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domenica 31 dicembre 2017

Prepararsi Con Prudenza. In Niger E In Libia. E In Iran.

Buona fine anno, e  buon nuovo inizio. 
Brevi riflessioni, da "non-esperto", su alcune questioni di politica estera che si stanno imponendo alla nostra attenzione di questi giorni.

Non è semplice valutare quanto sta succedendo in Iran; la linea di demarcazione fra conservatori e progressisti non è di facile lettura in una realtà come quella, e in uno scenario così in movimento, tanto che queste proteste sembrano essere nate sotto un segno politico ultraconservatore, per poi "sfuggire di mano".

Quel che forse si può azzardare in ogni caso è che se si dovesse estendere la protesta l'Iran potrebbe avere maggiori difficoltà a gestire il suo ruolo internazionale, teoricamente in questo periodo in via di affermazione. Non è una sorpresa (le tensioni sotto la superficie non sono una novità nella storia recente del paese), ma di questi tempi è il caso di sottolinearlo perché il nuovo protagonismo di Teheran sembra non avere il "respiro lungo" che sarebbe necessario. 

Se sono moti di "libertà" (ma la situazione non è mai chiarissima, e dobbiamo essere massimamente prudenti), la comunità internazionale dovrebbe far sentire la sua voce; ma sempre con uno sguardo al dopo, alle possibili conseguenze di un regime in difficoltà.

Comunque situazione molto interessante e stimolante: delicata e da approfondire, senza farsi incantare da "teologie/filosofie della storia improvvisate", ma senza timore di agire, per vie ufficiali o più nascoste, se e quando necessario.

La regola è sempre quella, in politica estera, almeno per chi come noi non è propriamente una superpotenza militare ed economica: cadere sempre in piedi, giocare su più tavoli, scegliere e lanciarsi se necessario, ma mai abbandonarsi. Difendere il proprio onore, se ha senso la parola (in politica ha un senso particolare, diciamo), ma senza perdere inutilmente soldi e vite umane.

Vale per l'Iran, ma vale ancora di più per altre partite che interessano l'Italia: Niger e Libia in primis, collegate forse più di quanto appare.

Cosa andiamo a fare in Niger? E sarà veramente una missione "no-combat" come sembra esser stata delineata? e quali i rapporti con la Francia in questo scenario? Otteniamo qualcosa in cambio del nostro sforzo in Niger, magari sul fronte libico, che sta presentando criticità sempre maggiori (prepariamoci a qualche spallata pesante...)?

E' un cambio di prospettiva "radicale", per l'Italia, che tenta di giocare una partita più "europea" (si vedano le riflessioni di Pasotti più sotto)? Ma è possibile cambiare realmente la politica estera di un paese?
Potrebbe essere, ma io mi augurerei anche qui un po' più di "cinismo" da parte nostra, se vogliamo anche come cittadini osservatori: dobbiamo essere capaci di non rimanere soli, se per caso la situazione libica in particolare dovesse peggiorare. Dobbiamo essere capaci di coniugare - ancora - europeismo non di maniera e atlantismo; sì, atlantismo. Con la nostra diplomazia originale, con la doppiezza inevitabile che ci connota, comunque. Al di là dei risultati elettorali, che non potranno cambiare la nostra posizione nel Mediterraneo, e le nostre necessità.

Se faremo l'Europa unita anche in politica estera, la dobbiamo fare con piena consapevolezza dei costi che ci saranno e che peseranno su tutti noi; e senza dimenticare che sarà sempre un'Europa delle nazioni, degli Stati: con tutte le contraddizioni inevitabili di questa strana architettura, che dovrebbe rendere più coerenti interessi spesso contrapposti. 

Prepariamoci con prudenza. 
Buona fine anno, e  buon nuovo inizio.

Francesco Maria Mariotti

(Chi scrive è dipendente del Consiglio regionale della Lombardia; naturalmente le opinioni di questo post sono espresse a titolo puramente personale)


***

"(...) Se da un lato l’operazione nel Sahel rappresenterà un test per le capacità della tanto sbandierata difesa europea, dall'altro vedrà inevitabilmente confrontarsi interessi ed egemonie.

I francesi  ”giocano in casa” non solo perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi ma perché dall'intervento contro i jihadisti in Malì nel 2012 la Francia ha mantenuto una consistente presenza militare nella regione combattendo non senza perdite i gruppi jihadisti.


L’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche, inclusa quella prioritaria per l’Italia nel deserto tra Niger e Libia, rendono quasi certo che l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà guidata dai francesi.

Grazie ai contingenti europei, Parigi potrà ridurre l’attuale esposizione nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli) sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense.

Gli Usa conducono già da tempo nel Sahel missioni in gran parte segrete impiegando aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger con basi a Ouagadougou, Niamey e Agadez. (...)

La Germania ha già donato un centinaio di veicoli alle forze del Niger (le cui risorse minerarie oggi sfruttate per lo più da francesi e cinesi, potrebbero far gola a Berlino) e potrebbe assegnare alla nuova alleanza il contingente attualmente presente in Malì sotto la bandiera dell’Onu o nuove truppe considerato che Berlino ha una propria base logistica all’aeroporto di Niamey (dove sono presenti anche una base americana e una francese. 

Quale ruolo per l’Italia

 Il ruolo dell’Italia (più volte chiesto dal Niger negli anni scorsi come Analisi Difesa raccontò nel reportage Roccaforte Niger)  dipenderà dalla determinazione di questo e del prossimo governo a inviare un contingente significativo in Niger e soprattutto ad autorizzarne l’impiego in combattimento oltre che per addestrare le forze nigerine. Attività quest’ultima che comincerà tra poche settimane come ha detto il premier Paolo Gentiloni che ha collegato la missione al ritiro di forze oggi in Iraq. (...) 

Una missione senza senso?

 In termini strategici vale poi la pena chiedersi se un simile dispiegamento abbia attualmente un senso, soprattutto se effettuato in condizioni di subalternità rispetto ai francesi che continuano ad essere (dal 2011) i più importanti competitor dell’Italia rispetto alla situazione in Libia.

La missione in Niger rischia infatti di rivelarsi utile a ridurre l’impegno e i costi di Parigi nell’operazione Barkhane senza però scalfirne la leadership di Parigi nel Sahel mentre circa il contrasto ai flussi migratori illegali non va dimenticato che i trafficanti potrebbero optare per rotte alternative, aggirando il dispositivo militare italiano grazie alle le piste desertiche che attraversano il confine algerino per poi sconfinare in Libia a sud di Ghat, area in cui da alcuni mesi è stata registrata la presenza di miliziani dello Stato Islamico.

In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli.

Si tratta dell’unica azione che scoraggerebbe le partenze da tutta l’Africa garantendo che nessun immigrato illegale potrà mai raggiungere i porti italiani.  In altre parole non ha alcun senso inviare truppe e mezzi per bloccare il confine tra Libia e Niger se poi le navi militari italiane ed europee continueranno a sbarcare in Italia i clandestini riusciti a salpare dalle coste libiche."


"(...) Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall'unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell'evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell'aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo. 

E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion… La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei? 

Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista."


"(...) Eppure sembra proprio questa la strada scelta dal governo Gentiloni: un cambio di linea sottaciuto come da stile del personaggio ma quasi rivoluzionario nella tradizione italiana post conflitto mondiale, un atto di realismo in un momento in cui è venuta a mancare la sponda del liberalismo internazionale americano anche solo nella sciagurata declinazione isolazionista di Barak Obama. Con una America che pensa a se stessa, che sceglie manicheisticamente amici e nemici in una votazione Onu su Gerusalemme Capitale forse voluta più da Washington (per contrastarla e per definirsi) che dagli arabi (costretti a sostenerla), gli spazi per la tradizionale diplomazia militare atlantica italiana si sono ridotti al minimo. Con il Quai d’Orsay invece abbiamo una marea di dossier aperti che riguardano in Libia la rottura tra Tripolitania amica (se ben pagata) e Cirenaica russofrancese (...)


"(...) Haftar s’è costruito un ruolo via via crescente, creando i presupposti per emendare alcuni aspetti del Lpa. Il maresciallo di campo s’è preso credibilità con le armi e col sostegno diplomatico russo (soprattutto), per questo molti governi occidentali – tra cui quello italiano, particolarmente coinvolto nella soluzione della crisi – lo hanno iniziato a trattare come un pezzo imprenscindibile per chiudere il puzzle. Il delegato Onu Gassam Salamé ha cercato negli ultimi mesi di modificare l’accordo del 2015, anche inserendo aspetti a lui favorevoli, ma non si è arrivati a un punto di incontro. D’altronde la deadline del 17 si stava avvicinando, e lo stesso Haftar ha dichiarato: “Le forze armate libiche (chiama così la milizia che comanda, ndr) non saranno mai sotto la guida di alcun corpo non eletto (riferendosi al Gna, ndr), ma risponderanno sempre agli ordini del popolo libico”, ed è un chiaro messaggio sul fallimento di Serraj,  un invito a lasciare. Ora Serraj e il suo zoppo Gna sono sotto la proroga temporanea del supporto onusiano ed europeo (qualche giorno fa anche gli Stati Uniti hanno ribadito la fiducia in Serraj, sebbene pure Washington abbia intavolato dialoghi anche con Haftar). Ma il punto attuale è lo stallo, perché nessuno dei due centri di potere può prevaricare l’altro. Salamé ha così proposto nuove elezioni (da tenersi già in primavera?). Serraj non ha più forza (se non dopo un mandato popolare) ma “il suo rivale basato a Tobruk è ancora più disperato. Entrambi i governi hanno poco da offrire per alleviare la miseria quotidiana delle persone che dovrebbero servire, e non è chiaro se Haftar accetterà le elezioni nella Libia orientale, che controlla”, scrive su Al Monitor l’accademico libico Mustafa Fetouri. Fetouri sostiene che l’idea di Salamé di usare le elezioni come elemento di stabilizzazione in questa fase in cui la crisi non vede sbocchi può essere buona, “ma tenere le elezioni in tali circostanze è una grande scommessa”: in Libia c’è una crisi di sicurezza (l’esplosione all’oleodotto è un ultimo passaggio, qualche giorno fa, per esempio, è stato rapito e ucciso da ignoti il sindaco di Misurata), il sud del paese è un territorio ancora senza legge dove le forze costiere non si allungano e comandano gruppi etnici locali (da poco riavvicinati sotto egida Onu), manca una costituzione, manca l’attività politica democratica."


"(...) L’Arabia Saudita non è in grado di condurre direttamente una guerra contro l’Iran e nel caso accadesse può farlo soltanto con il decisivo sostegno americano. E questo nonostante le spese di Riad per la difesa siano state nel 2016 di circa 64 miliardi di dollari e quelle iraniane di 12. Anche i dati dell’economia sono nettamente a favore dei sauditi che vantano un Pil di 650 miliardi di dollari mentre gli iraniani intorno ai 400 miliardi di dollari. Per non parlare della produzione petrolifera: quella saudita è più che doppia rispetto a quella iraniana. Il confronto tra le due economie può diventare ulteriormente penalizzante per l’Iran se gli americani decidessero di imporre nuove sanzioni a Teheran.

I dati sulla potenza militare pendono dal lato iraniano per numero di soldati e in alcuni settori, ma i sauditi possono contare su un arsenale tecnologicamente più avanzato. Eppure i sauditi, che pure godono dell’appoggio aereo degli americani, non riescono neppure a battere la resistenza degli Houthi sciiti zayditi dello Yemen che di recente non solo hanno lanciato un missile vicino a Riad, con il probabile aiuto degli Hezbollah libanesi come addestratori, ma hanno sanguinosamente sfidato Riyadh facendo fuori immediatamente l’ex alleato ed ex presidente Abdullah Saleh quando ha annunciato di volere aprire negoziati con l’Arabia Saudita.

La guerra tra Riad e Teheran resta quindi sempre una guerra per procura e si potrebbe dire anche per fortuna: basti pensare a cosa potrebbe significare in termini di rifornimenti petroliferi sui mercati vedere in fiamme i terminal del Golfo.  (...)

Dopo la guerra irachena nel Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due paesi erano migliorati durante la presidenza di Hashemi Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come un tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione il fronte sunnita e i sauditi che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione anti-iraniana e anti-Assad.

L’idea dei sauditi era quella di spezzare la cosiddetta Mezzaluna sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.

Questo è il motivo strategico per cui gli iraniani considerano le loro frontiere reali mille chilometri più avanti rispetto a quelle ufficiali sullo Shatt el-Arab, come ha del resto dichiarato pubblicamente il generale Qassem Soleimani

La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houthi sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e al fronte sunnita, ha perso questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel “cortile di casa”, in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.

Per questo lo scontro si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante."


"(...) Alcuni (ma non tutti) sostengono che le proteste del primo giorno siano state organizzate dagli ultraconservatori, cioè quelli che fanno riferimento alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, l’autorità politica e religiosa più importante del paese. L’obiettivo, dicono alcuni analisti e giornalisti, sarebbe stato quello di indebolire il governo di Rouhani, da sempre in competizione con lo schieramento di Khamenei. Non ci sono prove certe che dimostrino questa tesi, ma Mashhad è una città dove gli ultraconservatori sono molto forti: dove per esempio è molto popolare Ibrahim Raesi, il candidato conservatore che fu battuto da Rouhani alle ultime elezioni presidenziali, a maggio, e che in passato accusò il governo di avere fallito nel mantenere le sue promesse di ripresa economica. Al di là di come sia iniziata tutta questa storia, nel giro di un giorno è andata fuori controllo. Le proteste si sono diffuse in tutto l’Iran e sono diventate qualcosa di diverso da semplici rivendicazioni economiche. Si sono cominciati a sentire slogan contro l’intero sistema della teocrazia islamica in vigore in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e contro le decisioni delle élite politiche sia in politica interna che in politica estera. Per esempio si è urlato contro l’appoggio dell’Iran al gruppo estremista sciita Hezbollah e al presidente siriano Bashar al Assad. A Isfahan, città dell’Iran centrale conosciuta per il suo famoso “ponte dei 33 archi“, si sono sentiti i manifestanti urlare direttamente il nome di Khamenei, una cosa piuttosto inusuale. (...)


"Dopo due giorni di decise proteste contro il carovita in diverse città iraniane, oggi nel centro del Paese, a Doraud, nella provincia di Loerstan, si sono registrate le prime vittime: secondo quanto riferiscono fonti locali, almeno sei persone sono state uccise e diverse altre ferite quando la Guardia Repubblicana ha sparato per disperdere una manifestazion e; mentre a Teheran alcune centinaia di studenti sono scesi nelle vie intorno all’università unendosi alle contestazioni e nelle strade del Paese sono state attaccate banche e bruciati ritratti della guida suprema Ali Khamenei. Finora gli arresti hanno riguardato una cinquantina di persone. La Casa Bianca è intervenuta e ha avvertito le autorità di Teheran: «Attenti, il mondo vi sta guardando, gli iraniani ne hanno abbastanza della corruzione del regime e della dissipazione della ricchezza nazionale per finanziare il terrorismo». (...)


"(...) Sui social network sono rimbalzate le immagini delle proteste, registrate anche nelle città di Mashaad, Neyshabur, Kamshmar, Shahrud, Rasht, Tabriz e Isfahan. Secondo quanto filtrato su Telegram e Instagram, i manifestanti scandivano slogan contro il presidente Hassan Rohani o "Indipendenza, libertà, repubblica iraniana". Tra gli slogan anche quelli che sembravano inni in memoria dell'ultimo Scià di Persia, Mohamed Reza Pahlevi, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Khomeini. Tra gli slogan più scanditi quelli contro il clero sciita, accusato di condurre una vita agiata e non in empatia con i problemi reali della società: "La nazione mendica, mentre il clero vive come Dio". Slogan anche contro le spese del regime per alcuni Paesi della regione mentre la popolazione attraversa difficoltà economiche. (...)


"(...) Borzou Daragahi, giornalista di BuzzFeed esperto di Iran, ha scritto che gli slogan che sono stati cantati ieri nelle piazze iraniane sono stati molto simili a quelli delle grandi manifestazioni del 2009, quando il regime di Teheran si trovò a dover affrontare il cosiddetto “movimento dell’Onda Verde”, organizzato dai riformisti iraniani dopo l’elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Quelle del 2009 furono le proteste più importanti e significative nella storia recente dell’Iran e furono seguite da una reazione repressiva da parte dello stato. (...)"


"(...) È difficile dire se oggi quall’aiuto ai rivoltosi arriverà, certo è che gli Stati Uniti hanno subito pubblicamente appoggiato la protesta contro gli ayatollah, in un gesto senza precedenti dai toni di Reagan. È lecito dunque pensare che nel caso in cui l’insurrezione prendesse piede gli Stati Uniti potrebbero assistere apertamente e concretamente i rivoltosi. Perché? Perché oggi l’espansione militare iraniana mette in pericolo gli interessi americani, sauditi e israeliani ed un cambio di regime è sicuramente più augurabile di una guerra classica nel Golfo, sia in termini di costi di vite umane sia banalmente in termini di budget, senza contare il rischio politico interno per un presidente che fatica a prendere in mano pienamente le redini del potere.
Eliminare i vertici dello stato iraniano potrebbe essere l’aiuto concreto degli americani alla nuova Rivoluzione iraniana, se e quando mai essa dovesse deflagrare. I metodi usati in altri luoghi del Medioriente (Siria, Libia, Egitto) non sono funzionali allo scenario iraniano, oltre ad essersi dimostrati fallaci ove già impiegati.
Anche per questo motivo è un errore paragonare i moti di piazza dell’opposizione iraniana alle primavere arabe. In tutte le cosiddette “primavere” la motivazione religiosa ed anti-laicista era un pilastro della rivolta, qui invece assistiamo allo scenario opposto, dove gli oppositori protestano per cercare di abbattere un sistema di potere politico-religioso che già controlla un intero paese.
L’attenzione del governo iraniano affinché la rivolta non diventi insurrezione è massima. Le forze di sicurezza hanno finora evitato di impiegare le armi e non fornire nessun martire alla piazza.
Nessuno oggi può sapere cosa accadrà in terra di Persia, ma di una cosa siamo sicuri: non sarà una primavera araba e nessuno degli attori stranieri che dovesse un domani intervenire attuerà l’obamiano motto del “Leading from Behind”.
Le dittature governano con il pugno di ferro, hanno potere di vita e di morte, ma ciclicamente (se non evolvono in una forma di governo più condivisa) sono destinate ad implodere nel caos e nel sangue.
L’Iran di oggi è un paese che può evolvere verso una forma di governo non teocratica oppure implodere per mano delle folle.(...)

giovedì 17 ottobre 2013

L'ENI Si Muove Per L'Ambientalista Italiano

Segnalo questa notizia perché - indipendentemente dal merito della questione - mi pare importante il gesto; sembra anche l'ammissione esplicita di qualcosa che generalmente viene detto come "battuta" ("Il nostro vero Ministero degli Esteri? L'ENI"). Nell'incastro di visibilità e responsabilità che le multinazionali spesso si trovano ad "abitare", questo gesto di Scaroni ci dice anche - lo si sapeva già, ma è appunto reso un po' più esplicito - di una politica estera che non è fatta solo di feluche e soldati, ma anche - e soprattutto, in alcuni casi - di relazioni economiche; di contatti espliciti o impliciti. Di "nuovi" protagonisti. O meglio, di "nuove luci" che mettono tutto apparentemente più in vista. Apparentemente.

FMM

Per Cristian D’Alessandro, l’attivista di Greenpeace ancora in carcere nell’artico russo, si è mossa anche l’Eni, la compagnia petrolifera italiana che con la Russia intrattiene da decenni rilevanti rapporti d’affari. L’amministratore delegato del Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, ha raccolto l’invito dei parlamentari Pd, Sel e Sc (Anzaldi, De Petris e Molea) che nei giorni scorsi avevano chiesto il suo intervento. E mercoledì ha scritto al suo omologo di Gazprom, Alexey Miller, che ha incontrato proprio di recente a Parigi (leggi la lettera in inglese).
Gli ambientalisti di Greenpeace sono stati arrestati proprio per la loro azione dimostrativa nelle vicinanze di una piattaforma in mare della compagnia di Stato moscovita.(...)

sabato 28 settembre 2013

Così la Farnesina riorganizza i consolati sulle rotte energetiche (da ilFoglio.it)

Una volta era la via della seta. Oggi è la strada dell’energia e degli affari. Così, spinto anche da esigenze dettate dalla continua stretta sui conti pubblici, il ministro degli Esteri Emma Bonino ha cominciato a ridisegnare la mappa dei consolati italiani all’estero con un obiettivo: puntare sui paesi emergenti che non conoscono crisi economica e sono forti nel campo energetico e industriale. Per questo, a breve, nasceranno tre nuovi consolati: ad Ashgabat, capitale del Turkmenistan, a Chongqing in Cina e a Ho Chi Minh in Vietnam dove ormai ci sono più aziende che risaie. A presentare il piano alle commissioni Affari esteri di Camera e Senato è stata Marta Dassù, viceministro che sta seguendo il dossier in modo scrupoloso.
“Il nostro paese vive sull’estero, esiste un’Italia fuori dall’Italia, perché il nostro paese dipende fortemente dall’import di energie e materie prime e possiamo rilanciarci solo guardando ai nuovi mercati”, ha detto il numero due della Farnesina. Insomma basta alla vecchia logica dei consolati per vecchi emigrati, che oramai sono più che integrati con i paesi dove vivono, e più presenza verso quei paesi che crescono a velocità doppia o più che doppia rispetto al nostro. Così, visto che il capitolo a favore dell’emigrazione dopo i tagli della spending review avviata dal governo Monti l’anno scorso è ridotto a un miliardo e trecento milioni di euro, per far nascere le nuove strutture bisogna chiudere 14 sedi. E bisogna farlo a tappe spedite. Una prima tranche prevede la soppressione entro il prossimo 30 novembre di otto consolati. Cancellato quello di Tolosa in Francia, quello di Mons in Belgio, via quello di Spalato in Croazia e Scutari in Albania, così come quello ad Alessandria d’Egitto, di Sion, Neuchâtel e Wettingen in Svizzera. Su queste chiusure, tranne qualche voce sparuta, ad esempio su Spalato e Scutari, in teoria strategici in quanto i Balcani fanno parte delle politiche di sviluppo di molte aziende italiane, non si sono levate mozioni d’ordine.(...)

venerdì 5 ottobre 2012

Solidarietà "Obbligata" e Azione Diplomatica: la Via Stretta Ma Necessaria


Per quanto comprensibile sia la posizione della Turchia, la Nato non può farsi trascinare da Erdogan in un'avventura che rischia di infiammare il Medio Oriente con conseguenze imprevedibili. In questa occasione - come in tante altre che in politica estera si presentano periodicamente - vi è una sorta di contraddizione che dobbiamo saper gestire: quella fra la "solidarietà obbligata" ad un alleato, e la distanza politica - o addirittura dissenso - che vi possa essere con il relativo governo.

Volendo vedere una lontana analogia, spesso - molto più spesso di quanto si pensi - la tensione fra Stati Uniti e Israele ha raggiunto livelli molto alti, paradossalmente proprio perché alleati strettissimi che ragionavano - e ragionano - con stili di politica ( e di diplomazia) diversi.

Non possiamo lasciare la Turchia da sola; al tempo stesso sembra difficile potersi fidare pienamente di Erdogan e delle scelte che sta portando avanti in un'ottica che sembra indicare uno spregiudicato protagonismo, una volontà di ritrovare importanza e capacità di influenza, a spese di più tradizionali rapporti di amicizia (vd, per esempio proprio il legame oramai in crisi con Israele). 

Erdogan forse non vuole arrivare alla guerra aperta con la Siria, è comunque consapevole dei gravi rischi che un'opzione militare porta con sé, a partire dal vantaggio che ne avrebbero gli indipendentisti curdi; epperò è bene che gli alleati della Nato siano capaci di far sentire una solidarietà molto "prudente" e "convincente"; di fronte al mondo è necessario ribadire senza se e senza ma l'amicizia con Ankara; ma nei contatti che in queste ore si svolgono fra le capitali dell'Alleanza atlantica sarà il caso che sia fatta sentire chiaramente la ferma volontà di non andare oltre il limite. 

Questo può avvenire in molti modi: come si scriveva poche ore fa, un "braccio di ferro controllato" può essere anche durissimo e prevedere battaglia, ma comunque essere limitato nei suoi effetti, se si è bravi a gestirlo... Ma è una situazione difficilissima.

Attenzione anche a proposte come zone-cuscinetto e simili: teoricamente "quadrano il cerchio" fra interventismo necessario e "sforzo limitato", ma sono sempre insidiose, e in realtà spesso sono contrassegnate semplicemente da "guerra invisibile".

Come ripeto dai tempi dell'assurda guerra in Libia, la guerra bisogna saperla fare. Altrimenti la cinica diplomazia, fredda e calcolatrice, deve ancora avere la meglio.
Per il bene di tutti noi.

martedì 19 luglio 2011

In Ricordo Di Boris Biancheri

Un articolo di Boris Biancheri è sempre stato importante per chi si interessa di politiche internazionali; le doti dell'intellettuale sono ben raccontate in poche righe da Mario Calabresi al link che vi segnalo più sotto.

Qui ripropongo gli articoli che in alcune occasioni ho citato o segnalato; il più bello mi pare sia quello scritto nell'imminenza dell'elezione di Obama (Mr.President e il mondo): una lezione di politica e di stile al tempo stesso; il ricordare a tutti - parlando d'America forse anche per parlare di noi - che la politica estera di un paese non può essere "progettata" più di tanto. 

Il campo delle relazioni internazionali è dominato anche dal caso, che costringe spesso ad abbandonare progetti, a ricostruire le proprie idee, a rimettere mano a ciò che si era previsto fare.

Per questo - aggiungo a bassa voce - le relazioni internazionali sono anche scuola di laicità, preziosa oggi più che mai.

Francesco Maria Mariotti



(...) L’Italia si conferma dunque come un paese in cui il risultato delle prossime elezioni amministrative detta non solo il comportamento del governo negli affari correnti ma anche le linee, o quanto meno il linguaggio, della nostra politica estera. Si dirà che anche in Germania, su gravi temi economici e ambientali, è successo altrettanto: ma certo con meno andirivieni e più serietà.
Quanto al futuro, imminente o lontano che sia, non vi è dubbio che un errore è stato commesso dagli alleati fin dall’inizio, quando si è scambiata la crisi libica, che ha carattere verticale perché sono l’est e l’ovest del paese che vi si confrontano, con le insorgenze del tipo egiziano o tunisino che hanno avuto carattere orizzontale e hanno interessato senza fratture le rispettive società. Per questo, predisporre oggi e comporre domani il futuro assetto della Libia sarà ancora più difficile che vincere senza combatterla quella che è una guerra intestina ma che abbiamo tutti fatto finta, per semplicità o per interesse, fosse una sana, autentica, democratica rivolta popolare.
(...) Credo che il limite estremo della banalizzazione del suicidio sia stato raggiunto con l’attentato compiuto giorni fa nel Belucistan e con le polemiche che vi hanno fatto seguito. Sulla finalità di questo nuovo episodio di morte vi sono, come sappiamo, interpretazioni diverse. Vi è chi lo mette a carico dell’oppressione che l’Iran eserciterebbe da tempo sulle popolazioni del Belucistan e sullo scoppio improvviso di un clamoroso atto di protesta; vi è chi vede in esso una fase del confronto politico in atto in Iran dopo le ultime elezioni parlamentari, dando così per scontato che un attentato suicida sia oggi una forma corrente di lotta politica. Ancor più sconcertante è la versione che ne danno le autorità iraniane, secondo cui l’attentato è il prodotto dell’azione dei servizi segreti americani (o forse pachistani su suggerimento americano) nel braccio di ferro che oppone l’Iran all’Occidente. L’attentatore sarebbe stato in questo caso reclutato per l’occasione, esattamente come si acquista un prodotto di cui si ha bisogno su un mercato di potenziali suicidi. Gli attentati terroristici e l’immenso fiume di sangue che essi generano sono la via che la modernità ha scelto per proseguire le guerre del passato ed esprimere il proprio bisogno di violenza. L’apparente facilità con cui si reclutano gli attentatori suicidi ne è l’aspetto più inspiegabile e più inquietante. 
(...) Questa mi sembra sia stata la spinta che ha portato tanti giapponesi, soprattutto tra i giovani, a una scelta di cambiamento che a noi parrebbe quasi naturale ma che nella storia politica del Giappone ha un carattere epocale.
Cosa dobbiamo aspettarci dal Giappone di Hatoyama e quali ripercussioni avremo nelle relazioni internazionali? Il Manifesto programmatico del Partito democratico non ha in sé nulla di rivoluzionario. Vi è un accenno di solidarietà sociale, vi è qualche riserva verso la globalizzazione e il libero mercato portato alle estreme conseguenze, vi si trova frequentemente e con diverse accentuazioni la parola fraternità. Una parola, tuttavia, alla quale sappiamo possono darsi diversi significati. Sul piano delle relazioni esterne si riafferma la solidità del rapporto nippo-americano, ma si mette l’accento sulla necessità di una maggiore integrazione asiatica, anche per ciò che riguarda la creazione di una futura moneta unica. Nel cautissimo linguaggio politico giapponese, queste parole sembrano indicare un’apertura verso nuovi equilibri nel continente, ma senza colpi di scena e con molta gradualità.
Quanto al velo di socialdemocrazia di cui il Paese si ammanta, esso sembra leggero e trasparente. Ma lo abbiamo già detto: più dei contenuti che il cambiamento porterà con sé, è il cambiamento stesso che oggi celebriamo. 
(...) La realtà è che la politica estera, anche se si tratta di una potenza globale come lo sono gli Stati Uniti, non può essere programmata in anticipo se non in termini tanto generali che non significano quasi più nulla. La guerra al terrorismo e l’intervento militare in Iraq non erano nei programmi di Bush più di quanto la guerra del Kosovo lo fosse in quelli di Bill Clinton. Bush, anzi, iniziò il suo mandato concentrandosi su problemi interni e mantenendo, sul piano internazionale, le iniziative dell’amministrazione precedente. Poi giunse l’11 settembre a sconvolgere gli Stati Uniti e il mondo e a dare della guerra al terrorismo un ruolo centrale condiviso da tutti. Ricordate il «siamo tutti americani» di quei momenti? Da lì nacque l’azione militare in Afghanistan e, dal successo di quella, l’operazione Iraq, fallimentare nella gestione della pace ancor più che della guerra.

Un governo può avere un programma di politica fiscale, di politica sanitaria, di espansione dell’economia o di riduzione della spesa pubblica perché sa di poter perseguire i suoi programmi presentando al proprio Parlamento delle leggi che, se approvate, conducono a questi risultati. Non è in suo potere programmare in termini altrettanto precisi la politica estera che è quasi sempre il frutto di una reazione ad avvenimenti estranei alla volontà di chi governa, di cui non si possono scegliere i tempi né, di solito, prevedere tutte le conseguenze, e di fronte ai quali occorre spesso fare scelte di intuito e improvvisazione.
La stessa dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, la scomparsa di un universo contro il quale l’America aveva lottato per decenni, colse il mondo di sorpresa e trovò gli Stati Uniti incapaci di contribuire a guidarla. La crisi in Georgia nello scorso agosto ha rischiato, per un eccesso di reazione da parte americana, di sconvolgere i propositi europei di pianificare laboriosamente dei nuovi rapporti con la Russia. Il Presidente degli Stati Uniti ha, in materia di politica estera, una grande autonomia. Il nostro futuro dipenderà più dalle sue doti di carattere che dalla bontà dei suoi programmi, più dal temperamento o dall’equilibrio che dalla forza della ragione, più dal caso che dalla ideologia. Speriamo bene.