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venerdì 21 giugno 2019

Iran: Trump chiama erede saudita

*Iran: Trump chiama erede saudita, vostro ruolo cruciale per stabilita'*  9010E1314  (POL) Iran: Trump chiama erede saudita, vostro ruolo cruciale per stabilita'
(Il Sole 24 Ore Radiocor Plus) - New York, 21 giu - Il 
presidente americano, Donald Trump, oggi ha parlato con il 
principe erede al trono saudita Mohammad bin Salman Al Saud. 
Lo ha annunciato la Casa Bianca, sostenendo che "i due leader 
hanno discusso del ruolo cruciale dell'Arabia Saudita nel 
garantire la stabilita' nel Medio Oriente e nel mercato 
petrolifero globale (in quanto leader di fatto dell'Opec, 
ndr). Hanno anche discusso della minaccia posta dal 
comportamento sempre piu' grave del regime iraniano". La nota 
partita dal civico 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington 
e' giunta all'indomani dell'abbattimento di un drone 
americano da parte dell'Iran vicino allo stretto di Hormuz, 
nel Golfo Persico. Oggi Trump ha detto di aver bloccato, 10 
minuti che avvenisse, il lancio di missili che avrebbero 
colpito tre target iraniani, sostenendo che sarebbero morte 
150 persone, bilancio "sproporzionata" rispetto 
all'abbattimento di un drone senza pilota. L'Arabia Saudita 
e' storico rivale dell'Iran negli equilibri geopolitici della 
regione.
    A24-Spa 
(RADIOCOR) 21-06-19 19:17:42 (0533) 5 NNNN

Tratto da profilo Fb di Germano Dottori
https://www.facebook.com/100009991966741/posts/911000472576343/

sabato 15 giugno 2019

Le strategie parallele intorno al Golfo dell'Oman

"(...)  “Primo, stanno succedendo certi eventi in maniera continua, succedono a poca distanza di tempo gli uni dagli altri, e sono tutte situazioni di conflitto asimmetrico. C’è questo elemento di ambiguità strategica, che è effettivamente tipico delle Guardie rivoluzionarie (le forze armate teocratiche iraniane note anche come IRGC, ndr) che va sotto il nome tecnico di Plausible deniability, che però non possiamo considerarlo appannaggio esclusivo delle IRGC”, spiega l’analista della Gulf State Analytics (che si occupa di fare consulenza strategica per grandi aziende che vogliono muoversi nel Golfo) e Phd Candidate all’Università di Exeter.

E poi? “La seconda cosa che possiamo dire con certezza è che chi sta compiendo questi atti va identificato tra coloro che a tutti i costi vogliono un’escalation della situazione. E di questo genere di posizioni ce ne sono da entrambe le parti del Golfo. Dobbiamo considerare che questo genere di operazioni potrebbe essere anche condotto in modo parallelo all’autorità centrale, perché parliamo di paesi, come l’Iran stesso, dove vivono diversi attori che hanno agende quasi indipendenti, gli hardliner per esempio sono in netto contrasto con i riformisti. Una struttura interna dicotomica che ritroviamo anche in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi”, che sono i due Paesi nemici della Repubblica islamica iraniana nel Golfo Persico.

“Sia ad Abu Dhabi che a Riad – continua Bianco – ci sono diversi elementi che vedrebbero crescere la propria influenza in caso di scontro, ma tanti altri che vorrebbero utilizzare il clima di pressione/tensione soltanto per costringere gli iraniani a sedersi a un tavolo negoziale da una posizione di debolezza. Cosa che Teheran non vuole assolutamente, come è chiaro”.

Un altro aspetto che l’analista italiana sottolinea riguarda una previsione fatta da diversi esperti di Iran: “In tanti prevedevano che si sarebbe rafforzata la parte dei falchi dopo il ritiro americano dal Jcpoa (l’accordo sul nucleare stretto nel 2015, ndr) e che sarebbe stato possibile che coloro che pensavano che la diplomazia non fosse la strada giusta per Teheran avrebbero spinto verso lo scontro”. E sembra quello che sta succedendo. Ma a Riad e ad Abu Dhabi qual è l’interpretazione della situazione? “Dall’altra parte del Golfo sia emiratini che sauditi pensano che in Iran il punto di vista predominante sia che l’escalation non conviene, perché provocare gli Stati Uniti, una grande potenza globale, non viene vista come un’opzione possibile per Teheran, e per questo credono che prima o poi gli iraniani si siederanno di nuovo, indeboliti, al tavolo dei negoziati”.(...)"

https://formiche.net/2019/06/golfo-iran-arabia-saudita-azioni-asimmetriche/

venerdì 14 giugno 2019

Attacco al largo dell'Oman: cosa succede nel Golfo? (ISPIOnLine)

"(...) Il ruolo del Giappone
Nelle ore in cui è avvenuto l’attacco era in corso la visita di Stato a Teheran del premier giapponese Shinzo Abe, la prima da parte di un primo ministro del Giappone dalla rivoluzione iraniana del 1979. Non si trattava però della prima volta di Abe a Teheran: suo padre Shintaro Abe compì una missione analoga nel 1983 nelle vesti di ministro degli Esteri, cercando di mediare tra Iran e Iraq nella guerra che per otto anni ha opposto i due paesi, e il giovane Shinzo, allora segretario del padre, viaggiò al suo seguito.

Il Giappone, del resto, è uno dei paesi che più importa(va) petrolio da Teheran, tanto da essere stato tra gli otto paesi che lo scorso anno avevano ricevuto le esenzioni per poter continuare ad acquistare greggio iraniano. Da questo maggio, però, per volontà dell’amministrazione Trump, anche Tokyo ha dovuto cessare le importazioni da Teheran e aumentare così i rifornimenti da altri paesi della regione, in particolar modo da Arabia Saudita e Emirati. Se Abe è intervenuto a mediare è proprio perché il Giappone ha un interesse fondamentale nella sicurezza e nella stabilità della regione mediorientale, e perché gode di buoni rapporti tanto con Washington (Abe è uno dei leader che più ha saputo dialogare con Trump) quanto con Teheran. Significativo poi che questo tentativo di mediazione sia portato avanti da una potenza occidentale, alleata degli USA, ma che non ha preso parte al negoziato sul nucleare iraniano che ha portato alla firma del JCPOA. L’Unione Europea, del resto, ha visto fallire tutti i tentativi fatti finora a questo scopo, e sembra concentrata oltre che sull’imminente passaggio di consegne presso il Servizio di azione esterna, sul tentativo di rendere operativo INSTEX, lo strumento per il commercio con Teheran, che però potrebbe non essere sufficiente a stabilizzare una situazione che nell’ultimo mese è precipitata. La missione di Abe di queste ore sembra dunque essere stata quella di mediare un accordo di “congelamento” della situazione. Trump dovrebbe quindi permettere all’Iran di riprendere in parte le proprie esportazioni di petrolio, e in cambio l’Iran non riprenderebbe le proprie attività nucleari, come ha invece minacciato di fare a partire da luglio. Solamente una volta contenuta l’emergenza si potrà cercare una mediazione più ampia su altri aspetti del contenzioso tra Washington e Teheran.

Quali scenari?
Se non è possibile stabilire con certezza le responsabilità dell’accaduto, altrettanto difficile è tratteggiare degli scenari certi. Molto dipenderà da come la crisi evolverà nelle prossime ore, ovvero se le parti in causa cercheranno di abbassare la tensione, oppure se al contrario si alzeranno i toni e si formalizzeranno accuse ufficiali. Analizzando il precedente dell’attacco dello scorso mese, a un repentino innalzamento della tensione hanno fatto seguito dichiarazioni  di apertura – sia da parte dell’Iran che da parte degli Stati Uniti – che hanno scongiurato il rischio di un’escalation, ma che non hanno risolto la situazione. Il livello di tensione attuale nella regione è infatti talmente elevato da rendere estremamente difficile la de-escalation, quantomeno perché qualsiasi strategia trovata dovrà permettere a entrambi i paesi di “salvare la faccia”: se è chiaro che nessuno dei due vuole un conflitto, e che entrambi hanno l’interesse a dialogare, è vero anche che per entrambi è difficile tornare sui propri passi. Trump dovrebbe ammettere che la sua strategia della “massima pressione” non solo non ha funzionato, ma ha prodotto conseguenze che hanno ulteriormente destabilizzato la regione, rivelandosi negative per gli stessi Stati Uniti. Dal canto suo, l’Iran dovrebbe giustificare che ha bisogno di riprendere il negoziato nonostante gli USA non abbiano tolto le sanzioni. La possibile via di uscita dall’impasse rimane però quella della diplomazia. Non è un caso che il Giappone abbia dichiarato che la situazione verrà discussa nel corso del G20 di Osaka, il 28 e 29 giugno prossimo, quando Paesi molto diversi tra loro – ma uniti dalla volontà di preservare la sicurezza e la stabilità di una delle aree più strategiche del globo – potranno discutere con gli USA e cercare una possibile mediazione. Qualunque sarà il risultato di questa mediazione, però, è difficile immaginare che Washington possa uscire dall’impasse, se non tornando sui propri passi sul tema delle sanzioni, in particolare quelle sul petrolio. Questo però equivarrebbe a ridefinire l’attuale strategia statunitense verso il Medio Oriente: una decisione difficile, ma sono sempre più numerosi i segnali che questa possa presto rivelarsi necessaria."

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/attacco-al-largo-delloman-cosa-succede-nel-golfo-23312

Nove risposte sull'incidente nel Golfo dell'Oman (il Post)

"(...) 5. Perché è pericoloso quello che è successo?
L’attacco di giovedì non è il primo di questo tipo nel Golfo dell’Oman. Il 12 maggio scorso c’era stato un attacco simile contro quattro petroliere al largo degli Emirati Arabi Uniti, anche questo secondo gli Stati Uniti compiuto dall’Iran, storico rivale regionale degli Emirati e dell’Arabia Saudita. Un mese prima il governo iraniano aveva detto che se gli Stati Uniti avessero bloccato tutte le esportazioni iraniane, l’Iran avrebbe interrotto il flusso di petrolio nello stretto di Hormuz: aveva minacciato insomma di fare quello proprio quello che è successo giovedì, ha detto il segretario di Stato americano Mike Pompeo.

Il rischio ora è che si alzi ulteriormente la tensione, che potrebbe avere diverse conseguenze: un aumento significativo del prezzo del petrolio a livello mondiale, per esempio, o l’inizio di un conflitto tra potenze nemiche evitato di un soffio per mesi.

6. Chi è contro chi?
Semplificando un po’, gli schieramenti sono due: da una parte ci sono gli Stati Uniti e la maggior parte delle monarchie del Golfo Persico ricche di petrolio, soprattutto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti; dall’altra c’è l’Iran appoggiato da alcuni alleati, tra cui i ribelli houthi dello Yemen e in parte il Qatar, che si trova in una posizione un po’ complicata. Lo scontro principale – e che va avanti da decenni, con momenti migliori e altri peggiori – è quello tra Iran e Arabia Saudita, che però non si è ancora combattuto direttamente e ha ramificazioni in molti altri paesi: per esempio in Yemen, dove i ribelli houthi appoggiati dagli iraniani combattono contro il governo dell’ex presidente yemenita appoggiato dai sauditi; o in Qatar, dove da due anni sauditi e alleati impongono un embargo quasi totale per punire il regime qatariota del suo semi appoggio a Teheran.

La rivalità Arabia Saudita-Iran è pericolosa anche perché si estende molto al di fuori dei rispettivi confini nazionali: se le tensioni diventano guerra in un posto, nessuno sa dire con certezza cosa accadrà negli altri posti.(...)"

https://www.ilpost.it/2019/06/14/faq-attacco-petroliere-golfo-oman-iran/

domenica 31 dicembre 2017

Prepararsi Con Prudenza. In Niger E In Libia. E In Iran.

Buona fine anno, e  buon nuovo inizio. 
Brevi riflessioni, da "non-esperto", su alcune questioni di politica estera che si stanno imponendo alla nostra attenzione di questi giorni.

Non è semplice valutare quanto sta succedendo in Iran; la linea di demarcazione fra conservatori e progressisti non è di facile lettura in una realtà come quella, e in uno scenario così in movimento, tanto che queste proteste sembrano essere nate sotto un segno politico ultraconservatore, per poi "sfuggire di mano".

Quel che forse si può azzardare in ogni caso è che se si dovesse estendere la protesta l'Iran potrebbe avere maggiori difficoltà a gestire il suo ruolo internazionale, teoricamente in questo periodo in via di affermazione. Non è una sorpresa (le tensioni sotto la superficie non sono una novità nella storia recente del paese), ma di questi tempi è il caso di sottolinearlo perché il nuovo protagonismo di Teheran sembra non avere il "respiro lungo" che sarebbe necessario. 

Se sono moti di "libertà" (ma la situazione non è mai chiarissima, e dobbiamo essere massimamente prudenti), la comunità internazionale dovrebbe far sentire la sua voce; ma sempre con uno sguardo al dopo, alle possibili conseguenze di un regime in difficoltà.

Comunque situazione molto interessante e stimolante: delicata e da approfondire, senza farsi incantare da "teologie/filosofie della storia improvvisate", ma senza timore di agire, per vie ufficiali o più nascoste, se e quando necessario.

La regola è sempre quella, in politica estera, almeno per chi come noi non è propriamente una superpotenza militare ed economica: cadere sempre in piedi, giocare su più tavoli, scegliere e lanciarsi se necessario, ma mai abbandonarsi. Difendere il proprio onore, se ha senso la parola (in politica ha un senso particolare, diciamo), ma senza perdere inutilmente soldi e vite umane.

Vale per l'Iran, ma vale ancora di più per altre partite che interessano l'Italia: Niger e Libia in primis, collegate forse più di quanto appare.

Cosa andiamo a fare in Niger? E sarà veramente una missione "no-combat" come sembra esser stata delineata? e quali i rapporti con la Francia in questo scenario? Otteniamo qualcosa in cambio del nostro sforzo in Niger, magari sul fronte libico, che sta presentando criticità sempre maggiori (prepariamoci a qualche spallata pesante...)?

E' un cambio di prospettiva "radicale", per l'Italia, che tenta di giocare una partita più "europea" (si vedano le riflessioni di Pasotti più sotto)? Ma è possibile cambiare realmente la politica estera di un paese?
Potrebbe essere, ma io mi augurerei anche qui un po' più di "cinismo" da parte nostra, se vogliamo anche come cittadini osservatori: dobbiamo essere capaci di non rimanere soli, se per caso la situazione libica in particolare dovesse peggiorare. Dobbiamo essere capaci di coniugare - ancora - europeismo non di maniera e atlantismo; sì, atlantismo. Con la nostra diplomazia originale, con la doppiezza inevitabile che ci connota, comunque. Al di là dei risultati elettorali, che non potranno cambiare la nostra posizione nel Mediterraneo, e le nostre necessità.

Se faremo l'Europa unita anche in politica estera, la dobbiamo fare con piena consapevolezza dei costi che ci saranno e che peseranno su tutti noi; e senza dimenticare che sarà sempre un'Europa delle nazioni, degli Stati: con tutte le contraddizioni inevitabili di questa strana architettura, che dovrebbe rendere più coerenti interessi spesso contrapposti. 

Prepariamoci con prudenza. 
Buona fine anno, e  buon nuovo inizio.

Francesco Maria Mariotti

(Chi scrive è dipendente del Consiglio regionale della Lombardia; naturalmente le opinioni di questo post sono espresse a titolo puramente personale)


***

"(...) Se da un lato l’operazione nel Sahel rappresenterà un test per le capacità della tanto sbandierata difesa europea, dall'altro vedrà inevitabilmente confrontarsi interessi ed egemonie.

I francesi  ”giocano in casa” non solo perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi ma perché dall'intervento contro i jihadisti in Malì nel 2012 la Francia ha mantenuto una consistente presenza militare nella regione combattendo non senza perdite i gruppi jihadisti.


L’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche, inclusa quella prioritaria per l’Italia nel deserto tra Niger e Libia, rendono quasi certo che l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà guidata dai francesi.

Grazie ai contingenti europei, Parigi potrà ridurre l’attuale esposizione nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli) sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense.

Gli Usa conducono già da tempo nel Sahel missioni in gran parte segrete impiegando aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger con basi a Ouagadougou, Niamey e Agadez. (...)

La Germania ha già donato un centinaio di veicoli alle forze del Niger (le cui risorse minerarie oggi sfruttate per lo più da francesi e cinesi, potrebbero far gola a Berlino) e potrebbe assegnare alla nuova alleanza il contingente attualmente presente in Malì sotto la bandiera dell’Onu o nuove truppe considerato che Berlino ha una propria base logistica all’aeroporto di Niamey (dove sono presenti anche una base americana e una francese. 

Quale ruolo per l’Italia

 Il ruolo dell’Italia (più volte chiesto dal Niger negli anni scorsi come Analisi Difesa raccontò nel reportage Roccaforte Niger)  dipenderà dalla determinazione di questo e del prossimo governo a inviare un contingente significativo in Niger e soprattutto ad autorizzarne l’impiego in combattimento oltre che per addestrare le forze nigerine. Attività quest’ultima che comincerà tra poche settimane come ha detto il premier Paolo Gentiloni che ha collegato la missione al ritiro di forze oggi in Iraq. (...) 

Una missione senza senso?

 In termini strategici vale poi la pena chiedersi se un simile dispiegamento abbia attualmente un senso, soprattutto se effettuato in condizioni di subalternità rispetto ai francesi che continuano ad essere (dal 2011) i più importanti competitor dell’Italia rispetto alla situazione in Libia.

La missione in Niger rischia infatti di rivelarsi utile a ridurre l’impegno e i costi di Parigi nell’operazione Barkhane senza però scalfirne la leadership di Parigi nel Sahel mentre circa il contrasto ai flussi migratori illegali non va dimenticato che i trafficanti potrebbero optare per rotte alternative, aggirando il dispositivo militare italiano grazie alle le piste desertiche che attraversano il confine algerino per poi sconfinare in Libia a sud di Ghat, area in cui da alcuni mesi è stata registrata la presenza di miliziani dello Stato Islamico.

In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli.

Si tratta dell’unica azione che scoraggerebbe le partenze da tutta l’Africa garantendo che nessun immigrato illegale potrà mai raggiungere i porti italiani.  In altre parole non ha alcun senso inviare truppe e mezzi per bloccare il confine tra Libia e Niger se poi le navi militari italiane ed europee continueranno a sbarcare in Italia i clandestini riusciti a salpare dalle coste libiche."


"(...) Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall'unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell'evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell'aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo. 

E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion… La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei? 

Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista."


"(...) Eppure sembra proprio questa la strada scelta dal governo Gentiloni: un cambio di linea sottaciuto come da stile del personaggio ma quasi rivoluzionario nella tradizione italiana post conflitto mondiale, un atto di realismo in un momento in cui è venuta a mancare la sponda del liberalismo internazionale americano anche solo nella sciagurata declinazione isolazionista di Barak Obama. Con una America che pensa a se stessa, che sceglie manicheisticamente amici e nemici in una votazione Onu su Gerusalemme Capitale forse voluta più da Washington (per contrastarla e per definirsi) che dagli arabi (costretti a sostenerla), gli spazi per la tradizionale diplomazia militare atlantica italiana si sono ridotti al minimo. Con il Quai d’Orsay invece abbiamo una marea di dossier aperti che riguardano in Libia la rottura tra Tripolitania amica (se ben pagata) e Cirenaica russofrancese (...)


"(...) Haftar s’è costruito un ruolo via via crescente, creando i presupposti per emendare alcuni aspetti del Lpa. Il maresciallo di campo s’è preso credibilità con le armi e col sostegno diplomatico russo (soprattutto), per questo molti governi occidentali – tra cui quello italiano, particolarmente coinvolto nella soluzione della crisi – lo hanno iniziato a trattare come un pezzo imprenscindibile per chiudere il puzzle. Il delegato Onu Gassam Salamé ha cercato negli ultimi mesi di modificare l’accordo del 2015, anche inserendo aspetti a lui favorevoli, ma non si è arrivati a un punto di incontro. D’altronde la deadline del 17 si stava avvicinando, e lo stesso Haftar ha dichiarato: “Le forze armate libiche (chiama così la milizia che comanda, ndr) non saranno mai sotto la guida di alcun corpo non eletto (riferendosi al Gna, ndr), ma risponderanno sempre agli ordini del popolo libico”, ed è un chiaro messaggio sul fallimento di Serraj,  un invito a lasciare. Ora Serraj e il suo zoppo Gna sono sotto la proroga temporanea del supporto onusiano ed europeo (qualche giorno fa anche gli Stati Uniti hanno ribadito la fiducia in Serraj, sebbene pure Washington abbia intavolato dialoghi anche con Haftar). Ma il punto attuale è lo stallo, perché nessuno dei due centri di potere può prevaricare l’altro. Salamé ha così proposto nuove elezioni (da tenersi già in primavera?). Serraj non ha più forza (se non dopo un mandato popolare) ma “il suo rivale basato a Tobruk è ancora più disperato. Entrambi i governi hanno poco da offrire per alleviare la miseria quotidiana delle persone che dovrebbero servire, e non è chiaro se Haftar accetterà le elezioni nella Libia orientale, che controlla”, scrive su Al Monitor l’accademico libico Mustafa Fetouri. Fetouri sostiene che l’idea di Salamé di usare le elezioni come elemento di stabilizzazione in questa fase in cui la crisi non vede sbocchi può essere buona, “ma tenere le elezioni in tali circostanze è una grande scommessa”: in Libia c’è una crisi di sicurezza (l’esplosione all’oleodotto è un ultimo passaggio, qualche giorno fa, per esempio, è stato rapito e ucciso da ignoti il sindaco di Misurata), il sud del paese è un territorio ancora senza legge dove le forze costiere non si allungano e comandano gruppi etnici locali (da poco riavvicinati sotto egida Onu), manca una costituzione, manca l’attività politica democratica."


"(...) L’Arabia Saudita non è in grado di condurre direttamente una guerra contro l’Iran e nel caso accadesse può farlo soltanto con il decisivo sostegno americano. E questo nonostante le spese di Riad per la difesa siano state nel 2016 di circa 64 miliardi di dollari e quelle iraniane di 12. Anche i dati dell’economia sono nettamente a favore dei sauditi che vantano un Pil di 650 miliardi di dollari mentre gli iraniani intorno ai 400 miliardi di dollari. Per non parlare della produzione petrolifera: quella saudita è più che doppia rispetto a quella iraniana. Il confronto tra le due economie può diventare ulteriormente penalizzante per l’Iran se gli americani decidessero di imporre nuove sanzioni a Teheran.

I dati sulla potenza militare pendono dal lato iraniano per numero di soldati e in alcuni settori, ma i sauditi possono contare su un arsenale tecnologicamente più avanzato. Eppure i sauditi, che pure godono dell’appoggio aereo degli americani, non riescono neppure a battere la resistenza degli Houthi sciiti zayditi dello Yemen che di recente non solo hanno lanciato un missile vicino a Riad, con il probabile aiuto degli Hezbollah libanesi come addestratori, ma hanno sanguinosamente sfidato Riyadh facendo fuori immediatamente l’ex alleato ed ex presidente Abdullah Saleh quando ha annunciato di volere aprire negoziati con l’Arabia Saudita.

La guerra tra Riad e Teheran resta quindi sempre una guerra per procura e si potrebbe dire anche per fortuna: basti pensare a cosa potrebbe significare in termini di rifornimenti petroliferi sui mercati vedere in fiamme i terminal del Golfo.  (...)

Dopo la guerra irachena nel Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due paesi erano migliorati durante la presidenza di Hashemi Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come un tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione il fronte sunnita e i sauditi che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione anti-iraniana e anti-Assad.

L’idea dei sauditi era quella di spezzare la cosiddetta Mezzaluna sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.

Questo è il motivo strategico per cui gli iraniani considerano le loro frontiere reali mille chilometri più avanti rispetto a quelle ufficiali sullo Shatt el-Arab, come ha del resto dichiarato pubblicamente il generale Qassem Soleimani

La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houthi sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e al fronte sunnita, ha perso questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel “cortile di casa”, in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.

Per questo lo scontro si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante."


"(...) Alcuni (ma non tutti) sostengono che le proteste del primo giorno siano state organizzate dagli ultraconservatori, cioè quelli che fanno riferimento alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, l’autorità politica e religiosa più importante del paese. L’obiettivo, dicono alcuni analisti e giornalisti, sarebbe stato quello di indebolire il governo di Rouhani, da sempre in competizione con lo schieramento di Khamenei. Non ci sono prove certe che dimostrino questa tesi, ma Mashhad è una città dove gli ultraconservatori sono molto forti: dove per esempio è molto popolare Ibrahim Raesi, il candidato conservatore che fu battuto da Rouhani alle ultime elezioni presidenziali, a maggio, e che in passato accusò il governo di avere fallito nel mantenere le sue promesse di ripresa economica. Al di là di come sia iniziata tutta questa storia, nel giro di un giorno è andata fuori controllo. Le proteste si sono diffuse in tutto l’Iran e sono diventate qualcosa di diverso da semplici rivendicazioni economiche. Si sono cominciati a sentire slogan contro l’intero sistema della teocrazia islamica in vigore in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e contro le decisioni delle élite politiche sia in politica interna che in politica estera. Per esempio si è urlato contro l’appoggio dell’Iran al gruppo estremista sciita Hezbollah e al presidente siriano Bashar al Assad. A Isfahan, città dell’Iran centrale conosciuta per il suo famoso “ponte dei 33 archi“, si sono sentiti i manifestanti urlare direttamente il nome di Khamenei, una cosa piuttosto inusuale. (...)


"Dopo due giorni di decise proteste contro il carovita in diverse città iraniane, oggi nel centro del Paese, a Doraud, nella provincia di Loerstan, si sono registrate le prime vittime: secondo quanto riferiscono fonti locali, almeno sei persone sono state uccise e diverse altre ferite quando la Guardia Repubblicana ha sparato per disperdere una manifestazion e; mentre a Teheran alcune centinaia di studenti sono scesi nelle vie intorno all’università unendosi alle contestazioni e nelle strade del Paese sono state attaccate banche e bruciati ritratti della guida suprema Ali Khamenei. Finora gli arresti hanno riguardato una cinquantina di persone. La Casa Bianca è intervenuta e ha avvertito le autorità di Teheran: «Attenti, il mondo vi sta guardando, gli iraniani ne hanno abbastanza della corruzione del regime e della dissipazione della ricchezza nazionale per finanziare il terrorismo». (...)


"(...) Sui social network sono rimbalzate le immagini delle proteste, registrate anche nelle città di Mashaad, Neyshabur, Kamshmar, Shahrud, Rasht, Tabriz e Isfahan. Secondo quanto filtrato su Telegram e Instagram, i manifestanti scandivano slogan contro il presidente Hassan Rohani o "Indipendenza, libertà, repubblica iraniana". Tra gli slogan anche quelli che sembravano inni in memoria dell'ultimo Scià di Persia, Mohamed Reza Pahlevi, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Khomeini. Tra gli slogan più scanditi quelli contro il clero sciita, accusato di condurre una vita agiata e non in empatia con i problemi reali della società: "La nazione mendica, mentre il clero vive come Dio". Slogan anche contro le spese del regime per alcuni Paesi della regione mentre la popolazione attraversa difficoltà economiche. (...)


"(...) Borzou Daragahi, giornalista di BuzzFeed esperto di Iran, ha scritto che gli slogan che sono stati cantati ieri nelle piazze iraniane sono stati molto simili a quelli delle grandi manifestazioni del 2009, quando il regime di Teheran si trovò a dover affrontare il cosiddetto “movimento dell’Onda Verde”, organizzato dai riformisti iraniani dopo l’elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Quelle del 2009 furono le proteste più importanti e significative nella storia recente dell’Iran e furono seguite da una reazione repressiva da parte dello stato. (...)"


"(...) È difficile dire se oggi quall’aiuto ai rivoltosi arriverà, certo è che gli Stati Uniti hanno subito pubblicamente appoggiato la protesta contro gli ayatollah, in un gesto senza precedenti dai toni di Reagan. È lecito dunque pensare che nel caso in cui l’insurrezione prendesse piede gli Stati Uniti potrebbero assistere apertamente e concretamente i rivoltosi. Perché? Perché oggi l’espansione militare iraniana mette in pericolo gli interessi americani, sauditi e israeliani ed un cambio di regime è sicuramente più augurabile di una guerra classica nel Golfo, sia in termini di costi di vite umane sia banalmente in termini di budget, senza contare il rischio politico interno per un presidente che fatica a prendere in mano pienamente le redini del potere.
Eliminare i vertici dello stato iraniano potrebbe essere l’aiuto concreto degli americani alla nuova Rivoluzione iraniana, se e quando mai essa dovesse deflagrare. I metodi usati in altri luoghi del Medioriente (Siria, Libia, Egitto) non sono funzionali allo scenario iraniano, oltre ad essersi dimostrati fallaci ove già impiegati.
Anche per questo motivo è un errore paragonare i moti di piazza dell’opposizione iraniana alle primavere arabe. In tutte le cosiddette “primavere” la motivazione religiosa ed anti-laicista era un pilastro della rivolta, qui invece assistiamo allo scenario opposto, dove gli oppositori protestano per cercare di abbattere un sistema di potere politico-religioso che già controlla un intero paese.
L’attenzione del governo iraniano affinché la rivolta non diventi insurrezione è massima. Le forze di sicurezza hanno finora evitato di impiegare le armi e non fornire nessun martire alla piazza.
Nessuno oggi può sapere cosa accadrà in terra di Persia, ma di una cosa siamo sicuri: non sarà una primavera araba e nessuno degli attori stranieri che dovesse un domani intervenire attuerà l’obamiano motto del “Leading from Behind”.
Le dittature governano con il pugno di ferro, hanno potere di vita e di morte, ma ciclicamente (se non evolvono in una forma di governo più condivisa) sono destinate ad implodere nel caos e nel sangue.
L’Iran di oggi è un paese che può evolvere verso una forma di governo non teocratica oppure implodere per mano delle folle.(...)

sabato 4 aprile 2015

Sul Nucleare Iraniano (rassegna stampa)

In tutti i grandi negoziati fermare l’orologio e continuare a trattare equivale a escludere la possibilità di un fallimento. Troppo gravi sarebbero le ricadute politiche per chi, volendo fare la storia, scopre invece di doversi arrendere alla sconfitta. Ma escludere il fallimento non significa garantire il successo, e il confronto nucleare di Losanna tra l’Iran e le potenze occidentali fiancheggiate da Russia e Cina ha sfiorato più volte il disastro prima di riuscire, ieri sera, a produrre un accordo-quadro che nelle limitazioni al programma nucleare di Teheran va al di là delle attese e incoraggia le parti a negoziare ancora per giungere all’intesa definitiva entro la fine di giugno.

Letta congiuntamente dal ministro degli Esteri iraniano Zarif e dalla responsabile europea per la Politica estera Mogherini (che nella circostanza rappresentava anche Usa, Russia e Cina), la dichiarazione messa a punto dopo otto giorni e sette notti di lavoro nasce da uno scambio di concessioni tra le due parti del tavolo: l’Iran accetta la volontà dei suoi interlocutori di impedirgli l’accesso all’armamento nucleare per un lungo periodo di tempo, in contropartita di una revoca sollecita e poco condizionata delle sanzioni economiche decise contro Teheran dagli Usa, dall’Europa e dall’Onu.​(...)

Ma se Obama e il suo negoziatore Kerry parlano di un «grande giorno», un segnale di necessaria cautela giunge dalle parole dei delegati iraniani che ridimensionano di molto il contenuto effettivo delle loro concessioni. Anche all’ora dei sorrisi sono i fronti interni dei due protagonisti del negoziato a tenere banco. Il capo della Casa Bianca aveva bisogno di fatti concreti, di concessioni precise da parte dell’Iran per convincere il Congresso (che riapre tra dodici giorni) ad aspettare il nuovo round negoziale prima di adottare eventuali nuove sanzioni contro Teheran. E dall’altra parte, poteva Zarif superare le linee rosse indicate più volte dalla «Guida suprema» Khamenei in tema di sovranità e di diritto al nucleare (pacifico, afferma Teheran)? E poteva il presidente Rohani inviare a Losanna istruzioni ancor più flessibili, senza sapere se l’ambiguo Khamenei e dietro di lui i militari, i nazionalisti, gli avversari personali ne avrebbero approfittato per accusarlo di tradimento?

Questi condizionamenti non spariranno nei prossimi mesi. L’accordo preliminare di Losanna dovrà dimostrare davvero, davanti al Congresso e davanti a Khamenei, di essere stato l’annuncio di una svolta storica che cambierebbe il mondo. Dovrà dimostrare di poter garantire la sicurezza di Israele, dando torto alle preoccupazioni di Netanyahu che fino a prova contraria e definitiva conservano qualche fondamento. Dovrà dimostrare che l’opzione militare, evocata come possibilità in caso di rottura delle trattative, è destinata anch’essa all’archivio. E dovrà evitare, con una iniziativa politica dell’Occidente che deve partire subito, il diffondersi tra le monarchie del Golfo e oltre di una generica paura dell’Iran sciita foriera di nuove guerre e di nuovo terrore. Soltanto così Losanna oggi e l’accordo di fine giugno fra tre mesi risponderanno davvero all’entusiasmo del popolo iraniano, soprattutto a quello dei giovani che sperano in più benessere e più libertà. 



Finalmente il tanto atteso accordo sul nucleare iraniano è arrivato. Ci sono voluti otto giorni, con due di estensione rispetto ai tempi previsti, perché i P5+1, i sei paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite insieme alla Germania, dessero il via libera ad un’intesa definitiva che metta fine a dodici anni di contenzioso nucleare. Una pagina storica per la storia del Medio oriente: è stato subito il commento del segretario di Stato John Kerry e del ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha parlato di un mondo più sicuro in seguito all’accordo e di «verifiche senza precedenti» per impedire qualsiasi deviazione militare del programma nucleare a scopo civile.

I termini dell’accordo
Sebbene il testo finale sarà firmato soltanto il prossimo 30 giugno e solo ora si passa alla stesura dell’intesa, di fatto il vero passo avanti è stato compiuto. La bozza annunciata a Losanna ammette di fatto che l’Iran prosegua nel suo programma nucleare a scopo civile. Non solo, prevede la cancellazione di tutte le sanzioni internazionali, contestualmente al rispetto dei requisiti dell’accordo annunciato in una conferenza congiunta dall’Alto rappresentante per la politica dell’Unione europea Federica Mogherini e dal suo omologo iraniano, Javad Zarif.


Con l’accordo-quadro raggiunto a Losanna, l’Iran è più vicino o più lontano dall’atomica?
Gli Stati Uniti ritengono che l’Iran sia più lontano dall’atomica. Se ora il «break-out time», il tempo per raggiungerla, è stimato in 2-3 mesi grazie alle intese diventa di 12 mesi. E le intese resteranno in vigore per 10 anni, con successivi 5 anni di obblighi per Teheran. Usa e Ue ritengono di aver bloccato la corsa dell’Iran all’atomica soprattutto perché l’impianto al plutonio di Arak viene bloccato, il carburante usato spostato all’estero e l’arricchimento dell’uranio limitato a 5060 centrifughe modello IR-1, della prima generazione, nell’impianto di Natanz. Ma a tal fine saranno di vitale importanza le verifiche dell’Agenzia atomica Onu, i cui ispettori per i prossimi 15 anni dovranno certificare il rispetto degli impegni sottoscritti.

Chi vince e chi perde nel negoziato fra l’Iran e il Gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania)?
Vincono Obama e Rohani, i leader che più hanno voluto l’accordo. Il presidente Usa perché convinto che il dialogo con i nemici rafforza la leadership americana nel mondo e, in questo caso, disinnesca la minaccia atomica di Teheran. Il presidente iraniano perché vede riconosciuto il diritto all’arricchimento dell’uranio e ha la possibilità di far ripartire l’economia e gli investimenti grazie alla progressiva riduzione delle sanzioni. Perdono Israele, Arabia Saudita, Egitto e gli altri Paesi sunniti protagonisti di forti pressioni su Usa e Ue per evitare un’intesa che ritengono pericolosa per la propria sicurezza nazionale. Anche la Russia esce indebolita perché il dialogo fra Usa e Iran che ora inizia consegna nuove opzioni a Obama, riducendo gli spazi per Mosca».

venerdì 27 marzo 2015

La guerra in Yemen, spiegata bene (da ilPost.it)

Nella notte tra mercoledì 25 e giovedì 26 marzo è cominciata ufficialmente una nuova guerra. Alcuni aerei dell’Arabia Saudita e di altri paesi arabi hanno bombardato le postazioni in Yemen dei ribelli sciiti Houthi, che nelle ultime settimane hanno preso il controllo della capitale Sana’a e di altri territori nell’ovest del paese. La situazione in Yemen è molto tesa da mesi, tanto da far parlare diversi analisti di “guerra civile”. È anche molto complicata da capire, perché ai gruppi ribelli locali si sono affiancati l’intervento di paesi esterni e le rivalità personali di importanti esponenti politici yemeniti. La storia recente dello Yemen – il paese più povero del Medio Oriente – è cambiata d’improvviso tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, quando Ali Abdullah Saleh, il capo del paese da oltre trent’anni, ha lasciato il potere. Abbiamo messo insieme una guida per capire che cosa sta succedendo in Yemen – chi combatte contro chi e cosa potrebbe diventare la guerra – e perché la si può definire una delle crisi internazionali più complicate e pericolose degli ultimi tempi.

Cos’è lo Yemen, e da dove arriva?
Lo Yemen è un paese molto povero, che si trova sulla punta sud della Penisola arabica. Ha la forma simile a un rettangolo: condivide tutto il suo confine settentrionale con l’Arabia Saudita e tutto il suo confine orientale con l’Oman. A partire dal 1962 e fino al 1990 c’erano due stati yemeniti: a nord la Repubblica Araba dello Yemen, governata in maniera autoritaria da Ali Abdullah Saleh, a sud la Repubblica Democratica popolare dello Yemen, governata da un regime marxista: anche dopo l’unificazione, avvenuta nel maggio 1990, nel sud si sono sviluppati a fasi alterne diversi movimenti indipendentisti che ancora oggi continuano a operare contro il governo centrale (nel gennaio 2015, per esempio, il leader dei separatisti nel sud ha letto in diretta su al Jazeera una specie di “dichiarazione d’indipendenza”).

lunedì 3 febbraio 2014

Olimpiadi E Terrorismo (da AffarInternazionali.it)

(...) Sochi è blindata. Per la sua sicurezza, Mosca ha speso 2,5 miliardi di euro, i servizi segreti hanno avuto carta bianca su intercettazioni, raccolta dati, fermi, arresti. “ Se volete eliminare qualcuno, uccidetelo”, così il ministro degli Interni ceceno Apti Alaudinov ha esortato i suoi uomini a usare ogni metodo per sventare gli attacchi terroristici.


Tuttavia nel mirino dei terroristi non c’è stata fino ad ora Sochi. Le località più colpite sono state Volgograd, ex Stalingrado, testimone di tre attentati in tre mesi, Pjatigorsk, il Dagestan e Kabardino-Blakaria, scenario di una guerra che uccide circa 700 persone all’anno e che l’International Crisis Group non ha esitato a definire “il più sanguinoso conflitto esistente in Europa”.

Nel silenzio della stampa il Bin Laden russo, Doku Umarov, lancia i suoi appelli alla solidarietà islamica internazionale, facendo leva sull’incredibile caleidoscopio di etnie che abitano quelle terre come ceceni, cabardini, abkhazi, circassi (di cui quest’anno ricorre il 150esimo anniversario della cacciata dal Caucaso e del “genocidio circasso”) e tanti altri.

Tra gli irriducibili di Umarov, quello che colpisce è il numero di donne, le cosiddette vedove nere o shahidki, donne martire. Sono per la maggior parte giovani e acculturate che hanno visto morire nella guerriglia padri, fratelli amici e per le quali il terrorismo a volte è un modo per calmare la sete di vendetta, altre volte è invece l’unica strada per riguadagnare il proprio onore dopo uno stupro, in una società chiusa e conservatrice come quella cecena. (...)

La questione è tuttavia più complicata e lega la Russia agli affari economici di Arabia Saudita e Qatar. Questi ultimi paesi avevano precedentemente offerto a Damasco non solo l’equivalente di tre anni di bilancio, ma anche la propria disponibilità a domare la rivolta se Assad si fosse allontanato dall’Iran, arci-nemico dei sunniti. Così non è stato e pertanto il principe Bandare Bin Sultan, capo dei servizi sauditi, si è visto con il presidente russo lo scorso luglio ed è tornato a incontrarlo il mese scorso.

Vladimir Putin avrebbe chiesto ai sauditi un sostanziale via libera sui loro gasdotti e un aiuto nel controllare i terroristi ceceni che minacciano i giochi. In cambio, il principe avrebbe domandato la cessazione del sostegno russo al regime di Assad e il rinvio della conferenza di pace sulla Siria, Ginevra 2. (...)


http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2517#sthash.jn1iM39O.dpuf

venerdì 17 gennaio 2014

Vendere Lingerie A Riyadh (ThePostInternazionale)

Attualmente, in Arabia Saudita vivono più di 27 milioni di persone, di cui il 52 per cento sono donne che vivono sotto tutela. Non possono nemmeno studiare se non hanno il consenso dei “mahrams” (padri, fratelli o parenti uomini che hanno il compito di vigilare sulle donne): la sharia, la legge islamica che ispira la giurisprudenza, impone alle donne la segregazione in casa. Molte famiglie ritengono inopportuna l'emancipazione delle donne e non permettono loro di lavorare. Da quelle parti, la grande paura è quella dell’ “ikhtilat”: la mescolanza dei sessi in pubblico.
Di prassi, la vita delle donne saudite è divisa da quella degli uomini: scuole, cure mediche e persino le file nelle banche sono rigorosamente separate. Il risultato di questa convenzione sociale è l'inettitudine delle donne alle interazioni con gli estranei, soprattutto se uomini.
Così, per avviare il processo di “femminilizzazione” della società saudita, le donne hanno avuto bisogno di frequentare dei corsi per abituarsi ai più semplici contatti. Hanno dovuto apprendere persino come sorridere: sorriso ampio alle donne, discreto agli uomini.(...)
Il processo di “femminilizzazione” della società saudita è partito da una serie di proteste di donne stanche dell'imbarazzo di comprare oggetti così legati alla sfera intima da commessi uomini poco sensibili e a volte scortesi. Così, mentre altrove fiorivano le rivoluzioni arabe, nel giugno 2011 il re Abdullah firmò una legge ad hoc. Da quel momento l'intimo, i trucchi e gli abiti da donna potevano esser venduti solo da commesse donne.
Da subito questo cambiamento è stato giudicato un «crimine» dalla somma autorità religiosa saudita, il Gran Mufti Abdul Aziz Aal ash-Shaikh. Lo scorso settembre, il ministro del lavoro saudita Adel Fakeih ha accusato l'Haia, la polizia religiosa incaricata di vigilare sull'attuazione della sharia, di non rispettare quanto stabilito dalla legge sulla “femminilizzazione”.(...)
(...) Con quanto previsto dal decreto sulla “femminilizzazione”, nonostante le difficoltà, molte donne hanno potuto sentirsi più libere. Anche tra le mura domestiche. Molte hanno raccontato di esser trattate meglio dai mariti e, spesso, durante le litiquotidiane, l'indipendenza economica è stata un'arma che le ha aiutate a rivendicare i propri diritti.

martedì 26 novembre 2013

Iran: Accordo Inevitabile? O Inutile?

L'accordo tra il "5+ 1" (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran è difficile da valutare: sembra essere inevitabile, forse anche per certi aspetti "positivo", al tempo stesso inutile. E comunque porta con sé una quota di "rischio" che non può essere sottovalutata, e che rende molto comprensibile la dura reazione israeliana. 

Inevitabile, perché ormai le mosse dei giocatori si erano portate su un territorio dal quale "ritirarsi" era forse impossibile, a meno di non voler aprire una fase "drammatica" ed "esplicita" del conflitto (la fase "implicita" e coperta essendo già in corso).

Positivo, sia pur detto con moltissime cautele, perché almeno sulla carta vengono posti limiti all'attività iraniana, pur con inevitabili ambiguità; e questi limiti - teoricamente - possono servire a "sorvegliare" Teheran, che è chiamata ad accettare le ispezioni dell'ONU, senza più alcun alibi (non che prima le motivazioni per rifiutarle fossero reali e fondate, ma è comunque importante togliere quasiasi pretesto); il problema è naturalmente capire se le ispezioni riusciranno a essere così stringenti da verificare effettivamente le eventuali violazioni al patto.

Inutile, perché questi sei mesi di prova possono funzionare, ma se il Medio Oriente tutto non viene coinvolto - e in questo senso all'orizzonte c'è anche la drammatica questione siriana - questo accordo non porrà certo le basi di una pace duratura (solo in un quadro di pace ogni paese potrebbe legittimamente rivendicare autonomia nelle scelte energetiche).

Anzi: come segnalato in uno degli articoli qui sotto riportati, il rischio è che l'accordo segni una "stabilizzazione" del regime iraniano, che può trovare ossigeno (anche finanziario) con il quale resistere ai segnali e ai tentativi di cambiamento.

E' proprio questa - in ultimo - la posta in palio con il nucleare, per Teheran: non un'improbabile guerra atomica, ma il "congelamento" della situazione politica interna, l'alzare il prezzo di qualsiasi possibile cambiamento profondo.

Non potendo e non volendo alzare la tensione, forse l'Occidente non poteva fare altro, per il momento.

Una scelta inevitabile, dunque. Ai fatti decidere se sarà stato un primo felice passo, o un azzardo che pagheremo più caro, più avanti.

Meglio prepararsi a tutto.

Francesco Maria Mariotti

Non è tutto oro quel che luccica. L’accordo tra il “5+1” (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran suscita perplessità e malcontento in più di un attore del grande gioco mediorientale, e non solo. La sospensione per sei mesi delle sanzioni sulla Repubblica Islamica iraniana, ottenuta in cambio di alcune concessioni all’Occidente sul programma nucleare, promette di portare circa sette miliardi di dollari nelle casse di Teheran. Un miglioramento, anche se lieve, delle condizioni economiche del Paese verrebbe sfruttato dal regime degli Ayatollah per legittimare la propria permanenza al potere, messa in crisi dalle proteste del 2009 e dal peggioramento delle condizioni di vita di milioni di iraniani, stretti tra disoccupazione e inflazione. I primi “sconfitti” di questo accordo sarebbero quindi gli oppositori interni del regime.(...)

«L’intesa sicuramente rafforza la Repubblica Islamica nel suo complesso», spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di Storia e istituzioni dei paesi islamici all’Università di Genova. «La questione è abbastanza complessa. I “falchi” del clero sciita e dei Pasdaran stanno già attaccando l’accordo raggiunto, sostenendo che ci si è spinti troppi avanti, ma si tratta del solito gioco delle parti. L’ala moderata rappresentata da Rohani e dal ministro degli Esteri Zarif è riuscita nell’impresa di ottenere al tavolo dei negoziati l’allentamento delle sanzioni, con conseguenze economiche favorevoli per la popolazione iraniana, stabilizzando di fatto la Repubblica Islamica. Questa è una cosa positiva per tutti i suoi sostenitori».(...)



A riassumere il capitolo meno noto della diplomazia dell’amministrazione Obama è stato il luogo della Casa Bianca scelto per annunciarne il successo: la State Dining Room, con alle spalle il grande ritratto di Abramo Lincoln. Proprio a Lincoln infatti Obama si riferì nel discorso di insediamento a Washington, il 20 gennaio 2009, ispirandosi alla sua scelta di «cooperare con i nemici» dopo la vittoria nella guerra civile per mandare un messaggio esplicito all’Iran: «Tenderemo la mano, se voi aprirete il pugno».


Cosa concede l'Iran in cambio dell'alleggerimento delle sanzioni? Il Paese non ha ceduto, per il momento, sull'arricchimento dell'uranio a scopi civili ma deve neutralizzare l'uranio già arricchito al 20% (considerato vicino a quello necessario per armi atomiche) riconvertendolo o diluendolo fino al 5 per cento. Nell'accordo la comunità internazionale concede infatti a Teheran di continuare ad arricchire l'uranio fino al 5 per cento. Le centrifughe in grado di effettuare un arricchimento superiore dovranno essere disattivate e il Paese non ne produrrà di nuove. Questa parte dell'accordo comporta che circa la metà delle centrifughe in funzione a Natanz e tre quarti di quelle di Fordow verranno rese inoperative. Congelerà le attività nell'impianto di acqua pesante di Arak che, se costruito, potrebbe produrre plutonio per un'arma nucleare. 

di Roberta Miraglia. Con un articolo di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/deALF

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lunedì 25 novembre 2013

Siria - Quali Vie di Uscita?

(...) Il pessimo stato in cui versa è l’effetto diretto delle spaccature fra quelli che sono (o che erano) i suoi principali sponsor regionali e internazionali. Turchia e Qatar, un tempo i due supporter più importanti dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana, oggi sembrano aver deciso di rivedere completamente il proprio impegno “in prima linea”. Da una parte Ankara sta cominciando ad ammettere gli errori di calcolo commessi quando due anni e mezzo fa quando decise di puntare tutto su una rapida caduta di Assad; recrudescenza degli attacchi curdi, centinaia di migliaia di rifugiati nell’est del paese, continui incidenti di confine e, soprattutto, l’inaspettata tenacia del regime di Damasco hanno costretto Erdogan a rivalutare la propria politica siriana e ad adottare un più basso profilo. Dall’altra il Qatar si sta ancora leccando le ferite dopo il clamoroso scacco subito con la caduta di Morsi in Egitto che ha frantumato l’ambizioso disegno qatarino di divenire una potenza regionale di primo piano spodestando gli alleati-rivali sauditi attraverso il sostegno alla Fratellanza musulmana internazionale.

Oggi il nuovo “padrino” dell’opposizione siriana è l’Arabia Saudita (seguita silenziosamente dagli Emirati Arabi Uniti), che dopo il golpe in Egitto ha frettolosa-mente giocato il proprio “asso piglia tutto” diventando il primo sponsor del nuovo regime militare al Cairo e spodestando gli uomini del Qatar dai posti chiave dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana. Lo scopo che guida la mano di Riyadh in Siria è ovviamente in primo luogo la volontà di sottrarre allo storico nemico, l’Iran, il suo alleato chiave nel mondo arabo. Ma non solo. Col tempo e con il crescere delle milizie legate ad al-Qaeda sul territorio siriano è diventato di primaria importanza per i sauditi anche arginare il fenomeno qaedista. Dopo il grave scorno subito dal mancato attacco statunitense – che ha portato a un raffreddamento probabilmente senza precedenti nei rapporti fra Riyadh e Washington – i sauditi sembrano aver deciso di far da sé, alla solita maniera: addestramento e armamento di salafiti “buoni” per contrastare i salafiti “cattivi”, con buona pace dei valori laici e di unità nazionale che guidavano i primi passi della rivoluzione siriana. La pressione saudita ha portato all’ulteriore smantellamento dell’Esercito libero siriano, che ha visto un’ulteriore scissione interna guidata dalle brigate più intrise di valori religiosi. Queste ultime, quasi un terzo del totale, sono andate a formare “l’Esercito dell’Islam”, finanziato da Riyadh con l’intenzione di creare una forza islamista in grado di contrastare le formazioni di al-Nusra e di al-Qaeda in Iraq e nel Levante, espressioni dirette della galassia jihadista internazionale in Siria.(...)


Si sarebbe tentati dal dire che è l’effetto dell’accordo del P5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu più i tedeschi) con Teheran sul nucleare, ma sarebbe troppo facile. Anche se sarebbe sbagliato non valutarlo come segno di un clima che sta cambiando. L’Onu ha annunciato che, dopo tanti rinvii, la conferenza internazionale per trovare una soluzione alla crisi siriana di terrà finalmente a Ginevra il 22 gennaio. 

Il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, mentre partecipava oggi al Media forum italo-russo insieme con la collega Emma Bonino, ha sottolineato: “La conferenza si poteva fare prima di gennaio se non ci fosse stato l’egoismo politico dell’opposizione siriana”.  

Come è noto l’opposizione è un complicato arcipelago composto da forze che si rifanno a vari sponsor come l’Arabia Saudita e la Turchia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, e altre, molto forti sul campo, che si rifanno all’estremismo salafita vicino all’icona terroristica di Al Qaeda.  

Il grosso ostacolo finora era che nessun gruppo, neppure quelli più moderati voleva trattare con Assad. (...)