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martedì 8 marzo 2022

in origine la donna era veramente il sole (Laura Imai Messina)

Dalla pagina Facebook di Laura Imai Messina 
https://www.facebook.com/lauraimaimessina.writer

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”In origine la donna era veramente il sole. Una persona autentica. Adesso la donna è luna. Luna dal volto deperito, di malata, brilla di luce altrui, da altri dipende la sua vita […]”
Hiratsuka Raichō

Ne scrissi tempo fa, di come nasce da una donna l’impero del Giappone. È la dea Amaterasu, è la luce senza la quale ”le pianure del sommo cielo e le terre immerse nelle pianure di giunco” cadono in rovina. Nessuno può prescindere da lei.

Non più allora un dio ma una dea, che domina il mondo e tutte le creature. Lei ha delicatezza e saggezza femminile, ma non per questo manca di forza e determinazione, frecce in spalla, piede scalpitante. 
Così, quando il fratello Susanowo con il suo comportamento oltraggioso la spaventa e lei si rifugia in una grotta, il mondo intero subisce una notte senza fine, malattie, un decadimento senza alternative. Tutte le creature della terra e gli altri dei si affollano fuori dalla grotta per convincerla a uscire, escogitano un modo per tirarla fuori e riportare così l’universo all’equilibrio. Sarà il riso, l’oscenità di un gioco che fa del corpo femminile un’esplosione di vita, a muovere la sua curiosità e a farle fare capolino dalla grotta. Questa sarà chiusa, il fratello Susanowo punito in modo esemplare e Amaterasu, “grande sovrana e sacra” tornerà a regnare. 

Così è narrato nel Kojiki, prima opera relativa alla storia giapponese che raccoglie racconti mitologici e di fondazione del paese.

Così, quando secoli più tardi, Hiratsuka Haru, in arte Hiratsuka Raichō (1886 – 1971), una delle figure più influenti del movimento femminista giapponese, dichiara come la donna in principio fosse il sole ma come essa fosse nel tempo divenuta invece luna, comprendiamo il significato profondo di quelle righe piene di passione. 

🌿Un augurio oggi a tutte le donne, affinchè ognuna cresca libera, libera di essere se stessa, libera di cambiare idea, libera di scegliere. E se a qualcuno viene la tentazione di dire che "è ormai ovvio", consiglio generosità e pazienza. Perchè ci sono ancora tante donne nel mondo che vedono nel loro essere nate tali una limitazione a quella stessa libertà.

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=509332480556044&id=100044378891289

venerdì 13 settembre 2019

Tommaso Padoa-Schioppa, Ciascuno nel mondo (Corriere della sera, 23 settembre 2001)

Tommaso Padoa-Schioppa, Corriere della sera, 23 settembre 2001

"Ciascuno nel mondo

Parte della risposta ai tragici fatti dell’ 11 settembre dev’ essere un intrepido e assorto ritorno al quotidiano operare, alla fiducia a scuola e in Borsa, alle normali conversazioni in casa e in ufficio. La capacità di liberarsi dalla minaccia del terrore che ha improvvisamente colpito il mondo dipenderà anche da come ciascuno, nel mondo, vivrà questo ritorno. Ciascuno nel mondo, perché miliardi di persone di tutte le età hanno visto le immagini del disastro, centinaia di milioni conoscono New York e ne hanno visitato le torri.

In quello stesso martedì di settembre, nei minuti e nelle ore che seguirono l’ attacco, in innumerevoli sedi pubbliche e private, dentro e fuori gli Stati Uniti, ci si riunì sgomenti, non sapendo che fare. Si decise che «il lavoro continua», business as usual. Per i più non era insensibilità, ma bisogno di una norma sicura, dunque di normalità.

Lavoro, abitudini, normalità hanno subìto l’ urto di eventi orridi e discriminanti che ognuno ricorderà per sempre. Sappiamo, stiamo poco per volta capendo, che quegli eventi porteranno cambiamenti anche nel vivere quotidiano. Né il prevalere del terrore né la sua sconfitta lascerebbero immutate le nostre abitudini. Tanto meno le lascerà immutate la lotta contro il terrore, di cui ora non conosciamo né i tempi né l’ esito.

Del vivere quotidiano, della normalità, l’ attacco terroristico è stato ferita e tradimento. Normale era la giornata di lavoro cui si accingevano le migliaia di persone che sono morte. Normale era la vita in cui i terroristi si erano mimetizzati per anni in attesa del giorno dell’ attacco. «Normali», si disse mesi fa, erano Omar ed Erika prima e dopo l’ uccisione di mamma e fratello.

Il quotidiano è fatto di abitudini lente a cambiare. In ciò sta il suo valore, perché in-corpora saggezza e civiltà sedimentate a lungo, entrate nelle fibre di ciascuno. Le abitudini sono e danno forza. Ai bambini danno fiducia; agli adulti libertà. Il lavoro è necessità e fatica; ma è anche sicurezza e riflessione. Nel ritorno al quotidiano vi sono consolazione e sostegno, ma anche difesa e riaffermazione della saggezza e della civiltà.

Il ritorno al quotidiano diventerà una risposta intrepida se sapremo evitare l’ insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l’ indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano. Dovremo invece fare il possibile perché il pensiero di ciò che è avvenuto, la ricerca delle cause, la volontà di fare fronte impregnino il nostro quotidiano, facendone riconoscere insieme il valore e le mancanze, dunque le correzioni necessarie.

Quando, durante un gioco, Ignazio di Loyola e alcuni suoi compagni si chiesero come avrebbero speso quell’ ora se avessero appreso che era l’ ultima della loro vita, chi disse che si sarebbe ritirato a pregare, chi che sarebbe corso dai suoi cari o avrebbe donato ogni suo bene ai poveri. Ignazio disse: continuerei questo gioco. (...)"

http://www.tommasopadoaschioppa.eu/mondo/ciascuno-nel-mondo.html

(link verificato in data 13 settembre 2001)

lunedì 10 giugno 2019

Hong Kong contro la legge sull'estradizione (ilPost)

Gli oppositori della legge, tra cui molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani, temono che le nuove regole sull’estradizione espongano ancora di più Hong Kong al problematico e illiberale sistema giudiziario cinese, e ridurranno la sua indipendenza. In particolare temono che la legge possa legittimare i rapimenti in città da parte delle autorità cinesi (ci sono stati vari casi negli anni), oppure rendere il governo di Hong Kong più vulnerabile alle richieste di quello di Pechino, anche se dovute a motivi politici. Inoltre un maggior potere della Cina sul sistema giudiziario di Hong Kong potrebbe spingere molte persone a non manifestare le proprie critiche al governo.

https://www.ilpost.it/2019/06/10/proteste-hong-kong-estradizione/

domenica 2 giugno 2019

Festa della Repubblica: il discorso di Mattarella

Buona festa della Repubblica, di seguito un estratto del discorso di ieri del Presidente Mattarella.

"(...) Abbiamo appena celebrato in ventotto Paesi d’Europa un grande esercizio di democrazia: la elezione dei deputati al Parlamento Europeo, a conferma delle radici solide di una esperienza che stiamo, gradualmente, costruendo da ormai sessantadue anni. In realtà sessantotto dal momento dell’avvio del primo organismo comunitario, la Comunità del carbone e dell’acciaio.

L’Italia è stata guidata, in questo percorso, dalle indicazioni della sua Costituzione; dalla consapevolezza di una sempre più accentuata interdipendenza tra i popoli; dalla amara lezione dei sanguinosi conflitti del ventesimo secolo. Soltanto la via della collaborazione e del dialogo permette di superare i contrasti e di promuovere il mutuo interesse nella comunità internazionale.

La Repubblica italiana, con l'assunzione di responsabilità nel contesto globale, ha contribuito, per la sua parte, alla definizione di modelli multilaterali e di equilibri diretti a garantire universalmente pace, sviluppo, promozione dei diritti umani.

Anche per questo non possiamo sottovalutare le tensioni che si sono manifestate, e si manifestano, provocando conflitti e mettendo pesantemente a rischio la pace in tanti luoghi del mondo.

Va ricordato che – in ogni ambito - libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate fra le identità, con chi fomenta scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il pluralismo.

I valori delle civiltà e delle culture di ogni popolo contrastano in modo radicale con quella deriva e fanno, invece, appello a salde fondamenta di umanità, per confidare nel progresso. (...)"

https://www.quirinale.it/elementi/30111

domenica 28 aprile 2019

Intervista a Mario Monti. Politici cinici e ignoranti, così l’Europa non va lontano (Eco di Bergamo)

"(...) Come giudica il contrasto (se esiste) tra establishment ed opinione pubblica e il ruolo della tecnocrazia nel rapporto con la politica?
«L’establishment, inteso come classe dirigente o élite, esiste in ogni Paese, con ogni sistema politico. Il problema si ha quando l’élite si consolida indipendentemente dai meriti ed è difficile, anche per i meritevoli, entrare a farne parte. Fa difetto, allora, la “circolazione delle élite”. La società è allora iniqua, l’economia stagnante. Questo è, per l’Italia, un tema drammatico. Agli infuocati attacchi all’élite si accompagna curiosamente, soprattutto nella sinistra e nei movimenti che si dicono “populisti”, la mancanza di interventi che servirebbero a stimolare la circolazione delle élites : l’insistenza sul merito, la tassazione progressiva (in Italia ora si tende a preferire la flat tax), un’imposizione sulle successioni del livello riscontrabile in altri Paesi (in Italia è più bassa), una modesta ma ricorrente imposta patrimoniale (anatema, in Italia). Finiremo così per avere un’élite sempre più sclerotica e che non si rinnova, un odio sempre maggiore per le élites, una politica che disdegna sempre più le competenze».
E il rapporto tra politica e tecnocrazia?
«A me sembra che la competenza tecnica (“tecno”) possa diventare “tecnocrazia” in due casi: se soggetti diversi dai rappresentanti politici eletti dal popolo “prendono” il potere, ad esempio con un colpo di stato ; oppure se i rappresentanti politici, in una determinata situazione, decidono liberamente di ricorrere a qualcuno che ritengono in grado, per competenza, credibilità, forse anche per la sua estraneità ai partiti politici, di esercitare i poteri di governo meglio di come essi, nelle circostanze, sarebbero in grado di fare. Allora gli conferiscono, con la designazione o con un voto di fiducia, il potere di governare, creando essi una “tecno-crazia”. A mio parere, la prima forma di tecnocrazia va rigettata completamente, in quanto estranea alla democrazia; quanto alla seconda, se vi si ricorre è segno che la politica è in crisi grave. L’ideale, sempre secondo me, è che il processo di selezione dei politici valorizzi anche le competenze, per farne dei politici più consapevoli e più capaci di dialogare con i “tecnici”, che è comunque utile consultare nel processo delle decisioni politiche».
«I nazionalisti lasciati allo stato brado ci porterebbero alle guerre»: l’ha detto lei. È un rischio reale? È vero che, contrariamente a ciò che molti credono, indeboliscono il Paese che li alimenta?
«“Le nationalisme c’est la guerre!” Così François Mitterrand concluse il suo ultimo discorso al Parlamento europeo nel gennaio 1995, il primo discorso che ascoltai come neo-commissario europeo. Aveva ragione. I movimenti nazionalisti dei vari Paesi europei che cos’hanno in comune ? La volontà di ridimensionare, forse azzerare, i poteri di Bruxelles. Al di là di questo obiettivo, se per un momento supponiamo che l’abbiano conseguito, che cosa avrebbero in comune? Nulla, solo la volontà che la nazione di ciascuno prevalga sulle nazioni degli altri, foss’anche con l’uso della forza. No, grazie. Per questi nobili ideali, abbiamo già avuto decine di milioni di morti. Nel frattempo, ogni Paese sarebbe più debole, in mancanza di un’Europa più forte. Più debole verso le eventuali prepotenze di questo o quel Paese europeo. Più debole verso le potenze extraeuropee, politiche, militari o anche soltanto tecnologiche». (...)"

mercoledì 24 aprile 2019

"Liberi di ricordare" (Vittorio Foa, 2001)

Sempre bella da rileggere, questa intervista di Vittorio Foa (2001)
Francesco Maria Mariotti

"(...) "La Liberazione può essere vista e vissuta in modo diverso. Dipende da tanti fattori: l'età, l'ambiente, le radici culturali, le idee. In fondo, non bisogna guardare a questa data solo come la Liberazione dal fascismo e dal nazismo. Quel giorno segna anche la fine di una guerra drammatica, tragica. E per noi quella fu una svolta storica: con la fine del nazifascismo conquistavamo l'Europa, entravamo nel consesso degli altri grandi paesi europei. Il raggiungimento di questo traguardo, la soddisfazione per avercela fatta, non la posso dimenticare e molti probabilmente conservano lo stesso ricordo che ho io. Ma oggi non potrei fare davvero nulla per sollecitare la memoria di tutti. E del resto non voglio farlo. Come possiamo imporre la storia? Il ricordo non va imposto". (...)

Lei cosa farà oggi?
"La mia salute non è buona, ho dei gravi problemi alla vista. Starò in silenzio, preferisco ascoltare".


E cose le piacerebbe sentire in questo giorno?
"Mi piacerebbe ascoltare delle parole di verità. La verità. Ognuno deve esprimere la propria posizione personale. Ma non raccontino bugie, non ne posso più di certe palle clamorose. Le idee politiche non devono essere costringenti. Voglio delle idee libere. Dicano la verità, per favore"[bb].

Ci si lamenta perché i ragazzi non sanno molto della Liberazione. 
"Come fanno a ricordare una cosa di più di 50 anni fa? Se hanno voglia di sentire la storia di quei giorni, bisogno raccontargliela assolutamente. E bene. Altrimenti... Le ripeto: non credo che il ricordo vada imposto. Il ricordo più è libero e più vale. E questa è anche l'unica strada per farlo diventare un valore condiviso da tutti".

(25 aprile 2001)"

sabato 2 febbraio 2019

Cambio di scena in Venezuela?

Cambio di scena in Venezuela? Lo speriamo in tanti, la situazione in quel paese è ormai da anni insopportabile da tutti i punti di vista. Sotto l'aspetto morale e politico il cambio di governo e di regime è necessario ed auspicabile e deve trovare un appoggio esterno il più ampio possibile. 

Unico scrupolo sono - come sempre in politica - le conseguenze pratiche, operative, sociali: fare in modo che ci sia il minor spargimento di sangue e la maggior condivisione possibile di un nuovo assetto istituzionale e politico.

Naturalmente un semplice cambio - sperando ci sia - non basterà, i momenti di transizione sono delicatissimi e vanno sorvegliati e accompagnati: la comunità internazionale dovrà essere co-protagonista di un percorso che riporti il Venezuela alla libertà, al benessere, alla dignità; la strada è ancora molto lunga, speriamo che in queste ore si compia almeno il primo passo.

FMM

CARACAS. Il primo colpo di scena di una giornata che le opposizioni a Maduro annunciano come storica, arriva di buon mattino e, come sempre, via Twitter. A rivolgersi attraverso il social network direttamente al popolo venezuelano è il generale di divisione dell’aviazione venezuelana, Francisco Yánez, direttore della pianificazione strategica: “Buongiorno popolo del Venezuela mi rivolgo direttamente a te per dire che disconosco l’autorità dittatoriale di Nicolás Maduro e riconosco Juan Guaidó come presidente incaricato dall’assemblea nazionale”. (...)

mercoledì 29 agosto 2018

Europa Terra Di Pace

(Con riferimento alle polemiche di queste ore)


Se proprio dovessimo schierarci, mi verrebbe da dire "con Merkel e con la Germania"; ma sarebbe meglio dire con l'Europa come economia sociale di mercato. 

No ai nazionalismi, ma no anche ai leaderismi che alla fine aprono anche involontariamente la strada ai populismi.

Europa terrà di libertà e solidarietà, non di sfide fra stati e leader politici.

Europa terra di pace.

Francesco Maria Mariotti

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vd. anche i post riguardanti in modo più o meno diretto l'economia sociale di mercato e in particolare quello su Ludwig Erhard e l'Economia Sociale di Mercato

domenica 31 dicembre 2017

Prepararsi Con Prudenza. In Niger E In Libia. E In Iran.

Buona fine anno, e  buon nuovo inizio. 
Brevi riflessioni, da "non-esperto", su alcune questioni di politica estera che si stanno imponendo alla nostra attenzione di questi giorni.

Non è semplice valutare quanto sta succedendo in Iran; la linea di demarcazione fra conservatori e progressisti non è di facile lettura in una realtà come quella, e in uno scenario così in movimento, tanto che queste proteste sembrano essere nate sotto un segno politico ultraconservatore, per poi "sfuggire di mano".

Quel che forse si può azzardare in ogni caso è che se si dovesse estendere la protesta l'Iran potrebbe avere maggiori difficoltà a gestire il suo ruolo internazionale, teoricamente in questo periodo in via di affermazione. Non è una sorpresa (le tensioni sotto la superficie non sono una novità nella storia recente del paese), ma di questi tempi è il caso di sottolinearlo perché il nuovo protagonismo di Teheran sembra non avere il "respiro lungo" che sarebbe necessario. 

Se sono moti di "libertà" (ma la situazione non è mai chiarissima, e dobbiamo essere massimamente prudenti), la comunità internazionale dovrebbe far sentire la sua voce; ma sempre con uno sguardo al dopo, alle possibili conseguenze di un regime in difficoltà.

Comunque situazione molto interessante e stimolante: delicata e da approfondire, senza farsi incantare da "teologie/filosofie della storia improvvisate", ma senza timore di agire, per vie ufficiali o più nascoste, se e quando necessario.

La regola è sempre quella, in politica estera, almeno per chi come noi non è propriamente una superpotenza militare ed economica: cadere sempre in piedi, giocare su più tavoli, scegliere e lanciarsi se necessario, ma mai abbandonarsi. Difendere il proprio onore, se ha senso la parola (in politica ha un senso particolare, diciamo), ma senza perdere inutilmente soldi e vite umane.

Vale per l'Iran, ma vale ancora di più per altre partite che interessano l'Italia: Niger e Libia in primis, collegate forse più di quanto appare.

Cosa andiamo a fare in Niger? E sarà veramente una missione "no-combat" come sembra esser stata delineata? e quali i rapporti con la Francia in questo scenario? Otteniamo qualcosa in cambio del nostro sforzo in Niger, magari sul fronte libico, che sta presentando criticità sempre maggiori (prepariamoci a qualche spallata pesante...)?

E' un cambio di prospettiva "radicale", per l'Italia, che tenta di giocare una partita più "europea" (si vedano le riflessioni di Pasotti più sotto)? Ma è possibile cambiare realmente la politica estera di un paese?
Potrebbe essere, ma io mi augurerei anche qui un po' più di "cinismo" da parte nostra, se vogliamo anche come cittadini osservatori: dobbiamo essere capaci di non rimanere soli, se per caso la situazione libica in particolare dovesse peggiorare. Dobbiamo essere capaci di coniugare - ancora - europeismo non di maniera e atlantismo; sì, atlantismo. Con la nostra diplomazia originale, con la doppiezza inevitabile che ci connota, comunque. Al di là dei risultati elettorali, che non potranno cambiare la nostra posizione nel Mediterraneo, e le nostre necessità.

Se faremo l'Europa unita anche in politica estera, la dobbiamo fare con piena consapevolezza dei costi che ci saranno e che peseranno su tutti noi; e senza dimenticare che sarà sempre un'Europa delle nazioni, degli Stati: con tutte le contraddizioni inevitabili di questa strana architettura, che dovrebbe rendere più coerenti interessi spesso contrapposti. 

Prepariamoci con prudenza. 
Buona fine anno, e  buon nuovo inizio.

Francesco Maria Mariotti

(Chi scrive è dipendente del Consiglio regionale della Lombardia; naturalmente le opinioni di questo post sono espresse a titolo puramente personale)


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"(...) Se da un lato l’operazione nel Sahel rappresenterà un test per le capacità della tanto sbandierata difesa europea, dall'altro vedrà inevitabilmente confrontarsi interessi ed egemonie.

I francesi  ”giocano in casa” non solo perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi ma perché dall'intervento contro i jihadisti in Malì nel 2012 la Francia ha mantenuto una consistente presenza militare nella regione combattendo non senza perdite i gruppi jihadisti.


L’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche, inclusa quella prioritaria per l’Italia nel deserto tra Niger e Libia, rendono quasi certo che l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà guidata dai francesi.

Grazie ai contingenti europei, Parigi potrà ridurre l’attuale esposizione nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli) sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense.

Gli Usa conducono già da tempo nel Sahel missioni in gran parte segrete impiegando aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger con basi a Ouagadougou, Niamey e Agadez. (...)

La Germania ha già donato un centinaio di veicoli alle forze del Niger (le cui risorse minerarie oggi sfruttate per lo più da francesi e cinesi, potrebbero far gola a Berlino) e potrebbe assegnare alla nuova alleanza il contingente attualmente presente in Malì sotto la bandiera dell’Onu o nuove truppe considerato che Berlino ha una propria base logistica all’aeroporto di Niamey (dove sono presenti anche una base americana e una francese. 

Quale ruolo per l’Italia

 Il ruolo dell’Italia (più volte chiesto dal Niger negli anni scorsi come Analisi Difesa raccontò nel reportage Roccaforte Niger)  dipenderà dalla determinazione di questo e del prossimo governo a inviare un contingente significativo in Niger e soprattutto ad autorizzarne l’impiego in combattimento oltre che per addestrare le forze nigerine. Attività quest’ultima che comincerà tra poche settimane come ha detto il premier Paolo Gentiloni che ha collegato la missione al ritiro di forze oggi in Iraq. (...) 

Una missione senza senso?

 In termini strategici vale poi la pena chiedersi se un simile dispiegamento abbia attualmente un senso, soprattutto se effettuato in condizioni di subalternità rispetto ai francesi che continuano ad essere (dal 2011) i più importanti competitor dell’Italia rispetto alla situazione in Libia.

La missione in Niger rischia infatti di rivelarsi utile a ridurre l’impegno e i costi di Parigi nell’operazione Barkhane senza però scalfirne la leadership di Parigi nel Sahel mentre circa il contrasto ai flussi migratori illegali non va dimenticato che i trafficanti potrebbero optare per rotte alternative, aggirando il dispositivo militare italiano grazie alle le piste desertiche che attraversano il confine algerino per poi sconfinare in Libia a sud di Ghat, area in cui da alcuni mesi è stata registrata la presenza di miliziani dello Stato Islamico.

In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli.

Si tratta dell’unica azione che scoraggerebbe le partenze da tutta l’Africa garantendo che nessun immigrato illegale potrà mai raggiungere i porti italiani.  In altre parole non ha alcun senso inviare truppe e mezzi per bloccare il confine tra Libia e Niger se poi le navi militari italiane ed europee continueranno a sbarcare in Italia i clandestini riusciti a salpare dalle coste libiche."


"(...) Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall'unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell'evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell'aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo. 

E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion… La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei? 

Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista."


"(...) Eppure sembra proprio questa la strada scelta dal governo Gentiloni: un cambio di linea sottaciuto come da stile del personaggio ma quasi rivoluzionario nella tradizione italiana post conflitto mondiale, un atto di realismo in un momento in cui è venuta a mancare la sponda del liberalismo internazionale americano anche solo nella sciagurata declinazione isolazionista di Barak Obama. Con una America che pensa a se stessa, che sceglie manicheisticamente amici e nemici in una votazione Onu su Gerusalemme Capitale forse voluta più da Washington (per contrastarla e per definirsi) che dagli arabi (costretti a sostenerla), gli spazi per la tradizionale diplomazia militare atlantica italiana si sono ridotti al minimo. Con il Quai d’Orsay invece abbiamo una marea di dossier aperti che riguardano in Libia la rottura tra Tripolitania amica (se ben pagata) e Cirenaica russofrancese (...)


"(...) Haftar s’è costruito un ruolo via via crescente, creando i presupposti per emendare alcuni aspetti del Lpa. Il maresciallo di campo s’è preso credibilità con le armi e col sostegno diplomatico russo (soprattutto), per questo molti governi occidentali – tra cui quello italiano, particolarmente coinvolto nella soluzione della crisi – lo hanno iniziato a trattare come un pezzo imprenscindibile per chiudere il puzzle. Il delegato Onu Gassam Salamé ha cercato negli ultimi mesi di modificare l’accordo del 2015, anche inserendo aspetti a lui favorevoli, ma non si è arrivati a un punto di incontro. D’altronde la deadline del 17 si stava avvicinando, e lo stesso Haftar ha dichiarato: “Le forze armate libiche (chiama così la milizia che comanda, ndr) non saranno mai sotto la guida di alcun corpo non eletto (riferendosi al Gna, ndr), ma risponderanno sempre agli ordini del popolo libico”, ed è un chiaro messaggio sul fallimento di Serraj,  un invito a lasciare. Ora Serraj e il suo zoppo Gna sono sotto la proroga temporanea del supporto onusiano ed europeo (qualche giorno fa anche gli Stati Uniti hanno ribadito la fiducia in Serraj, sebbene pure Washington abbia intavolato dialoghi anche con Haftar). Ma il punto attuale è lo stallo, perché nessuno dei due centri di potere può prevaricare l’altro. Salamé ha così proposto nuove elezioni (da tenersi già in primavera?). Serraj non ha più forza (se non dopo un mandato popolare) ma “il suo rivale basato a Tobruk è ancora più disperato. Entrambi i governi hanno poco da offrire per alleviare la miseria quotidiana delle persone che dovrebbero servire, e non è chiaro se Haftar accetterà le elezioni nella Libia orientale, che controlla”, scrive su Al Monitor l’accademico libico Mustafa Fetouri. Fetouri sostiene che l’idea di Salamé di usare le elezioni come elemento di stabilizzazione in questa fase in cui la crisi non vede sbocchi può essere buona, “ma tenere le elezioni in tali circostanze è una grande scommessa”: in Libia c’è una crisi di sicurezza (l’esplosione all’oleodotto è un ultimo passaggio, qualche giorno fa, per esempio, è stato rapito e ucciso da ignoti il sindaco di Misurata), il sud del paese è un territorio ancora senza legge dove le forze costiere non si allungano e comandano gruppi etnici locali (da poco riavvicinati sotto egida Onu), manca una costituzione, manca l’attività politica democratica."


"(...) L’Arabia Saudita non è in grado di condurre direttamente una guerra contro l’Iran e nel caso accadesse può farlo soltanto con il decisivo sostegno americano. E questo nonostante le spese di Riad per la difesa siano state nel 2016 di circa 64 miliardi di dollari e quelle iraniane di 12. Anche i dati dell’economia sono nettamente a favore dei sauditi che vantano un Pil di 650 miliardi di dollari mentre gli iraniani intorno ai 400 miliardi di dollari. Per non parlare della produzione petrolifera: quella saudita è più che doppia rispetto a quella iraniana. Il confronto tra le due economie può diventare ulteriormente penalizzante per l’Iran se gli americani decidessero di imporre nuove sanzioni a Teheran.

I dati sulla potenza militare pendono dal lato iraniano per numero di soldati e in alcuni settori, ma i sauditi possono contare su un arsenale tecnologicamente più avanzato. Eppure i sauditi, che pure godono dell’appoggio aereo degli americani, non riescono neppure a battere la resistenza degli Houthi sciiti zayditi dello Yemen che di recente non solo hanno lanciato un missile vicino a Riad, con il probabile aiuto degli Hezbollah libanesi come addestratori, ma hanno sanguinosamente sfidato Riyadh facendo fuori immediatamente l’ex alleato ed ex presidente Abdullah Saleh quando ha annunciato di volere aprire negoziati con l’Arabia Saudita.

La guerra tra Riad e Teheran resta quindi sempre una guerra per procura e si potrebbe dire anche per fortuna: basti pensare a cosa potrebbe significare in termini di rifornimenti petroliferi sui mercati vedere in fiamme i terminal del Golfo.  (...)

Dopo la guerra irachena nel Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due paesi erano migliorati durante la presidenza di Hashemi Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come un tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione il fronte sunnita e i sauditi che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione anti-iraniana e anti-Assad.

L’idea dei sauditi era quella di spezzare la cosiddetta Mezzaluna sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.

Questo è il motivo strategico per cui gli iraniani considerano le loro frontiere reali mille chilometri più avanti rispetto a quelle ufficiali sullo Shatt el-Arab, come ha del resto dichiarato pubblicamente il generale Qassem Soleimani

La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houthi sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e al fronte sunnita, ha perso questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel “cortile di casa”, in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.

Per questo lo scontro si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante."


"(...) Alcuni (ma non tutti) sostengono che le proteste del primo giorno siano state organizzate dagli ultraconservatori, cioè quelli che fanno riferimento alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, l’autorità politica e religiosa più importante del paese. L’obiettivo, dicono alcuni analisti e giornalisti, sarebbe stato quello di indebolire il governo di Rouhani, da sempre in competizione con lo schieramento di Khamenei. Non ci sono prove certe che dimostrino questa tesi, ma Mashhad è una città dove gli ultraconservatori sono molto forti: dove per esempio è molto popolare Ibrahim Raesi, il candidato conservatore che fu battuto da Rouhani alle ultime elezioni presidenziali, a maggio, e che in passato accusò il governo di avere fallito nel mantenere le sue promesse di ripresa economica. Al di là di come sia iniziata tutta questa storia, nel giro di un giorno è andata fuori controllo. Le proteste si sono diffuse in tutto l’Iran e sono diventate qualcosa di diverso da semplici rivendicazioni economiche. Si sono cominciati a sentire slogan contro l’intero sistema della teocrazia islamica in vigore in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e contro le decisioni delle élite politiche sia in politica interna che in politica estera. Per esempio si è urlato contro l’appoggio dell’Iran al gruppo estremista sciita Hezbollah e al presidente siriano Bashar al Assad. A Isfahan, città dell’Iran centrale conosciuta per il suo famoso “ponte dei 33 archi“, si sono sentiti i manifestanti urlare direttamente il nome di Khamenei, una cosa piuttosto inusuale. (...)


"Dopo due giorni di decise proteste contro il carovita in diverse città iraniane, oggi nel centro del Paese, a Doraud, nella provincia di Loerstan, si sono registrate le prime vittime: secondo quanto riferiscono fonti locali, almeno sei persone sono state uccise e diverse altre ferite quando la Guardia Repubblicana ha sparato per disperdere una manifestazion e; mentre a Teheran alcune centinaia di studenti sono scesi nelle vie intorno all’università unendosi alle contestazioni e nelle strade del Paese sono state attaccate banche e bruciati ritratti della guida suprema Ali Khamenei. Finora gli arresti hanno riguardato una cinquantina di persone. La Casa Bianca è intervenuta e ha avvertito le autorità di Teheran: «Attenti, il mondo vi sta guardando, gli iraniani ne hanno abbastanza della corruzione del regime e della dissipazione della ricchezza nazionale per finanziare il terrorismo». (...)


"(...) Sui social network sono rimbalzate le immagini delle proteste, registrate anche nelle città di Mashaad, Neyshabur, Kamshmar, Shahrud, Rasht, Tabriz e Isfahan. Secondo quanto filtrato su Telegram e Instagram, i manifestanti scandivano slogan contro il presidente Hassan Rohani o "Indipendenza, libertà, repubblica iraniana". Tra gli slogan anche quelli che sembravano inni in memoria dell'ultimo Scià di Persia, Mohamed Reza Pahlevi, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Khomeini. Tra gli slogan più scanditi quelli contro il clero sciita, accusato di condurre una vita agiata e non in empatia con i problemi reali della società: "La nazione mendica, mentre il clero vive come Dio". Slogan anche contro le spese del regime per alcuni Paesi della regione mentre la popolazione attraversa difficoltà economiche. (...)


"(...) Borzou Daragahi, giornalista di BuzzFeed esperto di Iran, ha scritto che gli slogan che sono stati cantati ieri nelle piazze iraniane sono stati molto simili a quelli delle grandi manifestazioni del 2009, quando il regime di Teheran si trovò a dover affrontare il cosiddetto “movimento dell’Onda Verde”, organizzato dai riformisti iraniani dopo l’elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Quelle del 2009 furono le proteste più importanti e significative nella storia recente dell’Iran e furono seguite da una reazione repressiva da parte dello stato. (...)"


"(...) È difficile dire se oggi quall’aiuto ai rivoltosi arriverà, certo è che gli Stati Uniti hanno subito pubblicamente appoggiato la protesta contro gli ayatollah, in un gesto senza precedenti dai toni di Reagan. È lecito dunque pensare che nel caso in cui l’insurrezione prendesse piede gli Stati Uniti potrebbero assistere apertamente e concretamente i rivoltosi. Perché? Perché oggi l’espansione militare iraniana mette in pericolo gli interessi americani, sauditi e israeliani ed un cambio di regime è sicuramente più augurabile di una guerra classica nel Golfo, sia in termini di costi di vite umane sia banalmente in termini di budget, senza contare il rischio politico interno per un presidente che fatica a prendere in mano pienamente le redini del potere.
Eliminare i vertici dello stato iraniano potrebbe essere l’aiuto concreto degli americani alla nuova Rivoluzione iraniana, se e quando mai essa dovesse deflagrare. I metodi usati in altri luoghi del Medioriente (Siria, Libia, Egitto) non sono funzionali allo scenario iraniano, oltre ad essersi dimostrati fallaci ove già impiegati.
Anche per questo motivo è un errore paragonare i moti di piazza dell’opposizione iraniana alle primavere arabe. In tutte le cosiddette “primavere” la motivazione religiosa ed anti-laicista era un pilastro della rivolta, qui invece assistiamo allo scenario opposto, dove gli oppositori protestano per cercare di abbattere un sistema di potere politico-religioso che già controlla un intero paese.
L’attenzione del governo iraniano affinché la rivolta non diventi insurrezione è massima. Le forze di sicurezza hanno finora evitato di impiegare le armi e non fornire nessun martire alla piazza.
Nessuno oggi può sapere cosa accadrà in terra di Persia, ma di una cosa siamo sicuri: non sarà una primavera araba e nessuno degli attori stranieri che dovesse un domani intervenire attuerà l’obamiano motto del “Leading from Behind”.
Le dittature governano con il pugno di ferro, hanno potere di vita e di morte, ma ciclicamente (se non evolvono in una forma di governo più condivisa) sono destinate ad implodere nel caos e nel sangue.
L’Iran di oggi è un paese che può evolvere verso una forma di governo non teocratica oppure implodere per mano delle folle.(...)

domenica 27 agosto 2017

Testi Utili (Barca, Letta, Kissinger, Fischer)

Alcune citazioni da letture sparse; importanti, anche se in alcuni casi datate, per capire errori e difficoltà di oggi. Nella politica economica e sociale del nostro Paese, e nella politica estera (non solo del nostro Paese).

Francesco Maria Mariotti

"(...) Le riforme non sono state scontate nelle aspettative e, quindi, nei comportamenti degli operatori. Al tempo stesso esse appaiono incomplete. (...) La soluzione del paradosso sembra, allora, risiedere nel fatto che alle riforme non si è associata la condivisione su quale ne fosse lo scopo. È mancato, è la tesi, un sistema di convincimenti e di valori condivisi che consentisse di interpretare in maniera sostanzialmente univoca il cambiamento perseguito; un modello condiviso della società italiana, del suo capitalismo, e quindi della finalità delle riforme. L'attuazione, allora, è avvenuta senza unitarietà di intenti e senza consenso culturale e politico. Le condizioni prospettate dalle riforme non si sono in larga misura realizzate; le aspettative non sono in larga misura cambiate. (...) Da un lato, stavano i 《giacobini》, dall'altra, i 《conservatori》.

I giacobini ci raccontavano la visione di un'Italia da normalizzare, fondata sull'idea che esista un modello unico di capitalismo, (...) I conservatori ci narravano la storia di un'Italia anormale, secondo cui il decentramento e la specializzazione del nostro sistema produttivo, la natura profondamente radicata nei territori delle nostre competenze,  la storia e la cultura del paese, richiederebbero forme diffuse di tutela e protezione dagli impulsi concorrenziali e modalità di governo rivolte a questo scopo. (...)

Il combinato disposto delle due visioni ha concorso alla scarsa efficacia del processo istituzionale.  Giacobinismo e conservatorismo si sono combattuti, validandosi reciprocamente.  Il risultato è stato uno solo: togliere al processo di riforma la base di un convincimento condiviso; togliere ai soggetti privati e pubblici che dovevano attuarlo l'incentivo, e poi anche la passione, per dargli corpo. (...) È venuta a mancare la leva delle aspettative anticipatorie ed è, viceversa,  subentrato nei soggetti privati e pubblici un atteggiamento attendista, che ha eroso l'efficacia delle riforme o la loro stessa attuazione. (...)"

Fabrizio Barca, Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Donzelli, 2006, pp.50-54

***

(...) Se l'Italia vuole raggiungere e superare in competitività i suoi partner e concorrenti,  il concetto di comunità deve diventare l'obiettivo e al tempo stesso il metodo. I valori comunitari non sono più, se visti con lo sguardo lungo, quel vincolo alla competitività del sistema che spesso risuona nei toni di chi pensa che basti la politica delle mani libere sempre e comunque per garantire il successo economico del sistema Italia. Non è così. La comunità è condizione decisiva per la competitività di un sistema.

La competitività non è infatti un obiettivo astratto fatto di cifre e performance. Se sono realmente importanti i criteri che abbiamo definito dell'"ambiente favorevole", questi ultimi richiamano tutti un profondo senso della comunità,  fatto di valori condivisi e di forte senso dell'interesse generale. 

Perché questi sentimenti pervadono il sistema, sono necessarie alcune condizioni. Bisogna che ci siano solide istituzioni per rendere possibile la partecipazione e la condivisione delle scelte. Oggi, per essere solide, queste istituzioni devono garantire la coesistenza della rappresentatività e dell'efficacia decisionale. (...)"

Enrico Letta, La comunità competitiva. L'Italia, le libertà economiche e il modello sociale europeo. Donzelli, 2001, pp. 21-22

"(...) Quando si parla di riforme, si evocano immediatamente tempi lunghi e processi a più fasi. Non si può credere  che le riforme consistano solo nello scrivere norme. È l'applicazione dei disegni riformatori il momento più insidioso. Essa richiede costanza e determinazione. Soprattutto, i due momenti, teoria e prassi, hanno protagonisti spesso diversi, a causa dei frequenti cambi di governo che tradizionalmente caratterizzano la vicenda italiana. È allora importante che si crei, su molte riforme fatte o in corso, un clima di continuità che prescinda dalle asprezza dello scontro politico ed eviti il rischio, tipico della storia del nostro Paese, di prassi che svuotano, nei fatti, le leggi. In competizione, come oggi siamo, non possiamo più permetterci simili incoerenze. (...)"

Enrico Letta, La comunità competitiva. L'Italia, le libertà economiche e il modello sociale europeo, 2001, Donzelli,  pp. 18-19

***

(...) Le difficili scelta della decisione politica sono sempre solitarie. Dove, in un mondo di social network onnipresenti, l'individuo può trovare lo spazio per sviluppare la fermezza necessaria per prendere decisioni che, per definizione, non possono essere basate sul consenso? L'adagio secondo il quale i profeti non vengono riconosciuti dai loro contemporanei è vero in quanto essi operano al di là della concezione corrente;  il che è proprio ciò che ne fa dei profeti. Nella nostra epoca potrebbe non esserci più il 《tempo tecnico》per la profezia. La ricerca della trasparenza e della connettività in tutti gli aspetti dell'esistenza,  distruggendo la dimensione privata, inibisce lo sviluppo di personalità dotate della forza di prendere decisioni solitarie. (...)

La portata globale e la velocità della comunicazione minano la distinzione tra sconvolgimenti interni e internazionali, e tra i leader e le richieste immediate dei gruppi più numerosi. (...)

La tentazione di andare incontro alle richieste della moltitudine che si rispecchia nella comunicazione digitale può prevalere sul discernimento necessario per tracciare una rotta complessa, in armonia con gli obiettivi a lungo termine. La distinzione fra informazione, conoscenza e saggezza si indebolisce. (...)

Se la vecchia diplomazia a volte mancava di offrire sostegno a forze politiche moralmente degne, la nuova diplomazia rischia interventi indiscriminati,  privi di connessione con la strategia. Proclama assoluti morali davanti a un pubblico globale prima che sia divenuto possibile valutare le intenzioni a lungo termine dei protagonisti, le loro prospettive di successo o la loro capacità di dar corso a una politica di lungo termine. (...)

L'ordine non dovrebbe avere la precedenza sulla libertà,  ma l'affermazione della libertà dovrebbe essere innalzata dal livello di umore al rango di strategia. (...)"

Henry Kissinger, Ordine mondiale, Oscar Mondadori, 2015, pp. 349 - 355


"(...) L'Europa, che per lungo tempo si è considerata l'attore decisivo sulla scena mondiale,  rischia nel XXI secolo di diventare una potenza che recita soltanto nei teatri di provincia. Presa in sé, questa tendenza non è nulla di cui si possa lamentare. L'ascesa e il declino di grandi potenze non è una vicenda insolita nella storia e la grandezza non è in sé un valore degno di essere perseguito, però questo declino, sostanzialmente auto-prodotto e fondato su una debolezza "colpevole", è destinato ad avere gravi conseguenze per lo status politico ed economico degli europei. Visti dall'esterno, gli europei oggi sono ricchi, vecchi e deboli,  e questa è una combinazione che in un mondo inquieto e crudele di rampanti affamati non promette sicurezza e tranquillità. Se gli europei non dovessero essere in grado di organizzarsi in modo nuovo e di difendere i loro interessi, non passerà molto tempo e le potenze mondiali del XXI secolo tenteranno di trascinare l'Europa nelle loro rispettive sfere di influenza e di interesse. (...)"

Joschka Fischer, Se l'Europa fallisce?, Ledizioni, 2015, p.106

martedì 24 marzo 2015

Costruire Una Base Solida Sulle Unioni Civili (Mara Carfagna)

"(...) E a proposito di pregiudizi ce n’è uno contro questa iniziativa, contro iniziative di questo genere, che viene diffuso ad arte da chi evidentemente impedisce da anni che questo dibattito possa avere uno sbocco legislativo, che viene diffuso ad arte da chi cavalca strumentalmente queste questioni ed è proprio per questo che io voglio immediatamente sgombrare il campo da un equivoco di fondo: qui, oggi, in futuro nelle nostre intenzioni, non c’è nessuna volontà di produrre un attacco alla famiglia naturale fondata sul matrimonio. Non stiamo togliendo qualcosa alla famiglia, per darla alle coppie omosessuali, stiamo parlando di riconoscere diritti, a chi diritti non ne ha. Non stiamo promuovendo un nuovo modello di società , stiamo parlando di riconoscere quei diritti che in altri paesi del mondo , soprattutto in altri paesi europei, sono ampiamente riconosciuti, e che le altre Corti ci invitano a riconoscere senza che questo voglia dire costruire un modello, un’istituzione giuridica alternativa alla famiglia. Quindi che questo sia ben chiaro, e sgombriamo il campo da questo equivoco di fondo che ha ideologizzato ed estremizzato il dibattito in tutti questi anni, e che ci ha impedito di arrivare anche soltanto ad un confronto sereno.

C’è un’altra notizia che ho letto in questi giorni e che mi fa sorridere, se non ci fosse da piangere, per quanto è seria. Perché c’è chi ad esempio sostiene che di fronte all’avanzata dell’Isis, noi abbiamo il dovere di rafforzare la nostra identità e la nostra civiltà. Certo, ovvio, giusto, ma per alcuni rafforzare la nostra identità, significa dire si al matrimonio e no alle unioni omosessuali, senza ricordare che forse per contrastare quel modello che l’Isis propone dobbiamo contrapporci a chi gli omosessuali li butta dalle torri.(...)

Come si fa allora a riconoscere questi diritti fondamentali? Significa ad esempio fornire certezze sulla eredità, significa fornire certezze per quanto riguarda la possibilità di subentrare nel contratto di locazione, significa fornire certezze per quello che riguarda l’assistenza sanitaria, l’assistenza penitenziaria, la pensione di reversibilità, significa fornire certezze per tutto quello che riguarda l’obbligo di assistenza morale e materiale, significa riconoscere diritti a cui corrispondono doveri , responsabilità, il tutto all’interno di una unione omoaffettiva pubblicamente riconosciuta. Questo è il binario all’interno del quale noi abbiamo intenzione di muoverci considerando il nostro, un punto di partenza. Una base x il dialogo che noi non crediamo sia una soluzione minimalista. Quando in ballo ci sono così tante posizioni, così tante sensibilità, bisogna provare a fare un lavoro di sintesi altrimenti succede quello che è successo in questi 15 anni, non si ottiene nulla. Bisogna essere ambiziosi sono d’accordo, ma bisogna ogni tanto provare a costruire una base solida su cui poi provare ad elevare tutto il resto(...)"


giovedì 8 gennaio 2015

La Guerra Strana Che Non Deve Travolgerci

Quanto è cambiata la società israeliana col terrorismo? «Siamo diventati più forti ed elastici e uniti». Zeruya Shalev, scrittrice israeliana.(intervista a Repubblica del 23 luglio 2005)

Quando andai in Israele, qualche anno fa, per un viaggio di conoscenza e solidarietà con quella società colpita dal terrorismo, un padre di famiglia (un italiano trasferitosi da qualche anno lì) ci sorprese con una battuta che poi scoprii essere un po' diffusa: "Per la verità, facciamo più morti noi sulle strade - con la nostra imperizia come automobilisti - che non il terrorismo con le stragi".
Era probabilmente il tentativo di esorcizzare la paura e l'angoscia, ma al tempo stesso diceva forse qualcosa di vero.

Naturalmente non si può sottovalutare quanto successo ieri a Parigi, ma è necessario mantenere la calma nel momento in cui si analizzano i fattori dell'evento. Questa è una guerra molto "strana", se proprio vogliamo chiamarla guerra e vedere un unico disegno che unisce tutti i punti. Bisogna fare attenzione, però, perché unendo punti troppo lontani fra loro rischiamo di vedere un Nemico Gigante e terrificante, quando magari sono tanti, piccoli, e non così forti.

Questo possibile errore di prospettiva - uno dei tanti che si rischiano in questa strana guerra "frammentata" e con più "scenari" -  può elevare l'allarme oltre il necessario e - soprattutto - far sbagliare le risposte. Che devono essere dure, sicuramente, ma precise. Il che significa - per esempio - che è sbagliato attaccare genericamente l'Islam, ma è altresì pericoloso - se le indagini confermeranno questa matrice - "rimuovere" la "connotazione" religiosa e fondamentalista, parlando semplicemente di "terrorismo" in modo troppo generico. 

Già in Afghanistan e in Iraq, e per certi aspetti in Libia, stiamo pagando i prezzi di un eccesso di azione e di un'analisi approssimativa; un comprensibile e necessario tentativo di "concretizzare" il nemico (magari facendolo incarnare in uno stato, o collegandolo a potenze considerate nemiche, fu il succo del tentativo "neocon") può portare a sbagliare mira, peso della reazione, azioni seguenti, e via così dicendo.

Ieri non c'è stato un nuovo 11 settembre. Sono state uccise 12 persone. Una tragedia infinita, perché infinita è ogni persona, ma limitata nei numeri. L'attacco simbolico è stato gravissimo, naturalmente, ma oggi lavoriamo e viviamo abbastanza normalmente. Sono stati correttamente attivati tutti i "sensori", e alzati i livelli di allarme; ma - per ora, e spero di non essere smentito - possiamo camminare abbastanza tranquillamente sulle nostre strade. Speriamo continui così. Ma se deve essere diverso, deve esserlo solo se strettamente necessarioe nella misura strettamente indispensabile. Per terroristi sparsi, almeno tali sembrano fino ad ora, non vale la pena - ed è totalmente inutile - attivare troppe difese; rischieremmo di soffocare senza guadagnarci nulla.

Soprattutto, non possiamo far decidere ai terroristi (quanti e quali che siano) come dobbiamo vivere la nostra vita, i nostri piaceri e i nostri affanni quotidiani. Certo, dobbiamo aver presente che non tutto è difendibile, che non tutto è prevedibile (troppo facile dire oggi che bisognava proteggere meglio la sede di quel giornale...). Dobbiamo essere duttili: forti ed elastici al tempo stesso, come diceva la scrittrice israeliana che ho richiamato all'inizio.

Pochi giorni dopo l'11 settembre, Tommaso Padoa Schioppa scrisse un articolo molto bello sul Corriere della Sera in cui invitava ad evitare "l'insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.". Ve lo ripropongo qui sotto, perché mi pare che in questo difficile equilibrio ci sia la traccia giusta di come affrontare questa sfida, e forse tante altre.

"Non abbiate paura", disse un Papa anni fa, affrontando un gigante politico che terrorizzava il suo popolo. Ebbe ragione.

Non dobbiamo avere paura neanche oggi. E avremo ragione.

Francesco Maria Mariotti

Parte della risposta ai tragici fatti dell' 11 settembre dev' essere un intrepido e assorto ritorno al quotidiano operare, alla fiducia a scuola e in Borsa, alle normali conversazioni in casa e in ufficio. La capacità di liberarsi dalla minaccia del terrore che ha improvvisamente colpito il mondo dipenderà anche da come ciascuno, nel mondo, vivrà questo ritorno. Ciascuno nel mondo, perché miliardi di persone di tutte le età hanno visto le immagini del disastro, centinaia di milioni conoscono New York e ne hanno visitato le torri. In quello stesso martedì di settembre, nei minuti e nelle ore che seguirono l' attacco, in innumerevoli sedi pubbliche e private, dentro e fuori gli Stati Uniti, ci si riunì sgomenti, non sapendo che fare. Si decise che «il lavoro continua», business as usual. Per i più non era insensibilità, ma bisogno di una norma sicura, dunque di normalità. Lavoro, abitudini, normalità hanno subìto l' urto di eventi orridi e discriminanti che ognuno ricorderà per sempre. Sappiamo, stiamo poco per volta capendo, che quegli eventi porteranno cambiamenti anche nel vivere quotidiano. Né il prevalere del terrore né la sua sconfitta lascerebbero immutate le nostre abitudini. Tanto meno le lascerà immutate la lotta contro il terrore, di cui ora non conosciamo né i tempi né l' esito. Del vivere quotidiano, della normalità, l' attacco terroristico è stato ferita e tradimento. Normale era la giornata di lavoro cui si accingevano le migliaia di persone che sono morte. Normale era la vita in cui i terroristi si erano mimetizzati per anni in attesa del giorno dell' attacco. «Normali», si disse mesi fa, erano Omar ed Erika prima e dopo l' uccisione di mamma e fratello. Il quotidiano è fatto di abitudini lente a cambiare. In ciò sta il suo valore, perché in-corpora saggezza e civiltà sedimentate a lungo, entrate nelle fibre di ciascuno. Le abitudini sono e danno forza. Ai bambini danno fiducia; agli adulti libertà. Il lavoro è necessità e fatica; ma è anche sicurezza e riflessione. Nel ritorno al quotidiano vi sono consolazione e sostegno, ma anche difesa e riaffermazione della saggezza e della civiltà. Il ritorno al quotidiano diventerà una risposta intrepida se sapremo evitare l' insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.(...)

Un gradino sopra si muovono cellule strutturate e con ramificazioni. Sono però categorie fluide, a volte si mescolano: possiamo avere due individui senza rapporti gerarchici con un movimento ma che sono disciplinati e con alle spalle un training. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a episodi diversi: a Bruxelles un militante ha impiegato un AK nell’assalto al museo ebraico, a Ottawa il terrorista era dotato di un fucile da caccia, stessa cosa nella presa d’ostaggi a Sydney e a New York un uomo affascinato dall’Isis si è lanciato con un’ascia contro la polizia. Ora c’è stata la sparatoria di Parigi, di livello superiore.

Quando nelle prossime ore molti di noi potrebbero essere tentati dall'intolleranza verso i “barbuti col caftano” che sempre di più incontriamo nelle nostre città, cerchiamo di ricordarci che anche il coraggioso Selvedan Baganovic è un “barbuto col caftano”, che però predica un Islam tollerante e pacifico. E chiediamoci quanti del miliardo e trecento milioni di musulmani che popolano il pianeta si sentono rappresentati dai sicari di Parigi o dai tagliagole di al Baghdadi o, meglio ancora, proviamo a chiederlo direttamente a loro: e probabilmente scopriremo che, nella lotta contro il terrorismo islamista, proprio la gran parte dei musulmani sono i nostri migliori e naturali alleati.
di Vittorio Emanuele Parsi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/VRtlEL

Il risultato della strage sarà rendere più o meno frequenti gli episodi di autocensura? Il 7 gennaio è stata data una dimostrazione pratica di quello che può accadere a scherzare sulla religione. È possibile che con un moto d’orgoglio l’opinione pubblica mondiale si scuota di dosso le sue paure e decida di non accettare più limiti alla libertà di espressione. Ma è altrettanto possibile il contrario. Se per me è facile ignorare il timore per la mia incolumità, per altri colleghi – molto più in prima linea di me – non è così semplice. Il mondo non è fatto di eroi, ma di persone normali, con le loro debolezze ed incertezze che forse oggi più che ieri decideranno che è meglio non rischiare la vita per un disegno o per una critica corrosiva. A quel punto non ci vorrà molto (come ha notato Giovanni Fontana, sono bastate poche ore in alcuni casi) perché una grossa fetta di coloro che oggi scrivono #JeSuisCharlie comincino a chiedersi perché quello che non si può fare nei confronti dell’islam lo si può fare nei confronti del cristianesimo. Già oggi esistono molti musulmani e cristiani che condannano la violenza, ma allo stesso tempo sostengono la necessità di mettere limiti alla critica della religione. Non è impossibile immaginare in un futuro prossimo un politico che proponga di introdurre delle leggi contro il vilipendio della religione trovandosi così tra le mani tanto i voti degli estremisti islamici quanto di quelli cristiani. Sarebbe un mondo meno libero, che poi alla fine è esattamente quello che vogliono i terroristi.