mercoledì 28 agosto 2013

L’attacco alla Siria sarà uno strike di punizione oppure “Kill Assad”? (ilFoglio.it)

(...) Ieri però il Wall Street Journal già spiegava in un editoriale ambizioso che l’obiettivo dell’intervento dovrebbe essere il regime change a Damasco e che: “The problem is Assad”. “Lanciare un po’ di missili cruise da distanza di sicurezza sarebbe la risposta peggiore”, scrive il Wsj, gettando le fondamenta teoriche di ogni possibile piano per uccidere il presidente siriano. Questa opzione “Kill Assad” richiede come detto un accordo politico sottobanco con l’establishment governativo siriano (che in passato qualche frattura l’ha mostrata) e anche un secondo accordo con l’opposizione non jihadista, perché accetti una riconciliazione. Vasto programma, come si vede. Sembra un’acrobazia diplomatica a bassa probabilità di riuscita.(...) 
Chris Harmer è l’autore di uno studio ampiamente circolato (ne ha parlato anche il Foglio, venerdì scorso in prima pagina) sulla fattibilità di uno strike con soli missili contro la Siria. Harmer è un analista navale specializzato nel targeting, nell’acquisizione di bersagli, e sostiene che è possibile paralizzare l’aviazione siriana con un numero limitato di strike, senza rischi e dal costo limitato. Però mette in guardia in un secondo studio pubblicato dal sito Understandingwar: se prima non c’è una definizione strategica di cosa si vuole ottenere da una guerra, allora intervenire è inutile, forse è peggio. “Le azioni tattiche in assenza di obiettivi strategici di solito sono senza senso e spesso controproducenti”, scrive. “Concetti come gli ‘strike punitivi’ per fare deterrenza contro l’uso di armi chimiche non si possono tradurre in una scelta di bersagli. Intraprendere un’azione militare per provare che l’America non starà a guardare non è una strategia. Non è nemmeno un buon criterio per la pianificazione di un’operazione, perché non offre ai militari un traguardo che possono raggiungere” (...)

Siria: Ancora Una Guerra Senza Politica?

Provo a dire alcune cose sulla situazione siriana, di seguito potete leggere articoli e commenti per poter approfondire. 

1. Da quel che si legge, le informazioni sul presunto utilizzo di armi chimiche sono tutt'altro che certe. Perché Assad avrebbe colpito in modo così plateale quasi a voler provocare gli USA? Oltre al dubbio razionale sui moventi (vd. in senso diverso l'articolo di Anna Momigliano su Panorama), vi sono in realtà dubbi anche sulle immagini che sono state fatte girare dai media (si veda un altro degli articoli proposti di seguito, tratto da il Giornale).

2. Torna dunque prepotente - come per la Libia - il tema della gestione delle informazioni, della verificabilità delle stesse; dell'inevitabile "torsione politica" che si insinua anche nella notizia più limpida, da un certo punto di vista.

3. E dunque, torna di nuovo la riflessione sulla capacità della politica di "fare filtro" rispetto alle spinte mediatiche, che troppo spesso assumono la forma di "emozioni guidate"; di fronte ad esse il decisore politico dovrebbe porsi "in contrasto" o almeno con la capacità di declinarle e governarle. Capacità che sembra totalmente scomparsa; siamo passati da una politica che pretendeva di guidare il mondo - sbagliando per eccesso di "dirigismo" - a una politica schiava delle pulsioni dell'immediato. Che sempre pulsioni sono, anche laddove si presentino sotto forma di una normatività che si pretende etica.

4. Cosa succederà "dopo"? Questa la domanda che bisogna porsi, rispetto a un possibile intervento in campo siriano. Si vuole arrivare a deporre Assad? E chi trionferebbe? Milizie qaediste, forse. Un rischio che dobbiamo avere ben presente. E che probabilmente trattiene ancora la decisione finale.

5. Altro fattore negativo, che sembra farsi presente anche in questo intervento: la semplificazione della guerra in dinamica tecnologica. In questo momento - tra le altre cose - si ipotizzano attacchi aerei per tre giorni; pare valere ancora l'idea che la guerra "dall'alto" sia meglio gestibile, come se ciò non comportasse rischi tangibili, come se le dinamiche politiche potessero essere "sterilizzate" attraverso la superiorità teconologica. Una rischiosa illusione.

Provo a concludere: per combattere bene una guerra, bisogna saper costruire "attorno" una politica, che è  - anche, per certi aspetti molto banalmente  - la capacità di tenere assieme mezzi e fini. 

Laddove ci fosse capacità di rapportare i mezzi scelti a fini coerenti e realmente gestibili, sarebbe paradossalmente poco importante istruire indagini su presunte armi chimiche. 

Si faccia la guerra, dunque, se si è capaci di costruire un nuovo ordine. Ma se non lo si è - e in questo momento nessuno ne è capace - allora è il caso di riflettere molto attentamente, e - forse - attendere.

Francesco Maria Mariotti


È un limite, certo. Ma al tempo stesso è il segnale - e l'auspicio - che si tratti di un intervento limitato, nei numeri e nello spazio temporale. Obama non vuole altri impegni bellici a lunga scadenza, che dissanguino uomini ed economia. Era restio ad agire in Libia, figuriamoci che effetto gli fa un ginepraio qual è la Siria. Per questo ha dato spazio a forze speciali e droni. Ora spera di «punire» Assad senza rimanere intrappolato in uno scacchiere che sinora gli ha procurato solo guai. Ha provato a tenersi lontano dal Medio Oriente, ma le questioni regionali hanno finito per risucchiarlo. E poi, facendo l'errore di invocare le famose linee rosse sull'uso delle armi chimiche, si è spinto nell'angolo da solo. Una volta che hai tracciato il limite invalicabile, non puoi far finta che non esista. Al Congresso, dove pure ci sono degli interventisti, aspettano spiegazioni dal presidente. Le hanno sollecitate.

Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, dice che chi sostiene di avere prove certe sull’attacco con armi chimiche di mercoledì scorso alla periferia di Damasco dovrebbe condividerle, perché il fatto è troppo importante e ne derivano conseguenze enormi (l’intervento armato internazionale, che sembra imminente). Chiediamo al ministro: “Si riferisce a Israele? Secondo la stampa tedesca, gli israeliani avrebbero intercettato le comunicazioni dell’esercito siriano durante l’attacco e il loro ministro dell’Intelligence, Yuval Steinitz, sostiene che è ‘chiaro come il cristallo’ che la responsabilità è del governo siriano. Deve condividere?”. Bonino, annuisce, “dico a chiunque abbia informazioni che provano con certezza cosa è successo. Non dico che dovrebbero essere portate a me, o a Roma, ma esistono organi internazionali come il Consiglio di sicurezza. I francesi lo hanno già fatto, hanno portato tutto il loro dossier sugli attacchi chimici di marzo alle Nazioni Unite. Quello che io mi auguro davvero, proprio per evitare che ciascuno tiri dalla sua parte, e tutti hanno una parte… Vorrei che queste dichiarazioni, tra l’altro spesso così perentorie, trovassero un luogo di esame, dove possono essere depositate e condivise 
Il giornalista Phil Sands aggiunge: le unità siriane che hanno bombardato con i razzi chimici non sapevano quello che stavano facendo. Sands è il corrispondente da Damasco del giornale The National (Emirati Arabi Uniti), ha lasciato la capitale a marzo dopo cinque anni. Scrive che secondo le sue fonti gli ufficiali militari siriani coinvolti nell’attacco chimico ora stanno tentando di prendere le distanze e insistono di non avere saputo che i razzi contenessero sostanze tossiche. “Gente vicina al regime ci ha detto che i missili gli sono stati consegnati poche ore prima dell’attacco”, dice una fonte a Damasco. “Non arrivavano dall’esercito ma dall’intelligence dell’aviazione militare, per ordine di Hafez Makhlouf. Gli ufficiali dicono che non sapevano ci fossero armi chimiche. Anche qualcuno tra quelli che li hanno trasportati dice che non aveva idea di cosa ci fosse – pensava fossero armi convenzionali”.

Tel Aviv. Le chiamate al 171, centralino del servizio postale israeliano che distribuisce alla popolazione le maschere anti-gas, sono triplicate nelle scorse ore, assieme al numero di cittadini che si è presentato ai centri di distribuzione in tutto il paese. Si intensificano infatti in questi giorni gli indizi di una possibile operazione militare americana contro la Siria, dopo i presunti attacchi chimici che mercoledì avrebbero ucciso nei sobborghi di Damasco centinaia di persone. Per molti israeliani, il timore è quello che un attacco militare degli Stati Uniti e dei loro alleati possa rendere Israele, vicino della Siria e del Libano con i quali è formalmente in guerra, il più ovvio obiettivo di una rappresaglia armata. Le parole di alcuni funzionari siriani sarebbero una non troppo velata minaccia alla sicurezza nazionale, scrive il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, riportando una frase del ministro dell’Informazione di Damasco: “Un attacco americano infiammerebbe tutto il medio oriente”. Minacce esplicite sono venute da Khalaf Muftah, ex aiutante del ministro, oggi funzionario del partito Baath. In caso di attacco “Israele finirà nel mirino”, ha detto ieri in un’intervista radio. “Abbiamo armi strategiche e siamo capaci di rispondere”.

Eppure questa volta, forse, chi vede il regime siriano prossimo alla fine potrebbe non sbagliarsi. Perché ieri il segretario di Stato americano John Kerry ha pronunciato un discorso durissimo, che lascia intendere che Obama, a breve, potrebbe fare quello che, beh, per mesi ha fatto di tutto per evitare: attaccare la Siria. “C’è una ragione, se il mondo ha messo al bando, completamente, l’utilizzo di armi chimiche”, e “c’è una ragione se il presidente Obama ha chiarito, davanti al regime di Assad, che questa norma internazionale non può essere violata senza conseguenze”, ha detto Kerry (...) Cosa succede in Siria? (Anna Momigliano su Rivista Studio)
Gli scettici fanno notare che qualcosa, dal punto di vista meramente razionale, non quadra: «Per quale ragione Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche, sapendo da tempo che Obama non le avrebbe tollerate?», ha scritto per esempio Marcello Foa del Giornale. «È come se un conducente lanciasse l’auto a 200 km all'ora in una zona in cui il limite è 80, pur essendo stato informato della presenza di un autovelox e, dietro l’angolo, di un posto di blocco. Non ha senso».
Eppure, dal punto di vista del regime siriano, un senso l'utilizzo del gas nervino potrebbe avercelo. Le spiegazioni sono due. Forse Assad ha commesso un errore di valutazione, convinto che Obama non avrebbe preso provvedimenti concreti. Oppure ha voluto provocare gli Usa. Una cosa che, per quanto strano possa sembrare, rientra nel modo di pensare di Assad. Che, come riferiscono suoi ex collaboratori passati dalla parte dell'opposizione, è convinto che la sua forza consista proprio nella sua capacità di essere sopravvissuto, in più occasioni, agli attacchi dell'Occidente. Dottor Bashar, Mister Assad (A.Momigliano su Panorama)
Le immagini di Ghouta, la località dove il governo avrebbe usato i gas sono devastanti dal punto di vista emozionale, ma assai ambigue dal punto di vista documentale. La contraddizione più evidente è la mancanza di protezioni da parte dei presunti sanitari arrivati a soccorrere le vittime. L'altra è la sistematica plateale teatralità con cui i bambini deceduti vengono allineati davanti agli obbiettivi. Ad Halabja nel marzo 1988 i gas di Saddam non fecero distinzione tra vittime e soccorritori e sterminarono chiunque non si fosse allontanato. A Ghouta nessuno fugge, non c'è un clima di panico e gli ospedali continuano a funzionare. Siria ed Egitto come la Libia: islamisti campioni di inganni (ilGiornale.it)
A una settimana dal presunto attacco con armi chimiche che il 21 agosto avrebbe fatto centinaia di vittime alla periferia di Damasco, gli Stati Uniti e i paesi europei sembrano pronti alla rappresaglia contro il governo siriano. Ma qualsiasi intervento andrà calcolato attentamente, scrive la stampa europea.

domenica 25 agosto 2013

Geografia, Piazze, Identità

Sul “domenicale” de “Il sole 24 ore” dell’11 agosto, il geografo Franco Farinelli – che avremo il piacere di ascoltare il 30 settembre a Milano nella cornice del Festival di Cultura ebraica “Jewish and the City”, a proposito della storia degli ebrei come geografia – ha ricordato che il mondo non è un insieme di luoghi, di parti l’un l’altra irriducibili perché ciascuna dotata di valori propri e qualità specifiche, ma è uno spazio che occorre interpretare, avendo come criterio di lettura la piazza, ovvero un luogo pubblico dove tutti sono parti e nessuno è escluso. Il che richiede che si abbia, anche, una diversa accezione di ciò che di solito chiamiamo “generale” o “particolare”, “collettivo” o “individuale”, “specifico” o “condiviso”. In altre parole che si dia un contenuto, meno esclusivo e più articolato (o almeno maggiormente problematico) alla parola identità.

Siria: Si Avvicina l'Intervento?

(...) I russi sanno cosa vogliono a Damasco, una transizione controllata, non gli americani che pure condividono in parte le preoccupazioni Mosca. Al Congresso, pochi giorni fa, il capo di stato maggiore americano Martin Dempsey è stato esplicito: «Nessuno nel fronte dei ribelli è in grado di garantire i nostri interessi. Qui non ci sono moderati che possono prendere il potere». È un dato di fatto: il Free Syrian Army sponsorizzato dai turchi è un ombrello di formazioni variegate e litigiose mentre imperversano i gruppi jihadisti di al-Qaida e di Jabat al Nusra. Se sarà guerra sarà una guerra al buio, ha spiegato il comandante in capo Dempsey, veterano del Golfo e dell'Iraq. «Un intervento Usa - ha detto - non risolverebbe i problemi religiosi, tribali e settari della Siria». E neppure quelli del Medio Oriente intorno. Forse la Siria merita qualche cosa di meglio di uno sparo nel buio. 
di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Ged9G

(...) La rapidità con la quale stanno riunendosi gli organismi consultivi per discutere di opzioni militari lascia intendere che qualcosa sta davvero muovendosi sul piano militare. Nei giorni scorsi soni entrati in azione nel sud i primi reparti di ribelli dell'Esercito Siriano Libero addestrati e armati in territorio giordano dai consiglieri militari statunitensi come ha raccontato Le Figaro. "Un primo gruppo di 300 uomini, senza dubbio sostenuto da israeliani e giordani così come da uomini della Cia, avrebbe attraversato la frontiera il 17 agosto e un secondo gruppo li avrebbe raggiunti due giorni dopo"– scrive il quotidiano francese. Se Washington ha deciso di intervenire con le armi le opzioni disponibili sono almeno cinque. (...)
di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/qdmBC

sabato 24 agosto 2013

I dilemmi di un intervento (da laStampa.it)

Consiglio caldamente l'articolo di oggi di Roberto Toscano, a mio modesto avviso molto condivisibile, sui dilemmi relativi a un eventuale intervento in Siria. 

Toscano fa riferimento anche alle questioni analoghe che sono sorte nel caso della Libia. Sappiamo come è andata. 

Su queste problematiche mi permetto di riproporre una mia riflessione che partiva appunto dall'ipotesi di intervento in Libia, e un'altra breve riflessione sulla Siria.

FMM

In Siria, la cosiddetta «comunità internazionale» (a ben vedere, si tratta piuttosto di Usa e Ue) è forse alle soglie di un intervento militare, ma mai come in questo caso risulta evidente tutta la riluttanza dei Paesi che dovrebbero impegnare uomini e risorse imbarcandosi in un’impresa militare dalle problematiche motivazioni e soprattutto dalle imprevedibili conseguenze. 
Lo strazio del popolo siriano viene ormai da lontano, e le perdite umane hanno superato la quota centomila, senza contare i milioni di profughi nei Paesi limitrofi. Perché non si è fatto nulla finora, e perché invece una decisione di agire potrebbe essere presa nei prossimi giorni?  

La questione fondamentale si riferisce all’uso delle armi chimiche, che già un anno fa era stato definito dal presidente Obama come una «linea rossa» il cui attraversamento avrebbe imposto una reazione di tipo militare. Le foto pubblicate negli ultimi giorni non lasciano dubbi sulla quantità di vittime (per maggiore strazio, anche tanti bambini) i cui corpi sono apparentemente intatti, rafforzando il sospetto che siano morti come effetto dell’impiego di armi chimiche. Il regime siriano, di cui è ben noto il possesso di grandi depositi di questo tipo di armi e che sarebbe difficile sospettare di scrupoli morali, nega di essere responsabile, e ritorce l’accusa sui ribelli. Ma l’accusa è resa poco credibile dal fatto che le forze anti-Assad non dispongono né di aerei né di missili, mentre le armi chimiche non si possono impiegare senza questi vettori. Per quanto riguarda il principale sospetto, d’altra parte, sorge un dubbio di natura politica: possibile che, sapendo che proprio l’impiego delle armi chimiche è stato individuato come possibile giustificazione di un intervento, il governo di Assad (che fra l’altro ultimamente non sta perdendo terreno militarmente, ma anzi appare in vantaggio rispetto ai ribelli) abbia deciso di correre il rischio di impiegare contro civili armi chimiche, fra l’altro a poca distanza dalla capitale, e anzi a pochi chilometri da dove alloggiano gli ispettori inviati dalle Nazioni Unite per indagare sulla denuncia di precedenti episodi di utilizzo di armi chimiche? 

Si impone quindi un immediato chiarimento, senza aspettare i tempi lunghi che caratterizzano la burocrazia Onu, e soprattutto senza tergiversazioni da parte del governo siriano. L’intervento di Mosca, che ha esortato il suo alleato siriano a collaborare immediatamente con l’indagine, rivela tutta la drammatica urgenza della situazione. 
Obama vede che ci si sta avvicinando alla sua «linea rossa», eppure ieri mattina, in una sua intervista alla Cnn, non ha fatto mistero delle sue esitazioni, quando ha detto che bisogna stare molto attenti a non buttarsi a capofitto in situazioni difficili impegnandosi in «interventi costosi» che potrebbero «aggravare nella regione i risentimenti nei nostri confronti». (...)

Certo, è moralmente comprensibile, di fronte agli orrori della guerra in Siria, esclamare «bisogna fare qualcosa!», ma come si fa a dire che sia ingiustificato, e sintomo di scarsa capacità politica se non addirittura di carenza di sensibilità morale, chiedersi, come fa Obama, come intervenire, con quali prospettive, con quali conseguenze? 
Mai come di fronte al caso siriano è diventato importante distinguere etica della convinzione da etica della responsabilità. Seguendo l’imperativo categorico della prima, mettiamo certo a tacere la nostra coscienza, ma in fin dei conti ci laviamo le mani dalle conseguenze della nostra azione. I romani dicevanofiat justitia, pereat mundus: va fatta giustizia, anche se il mondo dovesse perire.  (...)

Sempre nel caso libico, poi, sono emerse tutte le contraddizioni dell’applicazione concreta del principio dell’«intervento umanitario». Un intervento che è moralmente inattaccabile ed anche legalmente sostenibile – esistono precise norme internazionali contro il genocidio – laddove si verifica per proteggere civili innocenti dalle stragi di un potere assassino (come sarebbe dovuto accadere nel 1994 nel caso del Rwanda, quando quasi un milione di persone sono state sterminate senza che si ritenesse necessario intervenire), ma che certo cambia di segno quando si verifica in sostegno ad una delle parti che si confrontano in una guerra civile. In Siria non si è intervenuti all’inizio, quando Assad represse con la violenza pacifiche manifestazioni di protesta, e si dovrebbe intervenire oggi, quando nel corso di uno scontro militare vengono messi in atto (dalle due parti, anche se con ogni evidenza principalmente da chi ha strutture militari organizzate) crimini di guerra e crimini contro l’umanità.  

Sconfiggere il dittatore – fino a ieri, va detto, cordiale interlocutore dei Paesi che oggi dovrebbero contribuire a rovesciarlo militarmente – ma per sostituire il suo regime con chi e con quali forze politiche? Passare, come nell’Iraq del dopo-Saddam, da una dittatura laica ad un feroce scontro settario? Come sempre accade quando le sorti di un Paese si decidono con lo scontro militare, nello schieramento anti-Assad stanno prevalendo quelli che combattono meglio, non quelli che darebbero più garanzie per una futura Siria di pace, rispetto dei diritti umani e convivenza fra comunità: i salafiti, e un gruppo, Al Nusra, apertamente schierato con Al Qaeda. E’ concepibile che gli aerei della Nato possano fare da sostegno aereo a combattenti di Al Qaeda? 
E infine, come facciamo a non chiederci quali prospettive si aprirebbero nell’intera regione se si verificasse un intervento militare occidentale?  

E allora, andiamoci piano a criticare Obama, e in particolare ad ironizzare sul suo richiamo alla necessità di un’azione della comunità internazionale condotta sul piano politico-diplomatico e non militare. 
Il punto di partenza è che né Assad né i ribelli possono pensare di prevalere sul terreno militare, e di conseguenza la prosecuzione dello scontro militare può soltanto portare alla devastazione del Paese.  
Si devono coinvolgere nella soluzione gli Stati che appoggiano materialmente, e non solo politicamente, le due parti in lotta: da una parte Russia e Iran, e dall’altra Arabia Saudita, Turchia, Qatar. Solo loro, e non certo un’America e un’Europa prive di strumenti reali, potranno convincere le parti dell’inevitabile rinuncia al loro obiettivo massimo di eliminazione totale dell’avversario e accettare un compromesso, che dovrà probabilmente comportare, fra l’altro, l’uscita di scena di Assad ma non dell’attuale regime, e garanzie alle minoranze (alawiti, cristiani) che temono il prevalere delle tendenze sunnite più radicali. 
Un cammino difficile, ma certo meno disastroso e in fondo più realista di quello di un’internazionalizzazione, con un intervento americano ed europeo, dello scontro militare. 

mercoledì 21 agosto 2013

45 anni fa veniva repressa la "primavera di Praga"

Il 21 agosto di 45 anni fa veniva repressa nel sangue la "primavera di Praga". In occasione di questo anniversario pubblico ampi stralci di un articolo di Antonio Gambino del 25 agosto 1968.

FMM

(...) Le truppe russe, polacche, tedesco-orientali, ungheresi e perfino bulgare, sono penetrate, da varie direzioni, nel suo territorio, hanno occupato Praga e le altre città più importanti, si sono schierate al confine con il mondo occidentale. Le notizie della prime ore della mattina di mercoledì 21 agosto (quelle in cui scriviamo) non dicono di più. Ma esse contengono l’essenziale della situazione, mostrano che ancora una volta il piccolo popolo cecoslovacco è vittima di un’aggressione brutale e ingiustificata, è al centro di avvenimenti tragici, certamente destinati ad avere ripercussioni mondiali di portata incalcolabile.


Che la tensione tra Praga e Mosca non fosse finita con le formule di compromesso di Cierna e di Bratislava era apparso chiaro fin da principio: evidentemente, quello che si era chiuso all'inizio di agosto era solo il primo round di una partita complessa e lunga. Ma contro la ipotesi di una invasione armata sovietica, diretta ad eliminare con la forza il gruppo dirigente stretto intorno a Dubcˇek e a porre fine alla sua politica rinnovatrice, militavano obiezioni precise: in primo luogo la differenza (sulla quale avevano in particolare insistito i comunisti italiani nei loro colloqui con i dirigenti dei Pcus) tra l’esplosione ungherese del 1965 e l’andamento controllato della evoluzione cecoslovacca. Più in generale, un certo ottimismo (diffuso sia in Occidente che nella stessa Cecoslovacchia) nasceva dall’impossibilità di credere che nel 1968, dopo anni di insistenza sui temi della coesistenza pacifica e di un nuovo assetto continentale (fondato sullo slogan paragollista: “l’Europa agli europei”), i dirigenti di Mosca potessero nuovamente ricorrere ai metodi della tradizione zarista per richiamare all’ordine quelli che essi (oggi non meno che all’epoca di Stalin) considerano gli Stati vassalli e satelliti delI’Urss, la fascia protettiva esterna della grande madre Russia.(...)

Già da una settimana i giornali e le riviste di Mosca avevano ricominciato il loro martellamento, aggiungendo alle vecchie accuse contro gli intrighi dei “capitalisti” e dei gruppi antisocialisti interni nuove “rivelazioni” a proposito dei progetti dei “revanscisti di Bonn” per staccare l’ex regione dei Sudeti dal territorio cecoslovacco.

Questa ripresa della polemica costituiva, evidentemente, un fenomeno preoccupante. Dopo che Dubcˇek e Breznev avevano chiarito nei quattro giorni di colloqui di Cierna le rispettive posizioni, gli attacchi continui contro la Cecoslovacchia non potevano infatti essere più visti come un mezzo di pressione e di minaccia, sulla cui efficacia non ci si poteva più fare molte illusioni, ma potevano solo costituire la premessa per un intervento armato. Ed in effetti è proprio sul motivo di un pericolo esterno, oltre che sul preteso appello degli stessi dirigenti di Praga, che Mosca ha insistito per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la sua aggressione.(...)

Usciti dal lungo periodo di compressione dello stalinismo e del novotnismo (periodo che ha assunto a Praga caratteri particolarmente tetri e biechi, proprio nel tentativo di cancellare con la violenza la realtà profonda del paese), i cechi e gli slovacchi hanno cominciato un moto evolutivo, di ricerca della propria identità nazionale e culturale, destinato evidentemente ad andare oltre ad ogni schematismo e ad ogni disciplina di partito. Se a tal moto fosse stato permesso di proseguire è certo che, in un tempo più o meno breve, un popolo che prima della seconda guerra mondiale era tra i più moderni e civili di Europa avrebbe finito per rigettare in ogni sua forma quel comunismo autoritario e primitivo che, nato trenta anni prima in un paese infinitamente più arretrato, alla fine della seconda guerra mondiale era stato imposto anche a Praga, in base alla logica della guerra fredda e dei blocchi militari.(...)

Né si poteva credere che il germe revisionista, una volta che ad esserne intaccati non erano paesi periferici come la Jugoslavia e la Romania, avrebbe risparmiato gli altri Stati satelliti: in primo luogo l’Ungheria e la Polonia. Infine, in ogni momento, il processo avrebbe potuto avere ripercussioni incontrollabili in Germania orientale, che ancora oggi costituisce il pilastro del cordone protettivo sovietico ma che, per il suo carattere di Stato artificiale, ne è al tempo stesso il punto più debole. Anche al di là delle loro intenzioni, insomma, i leader rinnovatori di Praga mettevano in crisi l’intero equilibrio europeo, concepito e realizzato da Stalin quasi 25 anni fa. (...)

Tutti i dati sembrano convergere nell’indicare che un acceso dibattito su questi temi si è svolto quasi ininterrottamente a Mosca nell’ultimo mese (e la voce non confermata delle dimissioni di Kossighin ne sarebbe una prova). La vittoria della tendenza conservatrice si è tradotta immediatamente nell’ordine ai carri armati della Santa Alleanza dell’Est di marciare su Praga.(...)


Al Cairo il re saudita si prende una vendetta da 12 miliardi su Obama (da ilFoglio.it)

(...) Il re Abdullah in queste settimane di dopogolpe si sta prendendo una rivincita enorme in Egitto contro i detestati Fratelli musulmani e contro, appunto, l’alleato americano Barack Obama. Soltanto due anni fa era al telefono con il presidente durante i giorni della rivoluzione egiziana e per la rabbia ebbe un malore con la cornetta in mano – così si disse, anche se la notizia non fu mai confermata. Il sovrano aveva chiesto che Washington schierasse il suo peso dalla parte di Hosni Mubarak contro le manifestazioni di popolo in piazza Tahrir e gli americani invece avevano abbandonato il rais egiziano al suo destino, all’arresto, alla prigione. Quando la sera dell’11 febbraio l’esercito egiziano annunciò le dimissioni del presidente, alla corte di Riad i sauditi erano lividi: non soltanto temevano che le proteste sarebbero prima o poi arrivate pure sotto le loro finestre ma avevano anche scoperto in quel momento che cosa gli alleati americani avrebbero fatto, anzi, non fatto. Se fosse giunta l’ora, Obama non avrebbe levato un dito in loro difesa. (...) 


L’ascesa dei generali era un esito molto sperato a Riad. Sul Monde Diplomatique, Alain Gresh nota che il 30 giugno, prima del golpe, un editoriale del giornale saudita Okaz annunciava: “Per evitare un bagno di sangue e la guerra civile, i militari governeranno l’Egitto per un breve periodo di tempo, non più di un anno”. Gresh descrive anche l’esistenza di una garanzia offerta dai Said ai generali egiziani: aiuti subito in cambio della rimozione dei Fratelli musulmani dal potere e di un trattamento migliore per l’ex presidente Mubarak, ora in prigione. Considerate le notizie su una possibile scarcerazione dell’ex rais, i militari hanno soddisfatto entrambe le condizioni. Tra loro e Riad c’è un rapporto di fiducia: il generale al Sisi è stato per anni l’attaché militare dell’ambasciata egiziana in Arabia Saudita e il presidente nominato dai militari, Adly Mansour, era definito in epoca prerivoluzione “l’uomo di Mubarak in Arabia Saudita”.
L’artefice di questa controrivoluzione è indicato nel principe Bandar bin Sultan, storico ambasciatore in America tornato capo dei servizi sauditi nel luglio 2012. Sarebbe lui a coordinare anche l’intensa attività di lobbying nelle capitali europee, in questi giorni, per fare ingoiare il boccone della repressione militare in Egitto.


Siria, l'uso dei gas nervini potrebbe essere il capolinea del regime di Assad (da ilSole24Ore.it)

Non c'è dubbio che Damasco disponga di uno dei più grandi arsenali di armi chimiche del Medio Oriente Non solo. Avrebbe anche la tecnologia e gli esperti in grado di utilizzarle. Ma risulta difficile comprendere perché lo abbia fatto proprio ora, quando il conflitto sembra, temporaneamente, pendere in suo favore. Grazie al determinante appoggio delle milizie libanesi degli Hezbollah, il regime siriano è riuscito a stappare ai ribelli importanti obiettivi militari e città strategiche, come Qusair. Perché poi sferrare un attacco di queste proporzioni proprio nei giorni in cui, dopo mesi di rifiuti, è arrivata a Damasco una missione di esperti dell'Onu incaricata di verificare se sono state usate armi chimiche nel conflitto tra lealisti e ribelli. di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/BiSwJ 

Arabi vs arabi la democrazia è un miraggio (da laStampa.it)

(...) Si parte dalla contrapposizione religione/laicità, che spinge a divisioni politiche inconciliabili soprattutto perché – con un equivoco che non è solo semantico ma profondamente concettuale – nel mondo islamico «laico» è equivalente ad ateo. La maturazione di un modo più corretto di impostare la questione, con il rafforzamento (come faticosamente è diventato possibile nel mondo cristiano) della opzione di una religiosità laica, non è certo per domani, anche se non mancano gli intellettuali islamici che stanno cercando di spingere in questa direzione. Nel frattempo i laici vedono da un lato un islamismo violento, wahabita nell’ideologia e jihadista nella prassi, e dall’altro un islamismo moderato (come quello dei Fratelli Musulmani o del partito Akp in Turchia) che temono voglia perseguire, anche se con mezzi pacifici, la stessa finalità di un’islamizzazione della società imposta con la legge. Un timore che arriva a portare, come oggi in Egitto e ieri in Turchia, sedicenti democratici a schierarsi a favore di dittature militari anche profondamente repressive, ma laiche.  

La seconda contrapposizione si riferisce alla spaccatura fra musulmani ed appartenenti ad altre religioni. Il Medio Oriente è stato sempre caratterizzato da una pluralità di comunità religiose che, anche in regimi non pluralisti, avevano finora mantenuto spazi di «agibilità» e un’integrazione di fondo con le maggioranze musulmane. Pensiamo soprattutto alle antiche comunità cristiane d’Oriente. I dittatori laici (Saddam, Mubarak, Assad e lo stesso Gheddafi) avevano, agli occhi di queste comunità, il non secondario merito di non discriminare nei loro confronti. Certo, opprimevano tutti i cittadini, ma non in quanto appartenenti o no all’Islam. In tutti i Paesi in cui i dittatori laici sono stati sostituiti da governi di maggioranza islamica (Iraq, Egitto, Libia), i cristiani hanno cominciato a sentirsi minacciati dagli islamisti più radicali, ma spesso con la connivenza o la passività degli islamisti moderati, mentre in Siria la presenza nello schieramento anti-Assad di gruppi wahabiti ha comprensibilmente aumentato l’avversione delle minoranze non islamiche nei confronti di un’ipotesi di caduta del regime e il sospetto nei confronti di una «democrazia islamica». 

Ma la spaccatura più significativa, più generalizzata, più drammatica è quella fra sunniti e sciiti. Si tratta di uno scisma all’interno dell’Islam che ha radici antiche, visto che nacque per una disputa sulle modalità di successione al Profeta, e che nei secoli ha visto un alternarsi di periodi di quiescenza con periodi di feroce scontro non molto diversi da quelli che per secoli hanno caratterizzato il difficile rapporto fra cattolici e protestanti.  (...)

martedì 20 agosto 2013

Il Pcc: "Le idee importate dall'occidente mettono a rischio la società cinese" (da Repubblica.it)


Ci sono alcune idee tipiche delle società occidentali che minacciano la società cinese. O almeno è questo che pensa il Partito comunista cinese e il suo leader, Xi Jinping, che ha diffuso ai membri del Pcc un memo - chiamato Documento Numero 9 - in cui elenca i sette pericoli. Ma quali sono? Per primo è "la democrazia costituzionale", poi ci sono "l'universalità dei diritti umani", "l'indipendenza dei media", "l'idea di partecipazione",  "il liberismo sfrenato" e "le critiche nichiliste al passato del Pcc". 


Nel Documento si legge che "le forze ostili dell'Occidente verso la Cina e i dissidenti nel Paese si stanno costantemente infiltrando nella sfera ideologica". Il memo non è stato diffuso al di fuori del partito ma è stato reso noto dal New York Times. Un documento di questo livello deve avere l'approvazione della segreteria del partito, e quindi del presidente Xi in persona.



E il memo avrebbe già operato una svolta nella politica interna del regime cinese: i media controllati dal Pcc hanno iniziato ad attaccare duramente il costituzionalismo e la società civile, rivela ancora il Nyt; si è registrata una stretta del controllo sulle critiche sul web; due attivisti per i diritti dei cittadini sono stati arrestati nelle scorse settimane.(...)


Egitto: la terza fase delle rivoluzioni arabe (Gilles Kepel su Huffingtonpost.it)

(...) Morsi non ha voluto tenere conto del carattere composito del suo elettorato, e a coloro che l'avevano eletto perché odiavano i militari ha dato l'impressione che la confraternita di cui era solo uno strumento - la "ruota di scorta", come veniva soprannominato all'epoca della campagna elettorale - volesse infiltrarsi nello Stato e impossessarsene per sempre.
Così facendo, Morsi e i Fratelli Musulmani hanno attirato e cristallizzato contro di sé il malcontento di una metà dell'Egitto di cui attualmente non è dato di sapere se sia maggioritaria o minoritaria, ma che in ogni caso, scendendo in piazza il 30 giugno, ha dimostrato che il paese è ormai diviso in due.
Ora, di fronte alla destituzione di Morsi, i Fratelli Musulmani, che esistono dal 1928 e hanno trascorso gran parte della loro esistenza in clandestinità, e hanno costruito una contro-società radicata negli strati più profondi del tessuto sociale egiziano - talvolta con il favore dei regimi, come quello di Sadat, che si appoggiava a loro per combattere la sinistra - hanno una notevole capacità di contrasto.
Oggi, le due metà antagoniste dell'Egitto sono capaci di ostacolarsi a vicenda, e c'è da temere che nessuna delle due sia in grado di imporre la propria volontà in un contesto polarizzato in cui l'esercito non ha esitato a fare ricorso alle armi in una settimana in cui probabilmente sono rimaste uccise un migliaio di persone.
Tutto lascia pensare che i gruppi armati che sono andati formandosi tra le fronde marginali dei Fratelli Musulmani ricompariranno, e questo processo reca in sé i fermenti di una guerra civile. (...)
Jean Marcou ha ragione quando sottolinea che l'Egitto non è la Siria. Tuttavia, resto molto colpito quando apprendo quel che oggi si dice, si scrive, in arabo su un fronte e sull'altro in Egitto.
C'è una violenza verbale che dall'inizio delle rivolte arabe non avevo mai sentito, se non in Siria. Ma a differenza della Siria, in cui è il combustibile religioso ed etnico ad alimentare la guerra civile, lo scontro in Egitto è innanzi tutto una sorta di Kulturkampf [guerra culturale], che vede schierati gli islamisti da un lato e quelli che gli si oppongono dall'altro. E in questo senso ciò che accade in Egitto è il punto parossistico di un conflitto esistenziale sul futuro delle società arabe e sul posto che vi occuperà la religione, un conflitto che si ritrova oggi in Libia, in Tunisia e in Turchia.


D'altronde è proprio questo che spiega la virulenza del primo ministro turco Erdogan, proveniente lui stesso da una filiazione dei Fratelli Musulmani, il quale, oltre a offrire sostegno ai suoi fratelli egiziani, reagisce con la forza alle difficoltà che incontra nel proprio paese, da quando i democratici e i laici turchi che avevano votato per l'Akp perché mossi dall'odio per un esercito kemalista che consideravano fascistoide oggi sono ossessionati dall'idea che Erdogan diventi un dittatore islamista, come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di giugno in piazza Taksim.(...) 

America autonoma (da ilFoglio.it)

Correva il marzo del 2012 quando Edward Morse, professore a Princeton ma con una lunga esperienza al dipartimento di stato ai tempi di Carter e di Reagan, diede alle stampe un corposo studio dal titolo “Energia 2020: l’America sarà la nuova Arabia Saudita?”. Nel giro di sei mesi il professor Morse fu costretto a metter nel cassetto il suo lavoro per produrne uno nuovo di zecca, uscito a febbraio. Il titolo? “Energia 2020: the Independence day”. Non è escluso che l’accademico di Princeton, alla luce degli ultimi dati, debba esibirsi in una terza fatica. Gli Stati Uniti, infatti, stanno diventando la nuova potenza dell’export di greggio e gas.
Tra il giugno 2012 e la metà del 2013 il saldo positivo della bilancia energetica americana è stato di 110,2 miliardi di dollari, circa il doppio del saldo precedente (51,5 miliardi). Una vera e propria rivoluzione, insomma, che gli Stati Uniti devono a pochi, ostinati animal spirits piuttosto che all’iniziativa dei grandi gruppi industriali o tantomeno della Casa Bianca. Molto si deve a Greg Mitchell, un anziano petroliere da poco scomparso che, a 79 anni suonati, decise di investire tutto quel che possedeva per perforare con le tecniche del fracking un pozzo in North Dakota. “E’ grazie a lui se oggi l’America è di nuovo indipendente”, si legge nella lettera che Daniel Yergin, la massima autorità in materia di greggio, ha scritto al presidente Barack Obama perché premiasse Mitchell con la Medaglia della Libertà, la massima onorificenza presidenziale. Ma la Casa Bianca, che ora non ha presa né polso sui paesi mediorientali dai quali dipendeva per il petrolio, non ha risposto in tempo: Mitchell, nel frattempo è scomparso e il presidente non ha dovuto affrontare le critiche dei Verdi, una fetta rilevante del suo elettorato; a conferma che questa rivoluzione avviene senza alcuna pianificazione. Anzi la politica, quando interviene, non lo fa per incentivare o programmare, ma per ostacolare o rallentare. L’Alaska è ancora in ampi tratti off limits per l’esplorazione, come buona parte della costa atlantica e pacifica. (...) 
Ma Obama, pur attento a non infrangere le regole del politically correct, non disdegna affatto i vantaggi che derivano dalla rivoluzione energetica: una posizione più forte sullo scacchiere internazionale, perché gli Stati Uniti dipendono sempre meno (o non dipendono affatto) dal petrolio mediorientale; circostanza che spiega anche se non giustifica l’impegno più distratto nell’area più calda del pianeta. Senza trascurare altri aspetti positivi (le difficoltà dell’economia russa, di riflesso al calo delle quotazioni del gas) o la minor baldanza dei sauditi che, per bocca del principe al Waleed, cominciano a parlare di possibile decadenza dell’Opec.

lunedì 19 agosto 2013

Egitto: La sfida tra le antenne televisive - Quando le notizie diventano armi (da Corriere.it)

Così i telespettatori hanno potuto vedere i colpi di fucile che partivano dal minareto verso i militari e verso la gente rimasta intorno ai blindati. Evidentemente nella torre si era posizionato un gruppetto ostile all'esercito. I commentatori di Al Jazeera hanno lasciato la parola all'Imam della moschea, Salah Sultan, che si è prodotto in una ridicola spiegazione: dall'interno del tempio non si può accedere al minareto (e passi) e dunque non si capisce da dove siano entrati i cecchini. Come dire: non erano dei nostri. E allora chi erano? Da dove erano entrati? Purtroppo i giornalisti di Al Jazeera hanno omesso queste semplici e indispensabili domande, avallando la versione dell'Imam e l'assunto di base: tutti i Fratelli musulmani sono combattenti per la libertà e la democrazia. Ma disarmati. Una mezza verità, come hanno testimoniato tutti i reporter internazionali presenti nello slargo di Ramses.

Avversari Senza Dialogo (da AffarInternazionali)


Inclusione prima, democrazia poi
In un contesto di democrazia non consolidata, è sul concetto di inclusione che si devono concentrare quanti cercano un’uscita dalla crisi.

Anche se tutte le mediazioni tentate non hanno portato risultati, è essenziale che le parti, a partire dal nuovo governo, si sforzino sinceramente per negoziare una rapida cessazione della violenza che metta da parte i progetti propri di ciascuna fazione.

Anche se le vicende degli ultimi giorni non sembrano andare in questa direzione, l’esercito dovrebbe facilitare una transizione inclusiva che coinvolga tutte le parti in causa, sperando che le dinamiche dell’Egitto portino a un evoluzione simile a quella della Turchia di fine anni ‘90.

Per conservare il sostegno della maggioranza della popolazione, i militari devono evitare atti di violenza come quelli degli ultimi giorni che iniziano a portare defezioni all’interno del fronte dei suoi sostenitori.

A Mohammed El-Baradei, da luglio vice premier del nuovo governo, è stato affidato il compito di spiegare al mondo intero che quello in Egitto non è stato un golpe, ma semplici dimissioni di un premier.

Ancora una volta, dopo aver eliminato il nemico comune, il fronte che ha portato al rovesciamento del governo Mursi rischia quindi di spaccarsi. In questo fronte confluiscono liberali, giovani, copti ed ex mubarakiani con idee diverse circa il ruolo che spetta ai militari.

Difficilmente il sostegno di cui gode ora l’esercito sarà illimitato. A mostrarlo è anche la ricomposizione del vecchio fronte di opposizione al regime militare, nel quale inizia a confluire l’anima giovanile del Tamarrod, la campagna che ha organizzato la prima manifestazione per la deposizione di Mursi. - 


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Dieci anni fa la strage alla sede Onu di Bagdad. E torna il«testamento» di Jean-Sélim Kanaan (da Corriere.it)

«Una potente esplosione, da un camion bomba condotto da un terrorista kamikaze, si è verificata martedì presso il quartier generale dell'Onu a Bagdad, nei locali del Canal Hotel. Secondo fonti Onu vi sono almeno 20 morti e un centinaio di feriti. Tra le vittime dell'attentato c'è anche Sergio Vieira de Mello, rappresentante speciale per l'Iraq del segretario generale dell'Onu Kofi Annan. Tra i morti vi sono anche operatori stranieri». Così, il pomeriggio del 19 agosto 2003, Corriere.it dava - in base alle prime, confuse ricostruzioni - la notizia della più grande tragedia della storia delle Nazioni Unite. I morti furono 23, e tra le vittime «straniere» c'era un ragazzo di 33 anni nato e cresciuto a Roma. Il nome esotico, Jean-Sélim Kanaan, riassumeva una ricchezza di identità dai tratti romanzeschi come la vita breve che ne è scaturita: padre egiziano cristiano copto, funzionario Onu; madre francese di fede protestante; infanzia tra il francese colto del liceo Chateaubriand e il romanesco puro delle strade della Capitale. Un pezzo di adolescenza a Pechino al seguito del padre, che in Cina muore, come si dice in questi casi, prematuramente, freddo avverbio che non rende il vuoto che lascia in un ragazzo la perdita della figura che gli segna la vita.
UNA STORIA SIMBOLO - Perché, a 10 anni dalla carneficina irachena, è giusto ricordare la storia di Jean-Sélim? Perché poche storie come la sua simboleggiano le guerre dell'ultimo ventennio e le contraddizioni dell'«ingerenza umanitaria», formula vaga con cui il mondo civile modula di volta in volta la sua capacità di vincere l'indifferenza. Ecco, «La mia guerra all'indifferenza» era il titolo che Jean-Sélim Kanaan aveva scelto un anno prima di morire per il libro in cui aveva raccontato la sua esperienza di giovanissimo volontario nelle ong prima e di brillante funzionario dopo. Un libro magnifico nella sua autenticità che ora il Saggiatore ripropone con una doppia prefazione: quella di Adriano Sofri, che dieci anni fa ebbe il merito di far sapere all'Italia chi fosse Jean-Sélim, e quella di Laura Dolci-Kanaan, la moglie italiana incontrata in Bosnia. Pagine di dolore asciutto, scritte per il compagno e il figlio nato poche settimane prima del camion bomba, che insieme a quelle del protagonista andrebbero lette nelle scuole - e per fortuna capita già spesso.

Gli Attacchi Alle Chiese In Egitto (ilPost)

Sabato 17 agosto, durante una conferenza stampa, il portavoce della presidenza egiziana ha accusato i media occidentali di occuparsi troppo delle azioni del governo nei confronti dei Fratelli Musulmani, ma di aver completamente dimenticato di raccontare gli attacchi che in questi giorni hanno subito le chiese copte in Egitto. Secondo il portavoce, almeno 12 chiese sono state attaccate e incendiate negli ultimi giorni.

L’agenzia di stampa Associated Press ha pubblicato ieri sera un lungo articolo in cui racconta queste violenze, firmato dall’esperto giornalista egiziano e direttore dell’ufficio del Cairo di APHamza Hendawi. Quasi tutte le violenze, scrive Hendawi, hanno avuto luogo fuori dal Cairo e spesso, oltre alle chiese, sono state attaccate anche abitazioni private. Almeno 40 tra chiese e altri edifici religiosi sono stati saccheggiati negli ultimi giorni e altri 23 sono stati incendiati e pesantemente danneggiati. Funzionari anonimi hanno rivelato ad AP che almeno due copti sono stati uccisi negli ultimi giorni, uno ad Alessandria ed un altro nella provincia meridionale di Sohag.
Le violenze si sono concentrate sulla comunità copta, legata ad una delle più antiche chiese cristiane del mondo, che in Egitto rappresenta una minoranza religiosa di quasi 10 milioni di persone, più o meno il 10 per cento della popolazione egiziana (che è in totale di circa 85 milioni di persone). Venerdì la chiesa copta ha diffuso un comunicato, confermando il suo appoggio al governo militare. Sono stati attaccati anche alcuni edifici cattolici.

Un Ripasso Sull'Egitto, Per Punti (ilPost)

Nell’ultimo mese e mezzo in Egitto sono successe molte cose: c’è stato un colpo di stato – anche se non tutti sono d’accordo nell’usare questa definizione – che ha deposto il presidente Mohamed Morsi, eletto nel giugno 2012; c’è stato il ritorno al potere dei militari, che erano stati progressivamente estromessi dai Fratelli Musulmani, il movimento politico-religioso che sostiene Morsi; negli ultimi mesi ci sono stati massacri, soprattutto al Cairo, gli ultimi dei quali sono stati compiuti mercoledì 14 e venerdì 16 e in cui è morto un numero imprecisato di persone (le cifre ufficiali sono state riviste più volte al rialzo).
Da un mese e mezzo fuori dall’Egitto si cerca di capire cosa stia succedendo nel paese, chi sta con chi, che ruolo hanno i militari, chi sono e da dove vengono i Fratelli Musulmani. Se si dovesse raccontare il perché delle violenze in Egitto oggi, ci sarebbe da andare indietro almeno due anni e mezzo, alle prime proteste contro l’allora presidente Hosni Mubarak, chiamate da tutto il mondo insieme ad altre nei paesi vicini “primavera araba”. E di tutto quello che è successo, una cosa non è mai cambiata: lo scontro – politico e non – tra Fratelli Musulmani ed esercito. In sintesi, ecco le tappe più importanti degli eventi in Egitto da allora.

giovedì 8 agosto 2013

Dossier - Sicurezza, Privacy, Tecnologia: il Futuro Non Attende

Nei mesi scorsi si è discusso molto di Privacy e Sicurezza: le maiuscole sono da un certo punto di vista scorrette, ma indicano che qui si parla di valori (anzi, Valori) che appaiono in contrasto fra loro. Se ci lasciamo prendere dalle "istantanee" dell'oggi (Prism, l'"eroe" - mah? - che denuncia lo "spionaggio" del governo, Obama che cerca di difendersi forse non agevolmente), è inevitabile che sentiamo prevalere la maiuscole, ma forse poco la realtà.

Vi propongo di seguito qualche articolo un po' più specialistico (e soprattutto non scritto nei giorni della discussione più accesa), per provare a osservare il problema più generale del connubio fra Tecnologia e Sicurezza... Anzi, diciamo meglio e scriviamo meglio: fra le tecnologie e le sicurezze che chiediamo, e le ricadute di questo legame nei nostri vissuti, nelle nostre sfere intime. Non si parla solo di web, tanto per intenderci.

Non voglio tifare per una posizione particolare, ma invitare ad approfondire: il futuro sta arrivando a noi, anche in forme non semplici da capire e da prevedere, in tempi molto veloci; purtroppo forse il concetto di "privacy" a cui siamo abituati non funziona più, o comunque è di difficilissima applicazione. L'indagine dei dati web - per dirne una - è un'arma potentissima di prevenzione a cui probabilmente è impossibile rinunciare (come è impossibile rinunciare alla bomba atomica, in campo più strettamente militare,in un certo senso).

Dobbiamo probabilmente ridefinire anche la nostra percezione e ilnostro concetto di "dato personale", sapendo che in molti passaggi della nostra vita, questi dati sono di fatto "tracciati" (il che non significa necessariamente essere spiati in senso classico)

Un'ultima cosa; il fattore umano non scompare. Sia nel bene, che nel male. Sia fra chi ci combatte, sia fra chi ci difende. le macchine potranno moltissimo, ma rimaniamo comunque liberi, al fondo. Il racconto di Guido Olimpio che vi propongo - come anche gli articoli sull'allarme terrorismo di questi giorni, in  cui viene sottolineata la possibile presenza di una "fonte" che non è dipesa da intercettazioni - un po' lo dimostrano. 

Robert Baer nel bel libro "La disfatta della CIA" denunciava il fatto che i Servizi si stessero "accontentando" della tecnologia, abbandondando il contatto con le persone, la ricerca dell'informazione di prima mano, di un tradimento e una debolezza da sfruttare, essenziali per capire a fondo come si muovono i nostri nemici. Ebbene, nessuna tecnologia e nessun controllo potranno sostituire una politica dell'intelligence che si gioca sul campo.

Spero che la proposta di letture - che traggo principalmente dal periodico GNOSIS, rivista italiana di Intelligence, organo dell'AISI - possono essere utili per una riflessione più ampia.

Francesco Maria


***
In una breve intervista con Virginia Piccolillo pubblicata oggi sul Corriere della Sera, l’ex parlamentare del PdL Alfredo Mantovano sostiene che il PRISM non fosse un programma segreto e di averlo visto in funzione alcuni anni fa, durante una visita a Washington nel giugno del 2007.
http://www.ilpost.it/2013/06/14/mantovano-il-prism-non-era-segreto-lho-visto-anchio/
Pertanto il dibattito non dovrebbe focalizzarsi sulla scelta “sicurezza o privacy” ma piuttosto su un concetto nuovo, esprimibile come “controllo e sicurezza nel rispetto della privacy”. Questa nuova rappresentazione mentale del binomio sicurezza-privacy, impone la diffusione di un nuova chiave di lettura del concetto stesso di privatezza delle informazioni personali. La privacy non deve essere più intesa come “anonimato assoluto”, ma come “sicurezza personale garantita da processi di identificazione e controllo”. Le metodologie di riconoscimento dell’individuo (effettuato in svariati modi, nei diversi secoli) devono essere rivisitate in funzione della nuova era che stiamo vivendo: l’era delle tecnologie avanzate. Sistemi di biometria, telecamere di controllo (che da tempo forniscono un contributo rilevante alle Forze dell’ordine per l’identificazione rapida dei malviventi), body scanner, passaporto elettronico, sono solo alcune delle implementazioni tecnologiche che saremo costretti ad implementare per innalzare la nostra sensazione di sicurezza personale. Ma tutto ciò, come ho già spiegato, non deve indurci a considerare queste innovazioni come un limite alla nostra democrazia o una ennesima violazione alla nostra privacy. Dobbiamo considerarlo il giusto “obolo” da versare per continuare a vivere un’esistenza normale, in una società in continua evoluzione, in cui la libertà personale e la garanzia di eguali diritti e doveri, sia assicurata a tutti coloro che perseguono i loro obiettivi nel pieno rispetto delle leggi morali e civili del paese in cui vivono. Un ultimo aspetto di particolare rilevanza, legato al problema della tutela della privacy, risiede nella crescita esponenziale del legame che unisce sempre di più l’evoluzione della scienza e l’esigenza di acquisire informazioni dal singolo individuo. Cito un esempio recentissimo. Nelle scorse settimane è stato annunciato da un gruppo di ricercatori della Fondazione FiorGen di Sesto Fiorentino, in collaborazione con i ricercatori tedeschi della Bruker, un sistema per tracciare la carta di identità metabolomica di un individuo attraverso un semplice test delle urine. Mediante la prova d’esame del liquido renale è possibile identificare esattamente tutti i processi del metabolismo di un individuo. Questa scoperta consentirà, nel prossimo futuro, di personalizzare diagnosi e terapie farmacologiche mirate per la risoluzione di patologie personali e per capire, ad esempio, se l’alterazione di un determinato metabolita è collegata all’insorgenza di malattie. Tuttavia l’aspetto più interessante della scoperta dei team di studiosi, risiede nella dimostrazione che esiste un’identità metabolica personale e che attraverso un esame di campioni di urina (esaminati con la risonanza magnetica nucleare) è possibile distinguere un individuo da un altro. Quindi ciascuno di noi, possiede una impronta digitale metabolomica unica e irripetibile. Inoltre, mentre il genoma (estrapolabile dall’analisi del DNA) offre l’immagine delle potenzialità di un individuo, il metaboloma permette di effettuare una fotografia istantanea della situazione “reale” di una persona. Essa tiene conto di fattori come l’età, l’alimentazione, le patologie e gli stili di vita, che non vengono evidenziati dall’analisi del genoma. In sostanza il genoma ci indica ciò che un individuo potrebbe essere, il metaboloma ci indica come realmente è. La scoperta degli scienziati della FiorGen, che ha suscitato grande clamore nel mondo scientifico, è stata pubblicata sulla rivista dell’Accademia Americana delle Scienze “Pnas”. In funzione di ciò, tra pochissimi anni, potremo sicuramente disporre di una carta di identità biologica in cui saranno riportati molte informazioni “personali” che ci consentiranno di salvaguardare la nostra salute grazie all’immediata identificazione del quadro clinico personale, o all’assunzione di farmaci “intelligenti” calibrati sul metabolismo individuale, in modo da poter massimizzare l’efficacia, minimizzando, nel contempo, gli eventuali effetti collaterali. Questo dispositivo ci consentirà anche di poter distinguere un individuo dall’altro per esigenze riconducibili ad aspetti legati proprio alla sicurezza personale. Scoprire immediatamente una particolare pericolosa patologia potrebbe salvarci la vita, come anche l’identificazione del tipo di alimentazione che pratichiamo potrebbe scagionarci da un errore giudiziario, ma avrebbe una grandissima valenza anche nello studio delle abitudini e dei comportamenti delle persone in contesti geografici esposti a rischi ambientali. O, molto semplicemente, ci potrebbe consentire di accedere rapidamente in aereo senza arrivare in aeroporto con almeno due ore di anticipo… . Siamo entrati nell’era della Cyber-Society e non c’è modo di uscirne o di tornare indietro. 


Il fattore umano, spesso negletto o offuscato dalle meraviglie della tecnologia, può essere davvero decisivo. Una conferma è emersa tra aprile e maggio di quest’anno, quando è stato sventato un nuovo attentato ad un aereo di linea. Lo doveva compiere un terrorista suicida, fornito di un tipo più sofisticato di ‘mutande-bomba’. Un piano concepito dalla branca yemenita di Al Qaeda. Solo che il probabile kamikaze era un infiltrato dei Servizi sauditi che ha assecondato l’operazione fino ad un passo dall’ora X, per poi scappare negli Emirati. Una volta a Dubai, ha consegnato ai suoi ‘gestori’ l’ordigno e ha fornito indicazioni cruciali sul gruppo estremista. Svelando probabilmente più del dovuto, diverse fonti hanno ricostruito il percorso della talpa. Cittadino inglese d’origini mediorientali, è stato agganciato dagli 007 sauditi proprio in Gran Bretagna. Quindi, è stato ‘coltivato’ e trasformato in militante perfetto. Il candidato ideale per essere reclutato da una formazione qaedista, doveva:

1) apparire determinato,
2) conoscere bene l’Occidente,
3) avere un passaporto britannico che gli permettesse di viaggiare in Europa e in USA senza necessità di visti.

Il passaggio successivo è stato più ‘fumoso’. Forse un secondo informatore ha avvisato Riad che i qaedisti cercavano qualcuno che potesse condurre una nuova operazione. E, allora, la ‘talpa’ si è offerta. Oppure, è stato scelto per i motivi che abbiamo indicato. Il risultato non cambia: il progetto è stato neutralizzato.



Appare, quindi, evidente che i computer, pur essendo risolutivi per molteplici attività, in questo caso dimostrino tutta la loro incapacità nello sfruttamento intelligente delle informazioni in loro possesso. Pertanto, per implementare un sistema di ingegnerizzazione delle informazioni, si rende necessaria ancora la presenza umana, soprattutto per la costruzione di quel workflow processes, appositamente studiato per l’identificazione delle fasi utili fruibili per la realizzazione di un sistema di consapevolezza cognitiva.(...)

Grazie all’avvento della rete Internet, sul finire degli anni ‘90, si comincia a ragionare in termini di sistemi esperti dedicati alla gestione delle informazioni.
La possibilità di creare degli enormi database di dati e notizie da elaborare, per consentire di produrre informazioni complete e strutturate (conoscenza), ha indotto le comunità scientifiche internazionali a concentrare gli studi e le ricerche sullo sviluppo di sistemi informativi, basati soprattutto sul Web. Parallelamente, si assiste allo sviluppo di un nuovo filone scientifico, in cui la ricerca e l’implementazione di sistemi di knowledge engineering, in grado di consentire l’accentramento dei dati in Rete e l’interoperabilità dei programmi e delle tecnologie web, conduce allo sviluppo di un modello architetturale di ricerca intelligente delle informazioni: nasce il web semantico(...)

Ma ciò che preoccupa maggiormente i CIO (Chief Information Officer) è proprio l’inarrestabile crescita dei dati, che renderà ancora più difficoltosa la “gestione intelligente” delle informazioni. In funzione di ciò le aziende saranno costrette ad arruolare i data scientist, figure strategiche che avranno il compito di trasformare questo mare magnum di informazioni in un erogatore di conoscenza.(...)

Nel 2011 il giornalista Kimberly Dozier, dell’Associated Press, durante una visita condotta presso l’Open Source Center della CIA20, ha l’opportunità di verificare alcune delle attività condotte dai primi data scientist reclutati dall’Agenzia.
L’attività primaria consiste nella raccolta continua di dati e informazioni prodotte nel Cyberspazio nella loro “lingua madre” (cioè in tutte le lingue parlate nel mondo), spaziando dall’arabo al cinese mandarino. In seguito, si procede con l’analisi dei dati raccolti: si indagano post sospetti, tweet di utenti arrabbiati, email contenenti frasi strane in documenti chiari, minacce e insulti nei social network, blog anomali o superficiali gestiti da utenti improbabili.

Poi, si incrociano le informazioni “attenzionate”, con giornali locali, conversazioni telefoniche, foto, immagini geostazionarie, posta elettronica, sms, mms, ecc.. Successivamente, si provvede alla costruzione di “scenari ricercati”, studi e rapporti utili per i più alti livelli della Casa Bianca, come nel caso del documento in cui si illustrava lo stato d’animo del popolo della regione pakistana in cui è avvenuto il blitz, all’indomani della cattura e dell’uccisione di Osama Bin Laden. Nell’articolo di Dozier è significativa l’affermazione di un funzionario della CIA, Doug Naquin, che dichiara come la sua squadra di analisti avesse previsto la rivolta verificatasi lo scorso anno in Egitto senza, tuttavia, riuscire a prevedere il periodo esatto in cui si sarebbe sviluppata (...)

Ma l’aspetto che maggiormente assume rilevanza nella struttura ubicata a Shanghai, è la varietà e la particolarità dei campi di ricerca. Ad esempio, si conducono studi sulle tecniche di data mining per il sequenziamento del gene, sull’analisi delle informazioni sui sistemi di trasporto intelligence, sulle motivazioni che conducono alla creazione di virus informatici e, perfino, sugli aspetti psicologici che influiscono sui mercati azionari. Insomma, stiamo parlando di metodologie di analisi ed elaborazione intelligente di tutte le informazioni disponibili. (...)



Ma questa rivoluzione ha un suo costo. Sul Web corre di tutto: reti criminali transnazionali, hackers, terroristi. Ma anche governi o imprese interessate a sottrarre al nemico o al concorrente il vantaggio competitivo di cui godono.
La ricerca del primato si sta rapidamente spostando sulla Rete e, presto o tardi, la collisione tra interessi potrebbe condurre ad una vera e propria guerra combattuta via internet.(...)

Lo spazio cibernetico è un nuovo, fondamentale, campo di battaglia e di competizione economica e geopolitica.
E, come accade in tutte le competizioni, ci saranno attori destinati a dominare ed altri destinati a soccombere. 
Sotto questo profilo, gli Stati Uniti hanno molti più concorrenti e potenziali nemici di quanto non accada per altri tradizionali domìni, da quello economico a quello militare. Il Presidente Obama ha stimato in 1.000 miliardi di dollari la perdita netta nel 2009 per le aziende tecnologiche americane a causa di attacchi informatici, tra danni causati ai sistemi e sottrazione di marchi o brevetti. Nel suo consueto rapporto annuale al Congresso, il Direttore nazionale dell’Intelligence americana ha indicato la cyberguerra al primo posto tra le minacce alla sicurezza nazionale: essa è in grado di erodere il vantaggio competitivo degli Stati Uniti annullando gli impatti delle innovazioni e incidendo, addirittura, sugli stili di vita dei cittadini e delle imprese, costretti probabilmente in un prossimo futuro a rinunciare ad una porzione della loro libertà sul Web per mettere al riparo il Paese da danni più gravi.
Paesi come la Russia, Israele, l’Iran o la Corea del Nord sono già in grado di dispiegare armate di cybercombattenti,(...)



Nel testo si parla anche di guerra psicologica (o psychological warfare) che, grazie all’utilizzo di Internet, ha visto il suo potere accrescere in maniera esponenziale soprattutto per quanto concerne la capacità di influenzare opinioni, emozioni, atteggiamenti e comportamenti a livello mondiale (un esempio illuminante in tal senso è Wikileaks).
In funzione di ciò, non sono pochi i segnali a conferma del fatto che si possa giungere ad una integrazione del pensiero dell’uomo all’interno del mondo digitale, consentendo di trasformare il cyberspazio in un sistema pensante virtuale. Anche l’intelligence, dovrà adeguarsi a questo inarrestabile e difficile cambiamento, e lo sviluppo dell’open source intelligence, ne è una conferma.
Nonostante la complessità degli argomenti trattati, l’autore è riuscito a realizzare un libro assolutamente divulgativo e comprensibile anche per un pubblico di non esperti di tecnologie e psicologia. Al termine della lettura la considerazione finale non può prescindere da una consapevolezza che si percepisce in tutte le pagine del testo: il potere delle tecnologie e l’integrazione delle stesse con l’essere umano costituiranno il punto nevralgico dell’evoluzione della nostra società e quindi dell’intero nostro pianeta. 
Come asserisce l’autore “In futuro, nel cyberspazio, la mente dell’individuo somiglierà sempre di più ad un componente di un sistema pensante virtuale, in cui da un punto di vista logico, non sarà più facile distinguere ciò che è umano e ciò che è artificiale. La cybersocietà sarà in grado di produrre cose, ad oggi, impensabili. Tuttavia, al di là di ciò che accadrà nei prossimi decenni, l’essere umano sarà certamente in grado di comprendere meglio il funzionamento della sua mente e di ciò che è realmente in grado di fare”.


Nondimeno lo stupore, misto ad una sensazione di incredulità, si impossessa di noi soprattutto quando apprendiamo che alcune di quelle storie fantastiche e ricche di fascino che fino a qualche decennio fa appartenevano alla fantasia, oggi assumono la connotazione dell’ennesima scoperta scientifica. E così non deve stupire più di tanto anche l’annuncio di qualche mese fa, sulla realizzazione di un software messo a punto da Intel (azienda statunitense, leader nella settore della realizzazione di microprocessori), in grado di effettuare, almeno in parte, la lettura del pensiero della mente umana. Il funzionamento del dispositivo è piuttosto semplice (si fa per dire!) e si basa sull’utilizzo di un sistema impiegato per effettuare le risonanze magnetiche. In sostanza, il congegno effettua una mappatura delle aree del cervello interessate alla generazione delle parole, in maniera similare a quanto fanno le applicazioni che traducono la voce in comandi e testi. È opportuno ricordare che l’attività cerebrale del cervello si basa su onde elettriche (onde cerebrali) che generano appunto l’attività elettrica cerebrale. Non a caso, mediante l’elettroencefalogramma (EEG) è possibile registrare l’attività elettrica dell’encefalo. Quindi, il dispositivo della Intel, è in grado di identificare le parole “pensate” dalla mente dell’uomo, di abbinare loro un significato elettrico cerebrale e di costruire, mediante una procedura di apprendimento, una sorta di mappa di collegamento tra le parole pensate e i relativi comandi da generare. La dimostrazione è stata effettuata su un soggetto a cui è stato chiesto di pensare ad una serie di parole comuni (indicate dal ricercatore). Uno specifico algoritmo matematico, associava ad ogni parola le aree del cervello che si attivavano quando esse venivano pensate. Successivamente, al soggetto veniva chiesto di pensare ad una delle parole precedentemente suggeritegli. Il sistema ha dimostrato, durante i vari test, un’accuratezza superiore al 90%. È inutile sottolineare che il successo ottenuto da questa sperimentazione, apre le porte ad un ventaglio di possibili applicazioni. Pensiamo solo alla possibilità di gestire dispositivi elettronici senza usare le mani (si pensi all’eliminazione di tastiere, mouse, monitor touchscreen, telecomandi, etc.), ma si consideri anche le possibilità di applicazioni nel settore delladomotica (scienza interdisciplinare che si occupa dello studio e della ricerca nelle tecnologie legate al miglioramento della qualità della vita nella casa). Forse, nel giro di qualche anno, saremo in grado di accendere il televisore e di sincronizzarlo su di un canale televisivo, semplicemente pensando al programma che ci interessa, oppure di aprire porte e serrature semplicemente con un semplice desiderio espresso dalla nostra mente. Ci fermiamo qui, ma potremmo continuare a citare esempi innumerevoli, guardando anche alle possibili applicazioni in persone affette da gravi handicap fisici.
Il dispositivo è stato presentato al Teach Heaven di New York suscitando grande stupore ed interesse. Al momento i limiti maggiori sono imposti dall’elevato costo dei particolari macchinari, soprattutto in funzione del costo e delle dimensioni del dispositivo di risonanza magnetica, ma secondo Dean Pomerleau, ricercatore dei laboratori Intel, il dispositivo ridurrà il suo ingombro alle dimensioni di un cappello, ed anche il costo subirà un sostanziale ridimensionamento grazie anche allo sviluppo delle nanotecnologie. Grazie ad esse, il dispositivo potrebbe assumere le stesse dimensioni di un auricolare e potrebbe essere utilizzato per impieghi riconducibili all’acquisizione di informazioni personali. Naturalmente ci riferiamo all’utilizzo per applicazioni di intelligence, ed il suo impiego potrebbe rivelarsi molto interessante per verificare la correttezza delle informazioni possedute dal singolo individuo. Proviamo solo ad immaginare quali potrebbero essere gli utilizzi di uno strumento del genere.
Sarebbe possibile dire addio a macchine della verità, farmaci allucinogeni e test psicologici specifici per verificare il grado di attendibilità di un soggetto, basterebbe semplicemente “leggere” nella sua mente per scoprire esattamente a cosa sta pensando e il livello di veridicità delle sue affermazioni.