiducia tra i paesi europei. Sebbene ciò sarà senza dubbio difficile da raggiungere, è la sola vera opzione per la Germania - e una speranza reale per l’Europa.

martedì 19 novembre 2013

Il bluff giapponese prosegue (da Phastidio.net)

(...) La realtà giapponese però resta quella: la “crescita” sinora è stata fatta soprattutto con spesa pubblica, e poco altro; i mercati di sbocco non aiutano; malgrado il forte indebolimento dello yen, pari al 25% nominale, i prezzi a cui le aziende giapponesi esportano si sono ridotti di solo il 2% nell’ultimo anno. Questo perché le aziende hanno preferito non tagliare aggressivamente i listini prezzi, anche per non essere accusate (assieme al governo giapponese) di fare dumping (sono le gioie delle svalutazioni del cambio, bellezze), e quindi si sono “accontentate” di gonfiare i profitti. Ritenendo il deprezzamento del cambio ed i conseguenti profitti qualcosa di temporaneo, si agisce di conseguenza. Niente aumenti di stipendio fisso, solo bonus.
Il Giappone è resta un paese con un deficit fiscale enorme, con un profilo demografico pesantemente svantaggiato, e con i nodi della propria struttura economica del tutto irrisolti.(...)

venerdì 15 novembre 2013

Abe In Dieci Punti (da ilSole24Ore.it)

​Vediamo in dieci punti luci e ombre, risultati positivi e aspetti problematici di un esperimento di politica economica e fiscale che ha suscitato grande attenzione internazionale come un modello alternativo _ sia pure rischioso _ per rilanciare la crescita economica in un Paese avanzato ad altissimi livello di indebitamento. Alternativo soprattutto rispetto alle politiche prevalenti nell'Eurozona, da molti considerate insufficienti o anche controproducenti
 
di Stefano Carrer - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/F92HC
 

domenica 10 novembre 2013

Incubo Deflazione?

(...) Ad occhio, l’idea di un sistema economico dove, mese dopo mese, i prezzi continuano a diminuire, sembra ideale. Ma non è così. Durante lunghi periodi di deflazione non sono solo i prezzi di quello che compriamo a calare, sono anche i prezzi dei servizi, dei trasporti e quindi, con il tempo, anche gli stipendi. C’è una cosa che però rimarrà probabilmente a un valore stabile: gli interessi sui debiti. Quindi, mentre gli stipendi calano e in generale il reddito nazionale diminuisce, diventa in proporzione sempre più difficile pagare gli interessi sul proprio mutuo o sul proprio debito pubblico.
Il secondo principale effetto della deflazione è che rende poco conveniente spendere i propri soldi. Se ad esempio qualcuno volesse comprare un televisore in un periodo di deflazione, avrebbe la tendenza a rimandare ancora un po’ l’acquisto, aspettandosi che il suo prezzo scenda. Questa tendenza non è solo dei privati: anche un’azienda potrebbe decidere di rimandare un investimento produttivo in attesa di trovare un prezzo più conveniente. Soprattutto in una situazione come quella attuale, il meccanismo può far sparire anche i timidi segni di ripresa economica a cui stiamo assistendo.
Quando il PIL non cresce può accadere un’altra cosa a paesi con un altissimo debito pubblico come l’Italia: il rapporto debito/PIL è formato da un numeratore, il valore del debito, e un denominatore, il PIL. Più è alta l’inflazione più il denominatore sale, anche in assenza di crescita “reale”, per il solo fatto che i prezzi aumentano. Nella stessa situazione, con il PIL reale fermo o in crescita molto bassa, se non c’è inflazione, o addirittura con deflazione, il PIL nominale cala, rendendo il rapporto debito/PIL sempre più elevato e potenzialmente ingestibile.(...)


Servirebbe probabilmente qualcosa di simile alle operazioni non convenzionali attuate dalle altre maggiori banche centrali del mondo ma, come noto, ciò è precluso alla Bce dalla intransigenza tedesca, la cui fobia inflazionistica trova nuova linfa nella tendenza al rialzo dei prezzi immobiliari in alcune aree del paese. A ciò si aggiunge che i tedeschi si oppongono alla revisione della metodologia proposta dalla Commissione europea per calcolare il deficit strutturale di bilancio, cioè quello calcolato rispetto al Pil potenziale. Secondo la prima versione di tale metodologia gran parte del deficit pubblico dei paesi più deboli sarebbe strutturale e non ciclico. Cioè persisterebbe anche in caso di ripresa, rendendo l’austerità necessaria. Come sempre, il diavolo si nasconde nei particolari, soprattutto in quelli più esoterici per il grande pubblico.

venerdì 8 novembre 2013

Una politica monetaria comune, ma effetti asimmetrici (da laVoce.info)

(...) Prima dell’introduzione dell’euro, ogni banca centrale nazionale aveva differenti approcci verso la stabilità dei prezzi e verso la crescita economica. Dal 1999, la Bce ha sostituito le banche nazionali e ha “imposto” una politica monetaria comune a un insieme di paesi membri ancora caratterizzati da persistenti divari strutturali, ad esempio in termini di rigidità sul mercato del lavoro, competitività e livelli del debito pubblico. Un ambiente così diversificato rende il processo di decisione della Bce particolarmente difficile, dal momento che le reazioni alle sue decisioni potrebbero essere diverse tra i paesi europei. (...)

La politica monetaria unica non può agire sull’esistenza di queste asimmetrie, che presentano natura idiosincratica. In altre parole, le differenti reazioni alla manovra di politica monetaria sono prevalentemente attribuibili alle caratteristiche strutturali e socio-economiche dei singoli paesi: su di esse i Governi nazionali potrebbero incidere con appropriate politiche di riforma e di regolamentazione dei mercati. Non sorprendentemente, infatti, le restanti asimmetrie a livello di prezzi si osservano nei paesi del Mediterraneo che, storicamente, sono caratterizzate da prezzi meno flessibili e minore concorrenzialità interna.
In conclusione, i paesi dell’area euro reagiscono in maniera asimmetrica alle decisioni di politica monetaria in merito ai prezzi e alla disoccupazione, mentre non si notano differenze rilevanti in termini di Pil. Sebbene la riduzione delle asimmetrie rilevata dopo il 1999 sia coerente con gli obiettivi della Bce, le restanti divergenze esulano dagli obiettivi di politica monetaria, e quindi devono essere oggetto di adeguate politiche strutturali da parte dei governi nazionali.
Al di là dell’interesse intrinseco dei risultati del nostro studio, il primo a documentare empiricamente l’esistenza di asimmetrie nell’area euro, essi dovrebbero rappresentare un campanello di allarme per l’area euro, indirizzando i paesi verso una maggiore armonizzazione nella regolamentazione. Solo in questo caso, infatti, gli effetti della politica monetaria della Bce potranno essere maggiormente uniformi.(...)


domenica 27 ottobre 2013

Abe Interventista: Parole o Rischi Concreti?

Un messaggio chiaro: il Giappone reagirebbe non solo fidando nell'appoggio e nell'ombrello nucleare americano, ma confidando sulla propria forza. Del resto, per la prima volta da quanto fu stipulato il trattato di Difesa tra Stati Uniti e Giappone, le due parti hanno approntato nei minimi dettagli un piano militare congiunto per contrastare un eventuale attacco su una specifico territorio: le Senkaku, appunto, nel Mar cinese orientale. 

Dal nostro corrispondente Stefano Carrer - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/GfC7r

***

Sul Giappone scrivevo in un intervento su una ml il 26 luglio scorso

Forse è un ragionamento troppo semplicistico, ma la politica "aggressiva" di Abe in termini monetari (discutibile sotto diversi punti di vista, anche se nel breve periodo ha dato ossigeno all'economia giapponese) sembra trovare un parallelo nel campo della difesa. Entro certi limiti la cosa può essere comprensibile, ma rimane un segnale fortemente inquietante; soprattutto perché rappresenta di fatto un ulteriore incrinatura nel sistema delle relazioni internazionali, sempre più "anarchico", sia dal punto di vista economico che politico-militare. 

Inoltre, la competizione anche in termini monetari può avere il risvolto di "rovesciare" sull'esterno le dinamiche della crisi: da un lato è una comprensibile strada per prendere tempo e ossigeno, dall'altra però può rallentare la presa di coscienza della necessità di riforme interne, spostando appunto su altro - e altri paesi, dunque - la responsabilità dei problemi economici del paese. Anche in questo senso - pur con tutte le cautele nell'evitare facili automatismi o determinismi - nazionalismo economico e nazionalismo più politico-militare possono darsi una (pericolosa) mano. La speranza è che la retorica di Abe rimanga tale, ovviamente.

Però chissà, forse dovremo vedere e affrontare una qualche forma di conflitto armato potenzialmente globale (magari proprio sul versante delle "nuove potenze", vd. appunto isole Sensaku), per essere costretti a ricercare una nuova forma di collaborazione. 

Speriamo non sia così; magari "basterà" avvicinarci al rischio. E se invece deve essere una qualche forma di guerra, speriamo e prepariamoci perché le cose avvengano in modo da limitare i danni. Anche i conflitti armati sono diversi da un tempo, e non c'è da pensare a uno scenario apocalittico, credo. 
Ma l'anarchia del sistema internazionale, e l'incapacità odierna degli Stati Uniti e di altre superpotenze a esercitare una leadership globale, possono portare a costi troppo elevati e non strettamente necessari.

L'alba comunque arriverà, su questo non c'è da aver paura; ma sta a noi decidere quanto far durare la notte di questa crisi. 

Francesco Maria

(...) La riforma è motivata dai timori del Paese riguardo alle ambizioni nucleari della Corea del nord e alla disputa, attualmente in corso, sul controllo di un gruppo di isolette nel Mar della Cina orientale, chiamateSenkaku in Giappone e Diaoyu in Cina, controllate da Tokyo, ma rivendicate da Pechino. Proprio stamani, è stata segnalata dalle autorità giapponesi un'incursione nelle acque territoriali di tali isole da parte di 4 guardacoste cinesi, la quale ha reso il clima tra i due Paesi ancora più teso.
Peraltro, l'articolo 9 della Costituzione giapponese - redatto da forze di occupazione americane dopo la sconfitta del Paese nella seconda guerra mondiale - prevede l'uso delle forze militari solo nel caso diautodifesa, escludendo la possibilità di iniziare unilateralmente un'azione militare. Ma, in realtà, le "Self-Defense Forces" del Giappone sono uno degli eserciti più forti dell'Asia. La riforma in quest'ottica potrebbe comportare un'espansione dell'attività militare, ma il Ministro della Difesa Itsunori Onodera ha fatto sapere ai giornalisti che non vi è alcun cambiamento di base nella politica nazionale di "sicurezza esclusivamente difensiva", e ha negato che possano essere compiuti "attacchi preventivi" nei confronti di obiettivi nemici.(...)
Ma funzionerà? Mentre la politica monetaria sperimentale è ora ampiamente accettata come una procedura standard nell’odierna era post-crisi, la sua efficacia resta dubbia. Quasi quattro anni dopo che il mondo ha toccato il fondo sulla scia della crisi finanziaria globale, l’impatto del Qe è stato straordinariamente asimmetrico. Mentre le massicce iniezioni di liquidità sono state efficaci nello scongelare i mercati del credito e hanno messo fine alla fase peggiore della crisi – come testimonia il primo ciclo di Qe attuato dalla Fed nel biennio 2009-2010 – i successivi sforzi non hanno di Stephen S. Roach - Il Sole 24 Ore - leggi su Le illusioni di politica monetaria di Shinzo Abe 

domenica 13 ottobre 2013

Chi E' Janet Yellen?

Janet Yellen differisce in molti aspetti dallo stereotipo del banchiere centrale. Innanzitutto, nelle apparenze. Non da duro banchiere con il sigaro, ma da nonna dolce che prepara la torta di mele per i nipotini. Ma la sua apparenza non deve trarre in inganno. Cresciuta professionalmente in un mondo tradizionalmente maschile (e un po' maschilista) come quello degli economisti, Yellen è una lady di ferro che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Un mio collega – tra i più aggressivi in un'università famosa per la sua aggressività - mi ha confessato di essere stato umiliato intellettualmente da Janet Yellen in una conversazione sulla disoccupazione. Lei ne sapeva molto più di lui e, con gentilezza ma determinazione, gli ha spiegato come le sue conclusioni erano sbagliate perché non era abbastanza al corrente dei fatti.
 
Questa fiducia nelle proprie capacità intellettuali, unita ad una apertura a idee diverse, sarà cruciale nei mesi a venire. La Fed deve sottrarre l'enorme liquidità che ha immesso nel sistema durante e dopo la crisi. Deve farlo abbastanza lentamente da non interrompere la fragile espansione americana, ma non così lentamente da creare pressioni inflazionistiche. Una manovra di queste proporzioni non ha precedenti e quindi esempi a cui rifarsi. Le pressioni da entrambi i lati saranno fortissime. Da qui l'importanza di un leader sicuro di sé, ma non arrogante, che riesca a creare un consenso all'interno della Fed e del Paese, senza lasciarsi traviare dalle varie pressioni. C'è bisogno di un leader che proietti al Paese e al mondo un'immagine di competenza e sicurezza. Penso che Janet Yellen possa essere questo leader.
 
Janet Yellen differisce dallo stereotipo dei banchieri centrali anche nella sostanza: non solo ha un cervello, ma anche un cuore. Per lei il tasso di disoccupazione non è solo un'altra statistica, è una tragedia umana. Per questo sul fronte inflazionistico è sempre stata considerata una colomba. E in un certo senso questo è vero. Se deve errare in una direzione nell'uscire dal quantitative easing, Yellen errerà nella direzione di un'uscita troppo lenta, non una troppo veloce. Ma sarebbe sbagliato considerarla alla pari di Krugman una sostenitrice di una politica monetaria ultra accomodante. Nel 1996 si scontrò con l'allora presidente della Fed Allan Greenspan perché sosteneva un rialzo dei tassi di interesse per controbattere pressioni inflazionistiche. Greenspan non la ascoltò, favorendo così la bolla internet.
 
di Luigi Zingales - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/5Du3b
 
(...) La Yellen, fino a ieri vice presidente della banca centrale americana, è sposata con il premio Nobel George Akerlof e ha un figlio che fa il professore di economia. Da quando Bernanke aveva fatto intendere che era pronto a lasciare l’incarico, e Obama non aveva fatto nulla per trattenerlo, lei era naturalmente entrata nella “short list” dei candidati. Le voci di corridoio, però, dicevano che il capo della Casa Bianca era più incline a scegliere Larry Summers, il suo ex consigliere economico, ex ministro del Tesoro nell’amministrazione Clinton, ed ex presidente dell’università di Harvard. Summers dava più sicurezza ad Obama, insieme alla garanzia di essere un falco, incline ad interrompere progressivamente gli stimoli all’economia varati da Bernanke per fare fronte alla crisi iniziata nel 2008.
Intorno al nome di Summers, però, si era costruita in fretta una coalizione di oppositori, che andava da un folto gruppo di senatori come la rappresentante del Massachusetts Elizabeth Warren, fino al premio Nobel per l’economia Stiglitz. Il motivo era che queste persone dell’ala liberal democratica consideravano Summers troppo vicino alle banche e al mondo della finanza, che dopo la crisi aveva aiutato, invece di far pagare loro il prezzo degli errori commessi. Con Larry, invece, si era schierato tutto il clan Clinton, incluso l’ex segretario al Tesoro Rubin.
La pressione degli oppositori è cresciuta, fino a quando tre senatori della Commissione che avrebbe dovuto approvare la nomina hanno annunciato che avrebbero votato contro. A quel punto Summers si è arreso, aprendo la strada alla Yellen. (...)


La nomina alla guida della Federal Reserve fa di Janet Yellen, 67 anni, attuale numero due di Ben Bernanke, la donna più potente del pianeta. La svolta è epocale: è la prima volta nei cento anni di storia della Banca centrale americana (il compleanno cade nel 2014) che si affida tanto potere nelle mani di una donna. Perché il presidente della Federal Reserve, con le sue decisioni di politica monetaria, è il faro che guida l’economia e i mercati non solo americani ma di tutto il mondo. L’ investitura di Yellen provoca anche un’altra circostanza eccezionale: la guida e la sorveglianza dei mercati Usa dal prossimo febbraio sarà declinata tutta al femminile, visto che anche il numero uno della Sec, l’autorità di controllo dei mercati americani, è una donna, Mary Jo White, 65 anni.

Pronti a un pizzico di ottimismo in Borsa? Oggi è possibile perché almeno un tormentone si è chiuso a Washington: sarà Janet Jellen, 67 anni, la numero due di Ben Bernanke. la nuova guida della Federal Reserve, la Banca Centrale americana. Barack Obama darà l'annuncio formale questa sera ora italiana, ma la decisione finale dopo mille tergiversazioni e un'epica battaglia con Larry Summers è presa. di Mario Platero con un commento di Luigi Zingales - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/SB24O

Janet L. Yellen took office as Vice Chair of the Board of Governors of the Federal Reserve System on October 4, 2010, for a four-year term ending October 4, 2014. Dr. Yellen simultaneously began a 14-year term as a member of the Board that will expire January 31, 2024.

martedì 17 settembre 2013

Janet E Gli Altri

Nonostante la rinuncia di Larry Summers alla guida della Federal Reserve, la Banca centrale americana, non è scontata la nomina di Janet Yellen, a cui ci si riferisce con l'aggettivo dovish, da dove, colomba, persona che cerca di conciliare posizioni diverse. Yellen, 66 anni, attuale vicepresidente del board della Fed, potrebbe risultare un vaso di coccio, nonstante gli investitori confidino nella sua nomina scrive oggi il Financial Times: ai repubblicani non piace la sua reputazione da moderata, Barack Obama ha fatto capire che non è la sua candidata ideale. Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/NewZb

Dagli studi in California alla carica economica più importante del mondo. Dopo l'uscita di Lawrence Summers dalla corsa per la presidenza della Federal Reserve, Janet Yellen, 67 anni, è sempre più vicina al vertice della banca centrale statunitense della quale è attualmente vicepresidente. Una carriera, la sua, all'insegna del rigore e dell'understatement con una solida reputazione che l'ha aiutata a farsi strada nel mondo tradizionalmente maschilista dell'alta finanza. 

mercoledì 31 luglio 2013

BCE, sì di Draghi alla pubblicazione dei verbali del Consiglio direttivo

(...) Se il progetto venisse realizzato, si tratterebbe della rottura di un tabù gelosamente custodito finora all’interno degli archivi strettamente stop secret dei banchieri centrali europei. Tempo fa Draghi aveva promesso alla Süddeutsche Zeitungl’intenzione di spiegare più in dettaglio le operazioni di politica monetaria e non standard della Bce. E ieri, in un’intervista al quotidiano di Monaco di Baviera, ha detto di ritenere la pubblicazione dei verbali «uno dei prossimi passi necessari» da compiere. E per questo, ha preannunciato che «il board della Bce sottoporrà una proposta in merito alla discussione e alla decisione del Consiglio direttivo».

In seno al direttorio, almeno tre degli altri cinque membri si sono già pronunciati a favore del progetto di maggiore trasparenza, attraverso la pubblicazione dei verbali segreti. Il primo era stato, alcuni giorni fa, il capo economista Peter Praet (in un’intervista al Corriere della Sera), seguito l’ultimo fine settimana dal membro francese Benoit Coeuré e da quello tedesco Jörg Asmussen. E quest’ultimo aveva sostenuto perfino che «i verbali (pubblicati) dovrebbero contenere anche il nome di chi ha votato a favore (di una decisione) e con quale motivazione».(...)

Bce , sì di Draghi alla pubblicazione dei verbali del Consiglio direttivo

domenica 15 aprile 2012

La tentazione pericolosa della BCE (ilSole24Ore)

La Bce può obbiettare, con qualche ragione, che la politica monetaria non è lo strumento adatto per riequilibrare l'economia europea. Un taglio dei tassi di riferimento o una politica di espansione quantitativa chiamata in un altro modo non servono a migliorare la competitività delle traballanti economie del Sud Europa. È vero. Ma senza crescita economica difficilmente potrà esserci la volontà politica di prendere misure difficili a livello nazionale. - di Barry Eichengreenn - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/YXW1I

lunedì 2 gennaio 2012

Da cosa dipende lo sviluppo (FULM - Fondazione Ugo La Malfa)

(...) In questi ultimi tempi si è assistito a un profondo mutamento degli obiettivi della politica monetaria; le banche centrali si sono dedicate alla cura della stabilità finanziaria piuttosto che al più classico controllo dei prezzi, pur essendo due facce della stessa medaglia. Ciò è stato possibile perché l'inflazione è controllata dalla bassa crescita della domanda, soprattutto in Europa, ma gli interventi necessari a stabilizzare i mercati del credito e dei titoli hanno creato un habitat inflazionistico globale che può esplodere appena la situazione gira.

E ciò accadrà, perché le crisi comunque finiscono. Per questo motivo le banche centrali si rifiutano di inviare segnali forti di sostegno dell'attività produttiva, negando che sia un loro compito farlo, e sono prodighe di avvertimenti che prima o dopo devono rientrare nell'ortodossia delle gestioni monetarie. Fa eccezione la Fed americana che si è avventurata ad annunciare un orizzonte temporale pluriennale (fino a metà 2013) per la sua politica espansiva. È cosa nota che gli Stati Uniti pongono poca attenzione al valore del dollaro, che considerano la loro moneta, ma un nostro problema.
Infatti lo è ed è per questo motivo che tra le incognite dello sviluppo vi è anche l'andamento del cambio dollaro-yuan, i cui mutamenti, una volta risolta la crisi dell'euro, possono incidere sulla capacità di esportare delle imprese italiane attraverso rivalutazioni del cambio della moneta europea.
Va aggiunto che l'uso di un'unica lente di lettura dell'economia italiana non si adatta alla profonda spaccatura che si va accentuando tra Nord e Sud d'Italia, con andamenti che, per alcune regioni, Lombardia in testa, non possono lasciarle indifferenti, perché la domanda meridionale rappresenta una parte significativa del loro prodotto interno lordo. È quindi necessario estendere il campo visivo alla considerazione degli andamenti del Mezzogiorno, con una particolare attenzione alla natura e all'entità delle politiche di coesione europea e all'applicazione che di esse verrà data dal nuovo governo.
Se esso non si indirizzerà a pioggia, come in passato, ma rafforzerà le esportazioni e la sostituzione di importazioni dall'esterno con prodotti locali, dal Sud potrebbe provenire un contributo positivo alla stabilità economica e sociale dell'intero Paese. Le crisi affrontate dall'Italia nel corso dei 150 anni della sua storia, che quest'anno celebriamo, testimoniano che i problemi italiani non covano nell'economia, ma nella società.

giovedì 29 dicembre 2011

Quando cambiano gli equilibri del mondo

Come ha ben visto il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, la recente decisione di Cina e Giappone di rinunciare al dollaro per le transazioni fra i due paesi è una specie di allarme che non rigurda solo gli Stati Uniti. L'Europa è chiamata a fare la sua parte in un mondo che si sta riorganizzando, ci piaccia o no. 
E' quanto mai necessario - anche per mettere a punto una reale e duratura "soluzione" (se è possibile parlare di una soluzione, forse dovremmo dire un "tentativo di governo"...) della crisi economico-finanziaria - prendere atto del potere della Cina e "costringerla" a definire insieme a Europa e Stati Uniti una agenda complessiva che riguardi tutti i temi globali (non solo economici) oggi in campo: a partire dalla fluttuazione delle monete (da controllare in una sorta di "Serpente monetario globale"), per arrivare a temi come la concorrenza (dove è sempre più probabile il ritorno di un clima protezionistico, che almeno sul breve periodo potrebbe temperare le economie e permettere il riavvio di una domanda interna ai vari continenti), e definendo anche standard comuni per ambiente e lavoro. 
Un tavolo comune - che avrà anche inevitabili risvolti più direttamente politici, come si è già detto in passato - da "convocare" al più presto.

Francesco Maria Mariotti

(...) non c' è dubbio che l' intesa è piena di simbolismi destinati a rafforzare l' immagine di un' Asia sempre più autonoma e con una forte capacità d' attrazione. Accordi che, al di là delle ragioni tecnico-economiche che li hanno ispirati - ragioni che hanno un loro fondamento oggettivo - entro pochi anni potrebbero anche innescare nuovi processi di tipo politico. In sé la scelta di utilizzare di più yen e yuan nelle transazioni tra i due Paesi risponde all' esigenza di contenere i rischi sui cambi, ridimensionando il ruolo della valuta - il dollaro - che negli ultimi anni si è dimostrata più debole e instabile e archiviando la possibilità di ricorrere maggiormente a un euro che negli ultimi mesi ha perso credibilità e valore. Anche l' intenzione di Tokio di investire di più in titoli cinesi risponde a una ragionevole strategia di diversificazione del rischio: il Giappone, secondo solo alla Cina per l' imponenza delle sue riserve valutarie (1.300 miliardi di dollari, mentre Pechino ne ha per ben 3.200 miliardi), sta, infatti, registrando grosse perdite sui suoi massicci investimenti denominati nella valuta Usa. In questo Cina e Giappone, storiche nemiche sul campo, registrano una crescente convergenza d' interessi in campo commerciale e finanziario. Una convergenza che ha reso possibile un' intesa tra due Paesi comunque divisi da dispute territoriali (isole contese del Pacifico), che faticano a tenere a bada opinioni pubbliche attratte più dal falò dei contrapposti nazionalismi che dalle ragioni del dialogo. Proprio per questo l' accordo ha preso di sorpresa molti osservatori. E ora, davanti a una Cina che ha messo a segno un altro colpo sulla strada del riconoscimento del ruolo internazionale dello yuan, ci si chiede quanto peserà, nel lungo periodo, questo processo. (...)


(...) L'11 dicembre 2011 la Cina ha celebrato il primo decennale di adesione alla World Trade Organization; pochi giorni prima, al G20 di Cannes, il premier cinese aveva annunciato una politica di free market per l'export proveniente dai paesi più poveri del mondo. Si tratta di eventi e determinazioni che, insieme con le recenti misure neoprotezioniste verso gli Usa, mostrano che la Cina, attraverso diverse strategie, intende assumere un ruolo preminente di leadership sulla scena mondiale.