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mercoledì 24 aprile 2019

"Liberi di ricordare" (Vittorio Foa, 2001)

Sempre bella da rileggere, questa intervista di Vittorio Foa (2001)
Francesco Maria Mariotti

"(...) "La Liberazione può essere vista e vissuta in modo diverso. Dipende da tanti fattori: l'età, l'ambiente, le radici culturali, le idee. In fondo, non bisogna guardare a questa data solo come la Liberazione dal fascismo e dal nazismo. Quel giorno segna anche la fine di una guerra drammatica, tragica. E per noi quella fu una svolta storica: con la fine del nazifascismo conquistavamo l'Europa, entravamo nel consesso degli altri grandi paesi europei. Il raggiungimento di questo traguardo, la soddisfazione per avercela fatta, non la posso dimenticare e molti probabilmente conservano lo stesso ricordo che ho io. Ma oggi non potrei fare davvero nulla per sollecitare la memoria di tutti. E del resto non voglio farlo. Come possiamo imporre la storia? Il ricordo non va imposto". (...)

Lei cosa farà oggi?
"La mia salute non è buona, ho dei gravi problemi alla vista. Starò in silenzio, preferisco ascoltare".


E cose le piacerebbe sentire in questo giorno?
"Mi piacerebbe ascoltare delle parole di verità. La verità. Ognuno deve esprimere la propria posizione personale. Ma non raccontino bugie, non ne posso più di certe palle clamorose. Le idee politiche non devono essere costringenti. Voglio delle idee libere. Dicano la verità, per favore"[bb].

Ci si lamenta perché i ragazzi non sanno molto della Liberazione. 
"Come fanno a ricordare una cosa di più di 50 anni fa? Se hanno voglia di sentire la storia di quei giorni, bisogno raccontargliela assolutamente. E bene. Altrimenti... Le ripeto: non credo che il ricordo vada imposto. Il ricordo più è libero e più vale. E questa è anche l'unica strada per farlo diventare un valore condiviso da tutti".

(25 aprile 2001)"

martedì 24 marzo 2015

Costruire Una Base Solida Sulle Unioni Civili (Mara Carfagna)

"(...) E a proposito di pregiudizi ce n’è uno contro questa iniziativa, contro iniziative di questo genere, che viene diffuso ad arte da chi evidentemente impedisce da anni che questo dibattito possa avere uno sbocco legislativo, che viene diffuso ad arte da chi cavalca strumentalmente queste questioni ed è proprio per questo che io voglio immediatamente sgombrare il campo da un equivoco di fondo: qui, oggi, in futuro nelle nostre intenzioni, non c’è nessuna volontà di produrre un attacco alla famiglia naturale fondata sul matrimonio. Non stiamo togliendo qualcosa alla famiglia, per darla alle coppie omosessuali, stiamo parlando di riconoscere diritti, a chi diritti non ne ha. Non stiamo promuovendo un nuovo modello di società , stiamo parlando di riconoscere quei diritti che in altri paesi del mondo , soprattutto in altri paesi europei, sono ampiamente riconosciuti, e che le altre Corti ci invitano a riconoscere senza che questo voglia dire costruire un modello, un’istituzione giuridica alternativa alla famiglia. Quindi che questo sia ben chiaro, e sgombriamo il campo da questo equivoco di fondo che ha ideologizzato ed estremizzato il dibattito in tutti questi anni, e che ci ha impedito di arrivare anche soltanto ad un confronto sereno.

C’è un’altra notizia che ho letto in questi giorni e che mi fa sorridere, se non ci fosse da piangere, per quanto è seria. Perché c’è chi ad esempio sostiene che di fronte all’avanzata dell’Isis, noi abbiamo il dovere di rafforzare la nostra identità e la nostra civiltà. Certo, ovvio, giusto, ma per alcuni rafforzare la nostra identità, significa dire si al matrimonio e no alle unioni omosessuali, senza ricordare che forse per contrastare quel modello che l’Isis propone dobbiamo contrapporci a chi gli omosessuali li butta dalle torri.(...)

Come si fa allora a riconoscere questi diritti fondamentali? Significa ad esempio fornire certezze sulla eredità, significa fornire certezze per quanto riguarda la possibilità di subentrare nel contratto di locazione, significa fornire certezze per quello che riguarda l’assistenza sanitaria, l’assistenza penitenziaria, la pensione di reversibilità, significa fornire certezze per tutto quello che riguarda l’obbligo di assistenza morale e materiale, significa riconoscere diritti a cui corrispondono doveri , responsabilità, il tutto all’interno di una unione omoaffettiva pubblicamente riconosciuta. Questo è il binario all’interno del quale noi abbiamo intenzione di muoverci considerando il nostro, un punto di partenza. Una base x il dialogo che noi non crediamo sia una soluzione minimalista. Quando in ballo ci sono così tante posizioni, così tante sensibilità, bisogna provare a fare un lavoro di sintesi altrimenti succede quello che è successo in questi 15 anni, non si ottiene nulla. Bisogna essere ambiziosi sono d’accordo, ma bisogna ogni tanto provare a costruire una base solida su cui poi provare ad elevare tutto il resto(...)"


domenica 29 giugno 2014

No A Riforme Improvvisate!

Siamo persone di diversa estrazione politica, e firmiamo assieme questo appello perché siamo preoccupate per le modalità con cui l'attuale Governo e la maggioranza del Parlamento stanno impostando le riforme istituzionali.

Sgombriamo il dubbio da una questione: nessuno mette in discussione la possibilità di migliorare la Costituzione italiana; non è con la retorica della "Costituzione più bella del mondo" che si fanno gli interessi del Paese e delle future generazioni, anche sul lungo periodo; in diversi punti la Costituzione può - e forse deve - essere migliorata.

Ma l'approssimazione con cui si sta conducendo la riforma del Senato è deleteria: l'ultima polemica di questi giorni - riguardante l'immunità per i nuovi senatori - al di là del merito della questione è indice di un percorso non curato, non consapevole delle diverse implicazioni di ogni singola scelta costituzionale, che deve essere attentamente vagliata dal punto di vista "sistemico".

Siamo passati in pochi mesi da un Senato che doveva rappresentare i Sindaci, a uno che dovrebbe rappresentare le Regioni, come se fosse la stessa cosa. Senza entrare nel merito di quale possa essere la scelta eventualmente migliore, ci rendiamo conto che stiamo facendo una opzione di sistema piuttosto improvvisata?


Si tenga anche conto - nel valutare il tutto - della discutibile ipotesi di riforma della legge elettorale, che incide - indirettamente - sul funzionamento delle istituzioni democratiche del nostro Paese. Si può e si deve trovare un altro modo di cambiare il nostro Stato. (...)

sabato 21 giugno 2014

Una Riforma Semplice Del Bicameralismo

Sarò banale, ma secondo me si superebbe il bicameralismo perfetto in modo migliore e più semplice se: 

1) si dimezzassero sia i deputati che i senatori senza cambiare altro nei sistemi di elezione;

2) si desse "primazia" alla Camera, assegnando ad essa la prima e la eventuale terza - ed ultima! - lettura della legge, lasciando al Senato la possibilità di una sola seconda lettura eventualmente modificativa (oppure confermativa, a quel punto non si procederebbe alla terza lettura).

I risparmi sarebbero garantiti, chissà forse anche maggiori e ci sarebbe una miglior efficienza, anche meglio visibile e comprensibile da tutti i cittadini. 

Mi sbaglio?

Francesco Maria

venerdì 13 giugno 2014

Prepotenza, Solo Piccola e Sciocca, E Pericolosa, Prepotenza

Un po' di tempo fa ho scritto: "(...) Forse nella figura "leaderistica" - e un po' populista - di questo Presidente del Consiglio l'italia ritrova la periodica tentazione di credere nel "seducente" obiettivo del "primato della politica". Tale espressione - che affascina perché sembra voler riportare "ordine" nelle dinamiche sregolate dell'economia - purtroppo il più delle volte è semplice copertura di poche idee e poca concretezza, surrogate da "volontarismo" e "velocità". 
L'uscita dalla crisi non può avvenire per improvvisazioni. Il cammino sarà lungo, e le scorciatoie e le furbizie (correre alle elezioni dicendo che questo Parlamento non lo lascia lavorare, per esempio?) non funzioneranno, o faranno danni.(...)" (http://mondiepolitiche.blogspot.it/2014/02/inizio-preoccupante.html)
Di seguito qualche riflessione su quanto sta succedendo, in questi giorni, e che temo confermi quello che poteva sembrare un mio eccesso di pessimismo.

FMM

Senza dubbio c'è del vero in questo ragionamento. Come è noto, anche l'inglese Gladstone ai suoi tempi sosteneva che «tra la propria coscienza e il proprio partito si deve scegliere il secondo». Tuttavia è singolare che il Pd renziano stia riscoprendo oggi una forma di «centralismo democratico» che riporta a una tradizione politica alla quale egli è estraneo. Ma c'è dell'altro. Nel momento in cui s'intende riformare il Senato, è pericoloso dare l'impressione di voler soffocare il dibattito e zittire le voci fuori dal coro: specie quando si tratta di abolire o trasformare radicalmente un'assemblea legislativa. Sotto questo aspetto, il caso Mineo diventa il paradigma di un errore politico.
 
di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/FSjQNY
 
Chiti e Mineo fuori dalla commissione Istituzionale. Come definirebbe questa operazione del Pd?
«Una decisione di Renzi, eseguita da Zanda, perché oggi lo stesso premier l’ha rivendicata dalla Cina. A volte queste cose venivano dalla Bulgaria, ma evidentemente siamo ancora più esotici. È una scelta molto grave dal punto di vista dei rapporti interni del partito e del gruppo. In secondo luogo è un errore politico perché la sostituzione dei due senatori non impedisce che le contraddizioni si manifestino poi in aula, cioè quando si andrà davvero a votare la riforma del Senato. Il testo Boschi passerebbe in commissione, ma non in aula, dove le perplessità riemergerebbero, a maggior ragione dopo l’umiliazione costituzionale di mercoledì. E allora la mia domanda è: “Non è che questa sostituzione di Mineo nasconda le difficoltà di tenuta dell’accordo con Berlusconi? Avrebbe una grande maggioranza con Forza Italia per votare le riforme, quindi perché tanta prepotenza?»
 
Tredici senatori vicini alle sue idee si sono autosospesi dal partito. L’onorevole Corsini ha definito la vicenda «un’epurazione». Casson parla di «metodi militari».Qualcun altro dice che questo è il «renzismo».
«Non userei questi toni. Semplicemente è un momento di superficialità e di prepotenza di chi interpreta questa nuova fase. Un atteggiamento molto grave nella consuetudine e nella conversazione democratica. Ricordo quando i dissidenti erano i renziani. Noi stavamo votando tra mille incertezze il presidente della Repubblica, loro addirittura votavano un loro candidato: Sergio Chiamparino. Martedì Giachetti, il furbo renziano, in aula ha dichiarato di votare con le destre sulla responsabilità civile dei magistrati. E fa il vicepresidente della Camera, non fa il dissidente per conto Pd. Mi sorprende che dal “dissenso strategico” che lo ha portato a scalzare un intero gruppo dirigente del Pd, ora Renzi sia passato ad una logica di ortodossia vecchio stile e molto pesante».
 
Potrei chiedere come fa il governo a sapere che quei dodici milioni di italiani hanno votato specificamente per la riforma Renzi sul Senato. Potrei chiedere di quali elettori si parla. Perché se si parla di quelli che hanno eletto l'attuale Parlamento, allora il Premier attuale non è stato votato e Mineo sì. Se invece parla del voto per le Europee andrebbe ricordato che il pur immenso consenso non è comunque consenso politico diretto.
In ogni caso gli eletti, come abbiamo ricordato di recente in merito alla ondate di espulsioni dal M5S, hanno diritto alla libertà di opinione. Come del resto i militanti di partito - in questo caso, se parliamo al segretario del Pd, mi pare che andrebbe ricordato che in quel partito si è lavorato una vita (del Pd stesso e di varie generazioni di militanti) per affermare il diritto al dissenso interno, con conseguente richiesta di affrontare questo dissenso con pratiche il più possibile lontane dallo stalinismo.
Questi sono naturalmente dettagli. Si sa che i renziani credono che il potere che hanno in mano vada gestito in maniera decisionista. Chi dissente è palude, lo sappiamo.
Tuttavia, visto che la convivenza civile è fondata sulla salvaguardia - che nel suo piccolo riguarda la salvaguardia delle regole - non posso che segnalare che brandire l'investitura popolare come legittimazione ad agire forzando le regole costituisce una tentazione autoritaria. Non farò a Renzi il torto di accostarlo a Berlusconi, perché sappiamo che ha ambizioni e riferimenti storici molto più alti.
Nelle sue idee il paragone è Blair, o Obama. Peccato che anche la traiettoria di questi leader dimostri che il vasto consenso popolare non fornisce un passaporto con il destino. Blair è alla fine caduto nella trappola delle sue forzature (ricordate l'Iraq? In queste ore qualcosa di molto drammatico ce lo ricorda) e Obama in quelle della sua inefficacia.

Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio. (...)
Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.

Ma certo mi stupisce che anche i più strenui difensori del valore dibattimentale a un certo punto crollino. Da ultimo leggevo l’articolo di poche ore fa di Roberto Giacchetti, che ieri da garantista ero molto contento che avesse guidato una fronda interna al PD per fare votare a favore della responsabilità dei giudici (seppure in un decreto omnibus molto arrangiato ma sic). Ecco che invece oggi molla l’idea che ci possa essere una discussione nel merito sulla riforma del Senato. “E innumerevoli volte Renzi ha affermato che il voto sulla sua persona sarebbe stato anche una formale approvazione del suo programma nel quale appunto c’era questa specifica proposta di riforma costituzionale.” O con Renzi o contro di Renzi, qualunque cosa questo significhi.
Ora, uno con un minimo di coscienza democratica, uno con il desiderio di confrontarsi come dire, uno ancora non fulminato sulla via di Rignano sull’Arno, può farmi capire qual è il valore politico in sé di una battaglia contro le minoranze? Qual è il valore politico di una mancata discussione sulla riforma del Senato che coinvolga anche voci dissenzienti come Mineo, Chiti o sì anche Mauro di Per l’Italia? (...)
Essere sul carro del vincitore, credo, generi uno strano effetto galvanizzante. Si va avanti spediti, come alla guida di una macchina di un videogioco automobilistico, o Grand Theft Auto. Intorno i pedoni, gli altri autisti, la gente che incrociamo, che attraversa le strisce, persino quelli che ci stanno a guardare sugli spalti… possiamo spazzare via tutto, senza nemmeno usare troppo il volante, investirli semplicemente spingendo ancora il piede sul pedale. Vogliamo dire che stiamo guidando il Paese avanti, rapidi, sicuri, perché ce ne freghiamo di qualunque cosa che ci passi vicino?


martedì 3 giugno 2014

"Non seguirai la maggioranza per agire male" (lettura di "Principî e voti", di Gustavo Zagrebelsky)

In un momento storico in cui l'Italia sembra aver deciso di affidarsi (ancora!?) a un uomo solo al comando, e in cui "streaming" e "diretta" diventano i sostitutivi della rappresentanza (in questo - e forse anche in altro: nell'accettare per esempio il voto palese, in Parlamento, sulle richieste della magistratura - Grillo ha ottenuto una vera e storica vittoria, al di là delle percentuali delle Europee) è interessante riprendere in mano un testo non nuovissimo di uno di quei "professoroni", così additati all'opinione pubblica da alcuni esponenti di area governativa.
 
Leggere "Principî e voti" di Gustavo Zagrebelsky (Giulio Einaudi editore, 2005), anche nella sua "inattualità", a distanza di anni dalla uscita, impone - per così dire - una pausa di riflessione, invitandoci  a entrare nei luoghi, nei tempi e nei modi in cui opera quella particolarissima istituzione  - di cui l'autore è stato membro e presidente - che è la Corte Costituzionale. 

La "pausa di riflessione" non è solo un richiamo alla lettura; possiamo anche utilizzare questa espressione per dire la diversa dinamica che il dibattito e la decisione della Corte hanno - o dovrebbero avere, secondo il presidente emerito - rispetto al tempo presente, alle emergenze che la politica impone, o che alla politica stessa vengono imposte da mass-media, opinione pubblica e via così dicendo.
 
La distanza dall'esterno nei "processi" intentati davanti alla Corte è un percorso che da fisico si fa spirituale: il rito della "chiusura" del tavolo, aperto a ferro di cavallo durante le udienze, mentre diventa "quadrato, anzi cerchio (la figura che meglio regge il peso)" (p.13) quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, segna quel processo di "messa a fuoco", appunto "presa di distanza", "sospensione del giudizio", che sono passaggi essenziali perché i giudici possano far valere - anche di fronte a se stessi - come unico criterio la fedeltà alla Costituzione.
 
E' questo il fulcro del breve e denso saggio di Zagrebelsky: la fedeltà alla sola Costituzione, di fronte a tutte le possibili "appartenenze altre", che inevitabilmente si fanno presenti alla coscienza e nel vissuto dei giudici; coscienza e vissuti che vengono vagliati di fronte a se stessi, e di fronte agli altri colleghi ("Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame, particolarmente severo nei primi tempi, quando prende forma la considerazione che accompagnerà il giudice, per tutta la durata della carica. Il passato conta solo per il nostro foro interno, per il giudizio che ciascuno di noi ha su se stesso, non per gli altri giudici che partecipano al collegio.", pp.63-64).

L'autonomia di giudizio - anche di fronte a proprie precedenti posizioni - sembra essere quasi - il paragone è azzardato, ma forse l'autore consentirebbe - il punto di arrivo di un percorso di ascesi, di continua negazione di sé. ("La camera di consiglio, oltre che un luogo fisico, è quindi anche e soprattutto un luogo spirituale: lo spazio di quella unità che di quindici fa uno", p.9). L'attenzione che Zagrebelsky porta ad alcuni dettagli procedurali, penso per esempio all'attenzione rivolta al problema delle dimissioni (pp.64-66, non a caso inserite in un capitolo dal titolo "Amor di sé"), servono a ribadire questo processo, questa attenzione che non è solo formale.

Il giudice deve saper prendere le distanze anche da quella "parti" di identità che sono più forti, come ad esempio l'appartenza religiosa, o etnica, o analoghe, "normalmente considerate naturali o, addirittura, virtuose: quelle che originano da cause interiori che non derivano da altri che da noi stessi"(p.93). Partendo dalla citazione della dissenting opinion del giudice Frankfurter in una causa in cui la Corte Suprema americana dichiarò l'obbligo scolastico del saluto alla bandiera come contrario alla libertà di coscienza (rovesciando un precedente orientamento), l'autore enuclea e cala nella realtà italiana la frase "noi giudici non siamo né ebrei, né cattolici, né agnostici" (pp.93-97), ribadendo la nettezza di una scelta laica che non può avere compromessi.

Ma come si giustifica politicamente una realtà così particolare, anche dal punto di vista della formazione, come la Corte? Qui Zagrebelsky offre un contributo che può servire - io credo - anche alle nostre discussioni quotidiane, richiamando la distinzione fra pactum societatis e pactum subiectionis (pp.25-26, poi ripresa in seguito più volte).
 
Il pactum societatis è il patto per cui si supera il conflitto interno alla comunità, si mette al bando la guerra civile, e si  dichiarano i valori che legano una società, quel minimo comune denominatore che fa sì che una collettività stia insieme, anche nel rispetto di alcuni valori fondamentali; il pactum subiectionis è la scelta di sottomettersi a un governo - a una maggioranza, in democrazia - al fine di poter arrivare a decisioni concrete e operative e regolare la vita della comunità. Il secondo è vincolato al primo, dipende dal primo.

Ma la politica che "regge" - diciamo così - il secondo patto valendosi del principio di maggioranza può ribellarsi al primo patto, attaccando - anche subdolamente - i valori che ci uniscono. Ed è di fronte a questi attacchi che il giudice costituzionale deve comunque saper continuare nella sua missione, educato - anche dalla forme dei riti, che oggi a volte non conosciamo o comprendiamo - a quella distanza che permette la chiarezza di giudizio e la libertà di giudizio. 

Quella distanza che fa sì che il giudice possa obbedire al monito divino "Non seguirai la maggioranza per agire male" (Es 23.2, riportato a p. 118): e, a conferma della centralità di questo monito, il titolo di uno dei capitoli fondamentali del libro (quello in cui vengono presentati i due pacta) è "Non tutto può mettersi ai voti".  

Non tutto può mettersi ai voti, e nessuna maggioranza può farci accettare ciò che è male. Questi i due pilastri della dignità del giudice costituzionale, e che andrebbero meglio compresi da tutti, proprio oggi.

Certo, alcuni toni e richiami del libro si possono più o meno condividere, e a volte il testo può apparire eccessivamente "severo", o "timoroso" e prudente rispetto ai cambiamenti che di volta in volta si sono proposti intorno al funzionamento della Corte, o alla sua composizione; ma il messaggio di Zagrebelsky appare comunque forte e attuale, e foriero di nuove riflessioni. 

Proprio quando appare urgente il momento della decisione, proprio quando troppo spesso ci si richiama facilmente al Carl Schmitt che caratterizza la politica con la dicotomia amico-nemico (si legga la nota 9 a p.38, dove si denuncia la banalità di siffatta estensione di un concetto bellico a tutta l'attività politica), ecco che allora deve essere più forte la attenzione al pactum societatis che ci lega, deve essere più forte il richiamo a ciò che ci unisce, rispetto a ciò che ci divide.  
 
Non certo per mantenere tutto uguale a se stesso, ma perché nella fretta del cambiamento non si perdano di vista i legami che ci dicono ciò che siamo come collettività. Al di là dei leader e delle urgenze -  mediatiche o reali - del momento.

Francesco Maria Mariotti

giovedì 1 maggio 2014

Sul Caso Aldrovandi

Sul "caso Aldrovandi" mi sembra molto utile un articolo della Stampa che riscostruisce tutti le fasi della vicenda; segnalo inoltre - "rubandole" dalla pagina FB dell'on.Fiano - alcune dichiarazioni - molto importanti - dei segretari del Siap e del Siulp.
Infine una riflessione più complessiva di Gianni Cuperlo.

Al di là del singolo caso, è necessario tenere sempre presente che la difesa dei diritti di tutti - e quindi anche delle persone "fermate" o "arrestate" - è parte sostanziale della dignità della polizia e delle forze dell'ordine tutte

Ed è necessario che in questo paese - dove la domanda di sicurezza è giustamente molto alta - si mantenga una attenzione forte da un lato alle esigenze delle forze di polizia, che troppo spesso diventano una sorta di "parafulmine" delle tensioni sociali, dall'altro alle garanzie dei diritti di tutti, anche di chi trasgredisce le regole, o è sospettato in questo senso. 

Può sembrare banale, ma l'equilibrio perennemente instabile delle democrazie liberali (occhio all'aggettivo!) sta nel tenere conto - insieme - di queste esigenze.

FMM


La causa della morte 
È un tema molto dibattuto nel processo, poiché da esso dipende la responsabilità degli imputati, e ora viene nuovamente sollevato dal Sap. Nelle prime relazioni di servizio, i poliziotti attribuiscono la morte di Aldrovandi alla «assunzione di sostanze stupefacenti». Le sentenze hanno accolto la tesi del professor Gustavo Thiene, anatomopatologo di fama mondiale: morte dovuta ad asfissia da compressione toracica. Secondo i giudici, la pressione esercitata sul tronco di Aldrovandi dagli agenti determinò lo schiacciamento del cuore. I poliziotti obiettano: il consulente era stato nominato dalla famiglia Aldrovandi, dunque è di parte. E propongono una versione alternativa: morte dovuta a «excited delirium sindrome», sindrome da delirio eccitato. Ma secondo la Cassazione la consulenza del professor Thiene è attendibile e adeguatamente motivata (dalle foto risultano due ematomi sul ventricolo sinistro e le dichiarazioni degli operatori del 118 sono convergenti). Inoltre proviene da una riconosciuta autorità scientifica in materia di morti improvvise cardiache. Viceversa, la tesi dei medici nominati dai poliziotti secondo cui Aldrovandi morì da solo perché alterato (excited delirium), è stata smentita nel processo, sia con documenti sia con un confronto tra periti. 

Che altro dovevamo fare? 
Tutti gli imputati hanno lamentato che i giudici, censurando la loro condotta violenta, non ne hanno specificamente indicato una alternativa. Insomma: che altro avrebbero potuto fare gli agenti di fronte a un ragazzo violento e drogato? La Cassazione ribatte che la «condotta alternativa lecita che l’ordinamento si aspettava da funzionari della Polizia di Stato» è stata abbondantemente illustrata nelle sentenze (in tutto, un migliaio di pagine): dialogo, approccio contenitivo e di controllo (se del caso anche con l’uso di manganelli), prime cure sanitarie (la volante era dotata di defibrillatore e un agente aveva seguito un apposito corso di formazione). Invece i manganelli furono usati per colpire (tanto che due si ruppero); i numerosi colpi proseguirono nonostante le richieste di aiuto di Aldrovandi; la colluttazione non si fermò dopo aver reso il ragazzo «inoffensivo»; il 118 fu chiamato solo quando il ragazzo era morto; «il personale sanitario, una volta sopraggiunto, dovette insistere perché Aldrovandi, ormai esanime, ma ancora compresso a terra con il volto sul selciato, venisse liberato dalle manette e girato sul dorso». 


Aldrovandi:Tiani, Siap, polizia non spaccata ma unita e democratica(ANSA) - ROMA, 1 MAG - In merito alle polemiche sulla "polizia spaccata a seguito degli inopportuni applausi ai poliziotti condannati per il caso Aldrovandi riteniamo che la manipolazione politica su un tema cosi' delicato non rende un buon servizio alle istituzioni". Lo afferma in una dichiarazione Giuseppe Tiani, segretario del Siap. "I sindacati su posizioni diverse non vuol dire una polizia spaccata: istituzione e diritto di rappresentanza sono due cose diverse. La polizia e' unita e democratica all'interno della quale le diverse sensibilita' sindacali su temi delicati per i cittadini possono dare l'idea di un corpo lacerato. Ma questo - ha concluso Tiani - e' un errore di valutazione che noi respingiamo con forza e lavoriamo ogni giorno affinche' l'istituzione sia sempre compatta e al servizio del paese" e per questo "abbiamo sempre condannato e preso le distanze dagli eccessi nell'uso della forza che la legge ci concede".


CASO ALDROVANDI: ROMANO (SIULP), RISPETTO VITA IRRINUNCIABILE ='CONDIVIDO PAROLE ALFANO E PANSA, NOI PROFESSIONISTI DELLA GARANZIA DELLA LEGALITA''


Roma, 30 apr. (Adnkronos) - "Condivido le dichiarazioni del ministro Alfano e del capo della polizia, per i poliziotti il rispetto e la sacralita' della vita sono un elemento irrinunciabile per lo svolgimento del nostro lavoro". Felice Romano, segretario generale del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia), commenta cosi' gli applausi durante l'assemblea del Sap agli agenti condannati per l'omicidio Aldrovandi.

"Per noi la vita e' sacra anche quando ci troviamo di fronte a criminali efferati e persino quelli che hanno procurato stragi nel nostro Paese - spiega all'Adnkronos - Noi non siamo giudici ma poliziotti, professionisti della garanzia della legalita'. E ogni volta che si perde una vita umana vuol dire che tutta la collettivita' ha perso, che abbiamo fallito sia nella missione di educazione alla legalita' sia nel sistema di prevenzione e repressione che ogni democrazia deve avere".

"Per chi ha scelto di essere uomo dello Stato - rimarca il sindacalista - come me e come tutti i poliziotti e' una cosa devastante quando si perde una vita umana perche' c'e' oltre al lutto e al dolore dei familiari che hanno perso quella vita c'e' anche la devastazione di chi deve rispondere, prima ancora che ai familiari della vittima e alla giustizia, alla propria coscienza, ai propri figli e alla propria famiglia". Ecco perche' io voglio tranquillizzare i cittadini e i familiari delle vittime che per noi la sacralita' e il rispetto della vita e' irrinunciabile - prosegue Felice Romano - Cosi' come sono convinto che nei cittadini e' radicato e diffuso il rispetto dei tanti onesti servitori dello Stato che hanno sacrificato la propria vita a garanzia della democrazia, a difesa delle istituzioni e dei diritti umani".

Per noi le sentenze non si discutono, per noi che siamo uomini dello Stato le sentenze si rispettano e basta, anche quando non ci piacciono e nonostante sappiano che non sempre la verita' giudiziaria e' la verita' assoluta alla quale tutti ci dobbiamo attenere. Questo e' il limite - conclude il segretario del Siulp - che distingue lo Stato e i suoi rappresentanti dall'anti Stato e i suoi accoliti".





Bentrovati.


Pensavo di scrivere qualche riga sulla bozza di riforma della pubblica amministrazione presentata ieri dal governo. Magari lo farò più avanti, ma non mi riesce questa mattina (augurando prima di ogni cosa un buon Primo Maggio a tutti voi) di tacere sull'applauso di Rimini.

Credo abbia ragione Luigi Manconi: una parte della Polizia italiana è malata. Poi lo so benissimo anch'io che i tagli alla sicurezza hanno creato fino dentro gli apparati dello Stato sacche di disagio e difficoltà che bisogna affrontare con politiche e risorse. Ma questo non toglie che l'episodio dell'altro ieri parla di un problema diverso e di un potenziale fallimento dello Stato.

Il Sap radunato a Rimini non rappresenta la maggioranza dei lavoratori della polizia. Esistono di fatto due campi sindacali. Da una parte il Siulp, il Siap, il Silp-Cgil e l'Associazione nazionale dei funzionari di Polizia. Come ricorda oggi Carlo Bonini, queste sigle sono le interpreti della tradizione sindacale che prese corpo con la riforma della Polizia nel 1981 e la scelta di smilitarizzare il corpo. Dall'altra parte ci sono il Sap, il Consap e il Coisp: la rappresentanza sindacale di una destra che ha trovato nella politica, a partire dalla tragedia di Genova, una solida sponda.

Dietro c'è la cronaca di questi mesi e di questi anni. La ferita mai rimarginata tra l'attuale ministro degli Interni e gli apparati del Viminale dopo la gestione della vicenda Shalabayeva. Tutto vero.

Altrettanto vero, però, è che quell'applauso non ha solo calpestato il rispetto e la memoria di un ragazzo di diciott'anni, ma ancora una volta è stato il riflesso di una concezione distorta dello Stato di diritto che disprezza le sentenze e ne calpesta la legittimità. 

Pensare che un lavoro difficile, faticoso e prezioso per la comunità, un lavoro malpagato e pericoloso possa tradursi in un aggiramento delle leggi e dei principi stessi di assolvimento del compito sociale a cui poliziotti sono chiamati è un modo di ragionare incompatibile con la democrazia.

E d'altra parte proprio la smilitarizzazione della polizia e la possibilità di dare vita, anche in quel contesto, a sindacati di rappresentanza dei lavoratori è stato un modo per "riconciliare" (lo spiega bene Stefano Rodotà) le forze dell'ordine con i diritti della persona e le regole civili della convivenza.

Siamo davanti a una grande questione di principio, non allo sciagurato comportamento di un gruppo di estremisti. Conviene saperlo.

Buone cose e viva il Primo Maggio.


domenica 30 marzo 2014

Non Si Cambia In Fretta La Costituzione

Non sarà una riforma autoritaria, come denunciano alcuni esponenti in un appello pubblico, ed è bene vedere il testo che verrà proposto nei prossimi giorni, sperando chiarisca le idee confuse che sono girate in questi giorni. 

Però la fretta è cattivissima consigliera nelle riforme costituzionali: un conto è smontare il CNEL, un conto è l'"abolizione" del Senato. Ritoccare il Testo fondamentale della nostra Repubblica con approssimazione non porta alcun beneficio, e rischia di creare disequilibri nel funzionamento complessivo dello Stato.

Un tempo i partiti della sinistra erano fin troppo timorosi degli eccessivi poteri attribuiti ad alcune figure. Oggi il principale partito della sinistra sembra allinearsi senza troppe remore alla "fretta" del suo leader, addirittura richiamando il Presidente del Senato alla disciplina di partito...

Per riscrivere la Costituzione bisogna essere in grado di "trascendere se stessi, i propri interessi particolari" (vd. intervista del 2010 a Zagrebelsky, che riporto qui sotto). Oggi questa riforma sembra tutta segnata dall'urgenza del particolare, dell'interesse al successo di una strategia politica, della necessità di "far vedere" che si cambia in un qualsiasi modo.

No, non si tocca così la Carta di tutti. Fermiamoci a riflettere.

Francesco Maria

Ebbene le proposte oggi in discussione si muovono in una prospettiva molto diversa: l’obiettivo sembra molto più semplice, eliminare la seconda Camera o comunque farne un organo sostanzialmente inutile o inefficiente. Si pensi in primo luogo alla composizione che mette insieme la rappresentanza di interessi diversi se non contrapposti come quelli delle Regioni e dei Comuni, secondo un modello che non esiste in nessuna parte del mondo.
Si pensi, in secondo luogo,all’incertezza che c’è circa il “peso” che questi nuovi senatori avrebbero: possibile che un sindaco di un Comune di qualche migliaia di abitanti “pesi” come un Presidente di una grande Regione? Ma, soprattutto, i dubbi riguardano più in generale l’utilità di quest’organo, che in teoria dovrebbe consentire la prevenzione dei conflitti “legislativi” tra Stato e Regioni, quando contestualmente la proposta modifica del Titolo V di fatto azzera la potestà legislativa regionale, riconducendo alla potestà esclusiva dello Stato quasi tutto ciò che può essere oggetto di disciplina legislativa ed elimina la potestà legislativa concorrente delle Regioni. 

Professore, ma che cosa è una Costituzione?
«È lo strumento attraverso il quale ci diamo una forma di vita comune. Sottolineo il comune. Per darsi una Costituzione bisogna riuscire a trascendere se stessi, i propri interessi particolari. Benedetto Croce, all’inizio dei lavori dell’Assemblea costituente avrebbe voluto che si svolgessero sotto il segno del Veni Creator Spiritus. Aveva suscitato stupore che tale invocazione provenisse proprio da uno dei massimi esponenti della cultura laica. Ma non aveva nulla di clericale. Era la consapevolezza che ci si accingeva a un’opera che ha qualcosa di sovrumano. Fare, o cambiare, la Costituzione non è fare una legge qualunque. Oggi si crede che chiunque possa mettere mano alla Costituzione, che basti volere e poi scrivere quel che s’è voluto, come una legge qualunque.
Che ingenuità e presunzione! Se si fa così, si creano mostri, dei quali, prima o poi, ci si pentirà. Un tempo si pensava che le costituzioni fossero opera della Provvidenza (De Maistre) o dello Spirito incarnato nella storia (Hegel), cioè per l’appunto di forze sovrumane. Oggi si pensa altrimenti, ma resta la questione: la Costituzione è fatta per valere nei confronti degli stessi che la fanno. Bisogna credere che questi, soggetti particolari, siano capaci di uscire dal bozzolo dei loro interessi e provvedano per il bene di tutti».

mercoledì 19 febbraio 2014

Iran, Ieri e Oggi (da laStampa)

Se gli eventi che portarono alla nascita della rivoluzione stupirono gli storici, la sua evoluzione rientrò in schemi più oliati, con un Terrore a seguire la caotica e “creativa” fase iniziale. Sorprendentemente, la repressione rivoluzionaria provocò più morti di quella di Mohammad Reza Pahlavi. Khomeini contò 60 mila persone uccise dallo Shah, e ancora adesso nel preambolo della costituzione islamica si parla di “decine di migliaia di morti”. Ma Emadeddin Baghi, intellettuale di spicco e rivoluzionario della prima ora(che ha passato buona parte degli ultimi anni in galera) ha ricostruito, attraverso documenti ufficiali, un numero più basso: 3164. Mentre le vittime delle purghe rivoluzionarie sarebbero diverse centinaia dopo la presa del potere e circa 8 mila tra il 1981 e il 1985, in piena guerra con l’Iraq, e negli anni successivi. La disgrazia del successore designato di Khomeini, l’ayatollah Montazeri, morto nel 2009, sarebbe stata provocata proprio dalle sue critiche alla durezza della repressione islamica: nel 1989 si era opposto al massacro degli oppositori in prigione, 2500 persone uccise in poche settimane.

In un paese diviso in molte nazionalità di cui quella persiana è soltanto una, Khomeini cercò di dare al paese un’identità esclusivamente islamica, imponendo allo stato un ingombrante profilo ideologico. Nonostante ciò il nazionalismo persiano è tornato in tempi recenti ad emergere anche in ambienti considerati conservatori, come l’entourage dell’ex presidente Ahmadinejad.

La miglior eredità della rivoluzione del 1979 resta la Costituzione che racchiude in sé un raffinato meccanismo di pesi e contrappesi. Un bilanciamento di poteri che però, si è visto negli ultimi anni, è spesso rimasto sulla carta, scavalcato da una gestione autoritaria del potere. La costituzione iraniana contiene infatti molti elementi “progressisti”, retaggio della sua componente marxista, molto attiva nel 1979. “La sinistra - spiega l’analista politica irano-americana Shereen T. Hunter - voleva un sistema socialista con un sottile rivestimento islamico, invece ottenne un sistema islamico con un sottile rivestimento di sinistra”.

Le rivoluzioni, determinate a sciogliere ogni differenza nell’ideologia che le informa, finiscono immancabilmente per da vita a classi privilegiate, come mostra il fenomeno della burocrazia di stato nei “comunismi reali”. Nell’Iran di oggi questi agglomerati di potere che si sono ritagliati un posto di riguardo nella società e nell’economia sono le grandi istituzioni caritatevoli e soprattutto la Guardia Rivoluzionaria, i pasdaran, che hanno dato vita a una specie di stato nello stato, sul modello dei militari turchi prima dell’era Erdogan (ironicamente, i militari turchi erano un modello anche per la famiglia Pahlavi). Questa struttura, insieme con l’impatto devastante delle sanzioni, almeno dal 2006, rende l’economia del paese estremamente fragile e dipendente dal petrolio. Secondo la banca centrale iraniana, l’inflazione a gennaio era del 38,4 per cento. Su una popolazione di circa 80 milioni di persone, 15 milioni vivono sotto la soglia della povertà. In questo senso, certo anche a causa della forte pressione politica esterna, le promesse rivoluzionarie di condividere socialmente la ricchezza del petrolio, non sono state mantenute.

mercoledì 13 novembre 2013

Egitto: Stato d'Emergenza Revocato

(ASCA) – Roma, 12 nov – L’Egitto ha revocato lo stato di emergenza e il coprifuoco nel Paese “tre giorni prima del previsto”. Lo ha reso noto una fonte del governo egiziano ai media locali.
L’Egitto aveva annunciato lo stato di emergenza il 14 agosto scorso, nell’ambito degli scontri tra sostenitori e oppositori del deposto presidente Mohammed Morsi, che avevano generato violenze in tutto il Paese.(...)
Egypt's government says it is lifting the country's three-month state of emergency and night-time curfew.
The move comes two days earlier than expected, after a court ruling.

sabato 9 novembre 2013

Egitto, svolta dei militari: “Al voto entro inizio 2014” (da laStampa.it)

Qualcosa in Egitto finalmente si muove. A oltre quattro mesi dal golpe che ha portato all’arresto del presidente islamista Mohamed Morsi, oggi il ministro degli Esteri Nabil Fahmy ha annunciato che entro l’inizio del 2014 il Paese avrà un nuovo Parlamento. «Tra febbraio e marzo - ha detto Fahmy - i cittadini saranno chiamati al voto per le elezioni politiche. In estate verrà scelto il Presidente». Dopo centinaia di vittime, scontri e arresti l’Egitto sembra pronto a voltare pagina. Ancora non è chiaro se la formazione di Morsi parteciperà al voto. Fahmy ha annunciato che «il partito dei Fratelli musulmani è legale», lasciando così intravedere un’apertura. Ma una controversia giudiziaria sulla sua legittimità è ancora in corso.  

La chiamata alle urne fa comunque parte di una road map adottata dal governo dei militari di Abd al-Fattah Khalil al-Sisi. La prima tappa prevede l’adozione di una nuova Costituzione, alla quale sta lavorando un comitato costituente. Poi il testo verrà sottoposto a referendum popolare. Le autorità prevedono di concludere entro fine anno, aprendo così la strada alle elezioni legislative per i primi mesi del 2014.  (...)


giovedì 31 ottobre 2013

Non E' Quello Il Problema (legge elettorale e preferenze)


No alle preferenze. Non è quello il problema della legge elettorale. 


Non mi interessa esprimere una preferenza, se la campagna elettorale arriva a costare cifre impensabili e se i partiti non sono in grado di fare un lavoro collettivo e plurale che garantisca stabilità, governo e al tempo stesso capacità di ascolto dei cittadini. 

Perché la preferenza - con un peso eccessivo delle spese elettorali e con partiti deboli (che non è lo stesso di leggeri, forse oggi abbiamo partiti pesanti e deboli...) - è totalmente inutile, è una parvenza di democrazia.

Non è la preferenza che fa il buon rappresentante, ma un insieme strutturato di pratiche e regole che fanno sì che il lavoro delle Camere sia ben compreso dai cittadini, e controllato alle scadenze naturali (non in ogni secondo con il ricatto di una tv...). 

La forza della politica è la solidità delle istituzioni, e non dipende dal voto dei cittadini. Costituzionalismo e liberalismo sono precedenti alla - e indispensabili premesse della - democrazia.

FMM

mercoledì 30 ottobre 2013

Fuga Sbagliata

Scelta sbagliatissima, arrendersi alla proposta di voto palese sulla decadenza di Berlusconi.


Questa fuga dalla responsabilità politica mi ricorda - con angoscia - le dimissioni repentine e frettolose dei ministri PDS dal governo Ciampi, dopo che Craxi era stato salvato da un voto parlamentare. Fu l'illusione di apparire distanti, altri, puri. Un'illusione che è quasi sempre fallace, e pericolosa, in politica. 

Chissà se si ripeterà lo scenario di allora. 

Mi consola leggere che molti altri - da quel che si legge nei social network - percepiscono la gravità dell'errore. Forse un giorno capiremo meglio che questi sono stati tempi confusi, in cui la sinistra e la destra si sono mescolate in una nebbia di incapacità e debolezza, di quasi totale mancanza di leadership, se proprio vogliamo chiamarla così. 

Non sarà però un nuovo leader - giovane o bello che sia - a risollevare il tono complessivo del Paese. Sarà uno sforzo comune, non la mossa geniale di un trascinatore. Sarà un percorso lento e contraddittorio. 

Perché è così la democrazia, anche quella che decide. Lenta e un po' assurda. 
Ma la talpa scava, e sconfigge la confusione. Che questi siano gli ultimi colpi della notte...

Francesco Maria Mariotti

mercoledì 16 ottobre 2013

Le riforme non più rinviabili (da laStampa.it)

Il vero difetto della via prescelta per modificare la Costituzione è, ancora una volta, la tentazione di una complessiva «grande riforma», che appare invece chiaramente impossibile per le troppe contrapposizioni e per la stessa modesta elaborazione culturale dinanzi agli attuali enormi nuovi problemi. Ma piuttosto che fallire ancora una volta, ci deve essere lo spazio per approvare le più pressanti riforme istituzionali, su cui – almeno in apparenza - esiste un vasto consenso: ed è ovvio che si pensi alla trasformazione delle due Camere, ad una razionalizzazione del sistema di governo e di legislazione, ad una sostanziosa modernizzazione del sistema regionale e di amministrazione locale (oltre ovviamente alla nuova legge elettorale). Anche queste riforme esigono però grande impegno di progettazione e di scrittura: ma allora non si comprende davvero il senso delle troppe diffidenti contrapposizioni, dal momento che dovrebbe essere a tutti chiaro che riforme del genere, se fatte bene, possono largamente sbloccare il nostro sistema istituzionale.

sabato 21 settembre 2013

Intervento del Presidente Napolitano all'incontro di studio in ricordo di Loris D'Ambrosio

Parto naturalmente dal titolo e dalla funzione di magistrato di cui Loris D'Ambrosio era orgogliosamente portatore. Il titolo di "impiegati pubblici", riferibile in Costituzione anche ai magistrati, non dovrebbe mai essere usato in senso spregiativo ma non può peraltro oscurare - da nessun punto di vista - la peculiarità e singolare complessità delle funzioni giudiziarie. Non c'è nulla di più impegnativo e delicato che amministrare giustizia, garantire quella rigorosa osservanza delle leggi, quel severo controllo di legalità, che rappresentano - come ho avuto più volte occasione di ribadire - "un imperativo assoluto per la salute della Repubblica". Anche la considerazione della peculiarità di questa funzione, e l'inequivoco rispetto per la magistratura che ne è investita, sono invece stati e sono spesso travolti nella spirale di contrapposizioni tra politica e giustizia che da troppi anni imperversa nel nostro paese.

Il superamento di tale fuorviante conflitto, gravido di conseguenze pesanti per la vita democratica in Italia, ha rappresentato l'obbiettivo costante del mio impegno fin dall'inizio del mandato di Presidente, e nessuno più di Loris D'Ambrosio mi ha aiutato a definirne i termini e le condizioni. E nulla è stato più paradossale e iniquo che vedere anche Loris divenire vittima di quello che il professor Fiandaca ha chiamato "un perverso giuoco politico-giudiziario e mediatico". La cui impronta mistificatoria si è fatta risentire proprio oggi forse in non casuale coincidenza con questo incontro.

venerdì 20 settembre 2013

Costituzione: Maneggiare Con Cautela E Senza Fretta, Seguendo Le Regole

Indipendentemente dalle convinzioni politiche di ognuno (sono lontanissimo - ma proprio molto lontano - da taluni movimenti politici presenti oggi in Parlamento, ma questo non è importante) penso che la Costituzione andrebbe cambiata solo con l'applicazione integrale dell'articolo 138. 

Mi lascia molto perplesso la soluzione attualmente scelta. 
Anche perché le riforme costituzionali a mio avviso non sono una priorità.

(sul perché non lo siano ragionavo un po' di tempo fa su FB, parlando però più nel dettaglio di presidenzialismo. Riporto comunque la nota di seguito)

FMM

Presidenzialismo: Maschera Forte Senza Vera Sostanza?

3 maggio 2013 alle ore 0.42

C'è aria di presidenzialismo in Italia; voglia - corretta, da un certo punto di vista - di semplificare, razionalizzare, rafforzare il sistema di governo italiano. E desiderio di riconnettere le istituzioni ai cittadini.  Ma l'idea di un presidenzialismo alla francese continua personalmente a non convincermi.

Provo ad argomentare meglio, anche se sinteticamente, perché l'operazione complessiva che si sta impostando intorno a una riforma presidenziale non mi convince.

1. Abbiamo ancora bisogno di una figura di garanzia: è diverso se un Presidente - anche se nasce votato da un maggioranza - è chiamato a diventare Presidente di tutti (come è stato con Napolitano), oppure se un Presidente "nasce" in una competizione elettorale, di fatto legittimato quindi ad essere "pienamente di parte", per così dire. E in un sistema ad alto tasso di tensione politica, rischiamo di perdere un punto importante di mediazione e coesione nazionale.
(Per motivi simili ho forti perplessità anche in relazione all'idea di eleggere direttamente un Presidente della Unione Europea).

2. Un presidente "forte" di per sé non è sinonimo di governabilità e capacità di decisione; se non si calibra con attenzione tutta la architettura costituzionale "sottostante" il Presidente eletto, si rischia di costruire un gigante con i piedi d'argilla; questo può avvenire - per esempio - sia perché si fa una legge elettorale non risolutiva (e dunque il Parlamento rimane debole e questo minerebbe la solidità complessiva del sistema), sia perché (e forse soprattutto se) non si studiano tutti i dettagli degli "interna corporis", non dando al Presidente tutti i giusti poteri esecutivi. Già questo in un certo senso accade oggi alla figura del Presidente del Consiglio, che andrebbe - questa sì -rafforzata anche in relazione ad alcuni meccanismi di coordinamento e  di guida del Cosiglio dei ministri (si legga per esempio un interessante articolo di AffarInternazionali, che lega alcune problematiche del "caso Marò" con difficoltà di gestione unitaria da parte del Premier: "La cosa sembra assurda, e certamente è un danno grave per la credibilità del Paese, ma è resa possibile dalla natura scoordinata e pressoché anarchica del sistema italiano di governo. Benché il Presidente del Consiglio abbia la responsabilità di assicurare la linea politica del Governo, egli non è un Primo Ministro come in Gran Bretagna né ha i poteri del Cancelliere in Germania." Stefano Silvestri, Caso marò, chi non comanda in Italia, AffarInternazionali, 24 marzo 2013). Per dirla in un altro modo, se non si analizzano e si riequilibrano tutti i nodi del sistema il rischio è di creare una Maschera Forte, ma Imbelle. Per fare un esempio analogo, per certi aspetti: anche i mutamenti di legge elettorale che abbiamo fatto negli scorsi anni non hanno creato tutte le ricadute positive previste per lo stesso ordine di motivi; per esempio, perché si sono lasciate immutate  per molto tempo - se non vado errato - alcune norme interne delle Camere, così che non si è riusciti a evitare la frammentazione post-elettorale delle maggioranze anche vincenti e teoricamente "forti".

3. Guardiamo all'estero: quale nazione sta guidando l'Europa? la Germania. Berlino ha un sistema presidenziale? nient'affatto, ma ciò nonostante - secondo molti grazie all'Agenda 2010 di Schroeder - la Germania ha vinto le sue debolezze ed è ora la "locomotiva" del nostro continente. Senza entrare nel merito di quel complesso piano di riforme, va detto che comunque fu effettivamente radicale e fu impostato senza bisogno di un Presidente Forte, o simili "fantasie istituzionali". Al contrario, mi pare, della Francia. Che continua a "coprire" con un'ottima amministrazione e con un Presidenzialismo gaullista (ma che senza un De Gaulle non è egualmente efficace) la sua sempre più evidente incapacità di affrontare alcuni problemi. Per dirla in breve: non c'è sistema o riforma istituzionale che tenga, se manca la chiarezza di idee e la capacità di un sistema politico nel suo complesso di affrontare alcune sfide.

Questi, in breve, i motivi del no a un presidenzialismo che rischia di essere un'illusione. Possiamo fare - e dobbiamo fare - alcune vere riforme di sostanza, per esempio nel rendere più forte la figura del Premier, senza la necessità di rinunciare ad alcuni importanti simboli - e poteri - di garanzia.
E soprattutto, forse è necessario rinunciare all'illusione che la riforma delle regole sostituisca la capacità di trovare soluzioni ai problemi del Paese.

Francesco Maria Mariotti