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sabato 4 aprile 2015

Governare E' Più Difficile (Dario Di Vico, Corriere)

(...) Tra i tanti fattori che influenzano l’opinione pubblica i sondaggisti dicono che ce ne sono due prevalenti: l’andamento delle tasse e le dinamiche del mercato del lavoro. Proprio osservando entrambi questi indicatori gli italiani ne ricavano una sensazione pessimistica e il caso ha voluto che le ultime due rilevazioni dell’Istat abbiano finito per confermarla, quella sul tasso di disoccupazione di febbraio 2015 diffusa nei giorni scorsi e quella sulla pressione fiscale 2014 emessa ieri. In entrambe le occasioni il dato Istat avalla lo scetticismo degli italiani e in qualche modo smentisce l’ottimismo ostentato dal governo, come nel caso del ministro Giuliano Poletti che aveva parlato di un milione di posti di lavoro in arrivo il giorno prima dei dati negativi di febbraio. L a scaramanzia, se non la conoscenza dei fatti, dovrebbe consigliare più prudenza e comunque è chiaro che indulgere a messaggi eccessivamente «rotondi» non favorisce, in questa fase, il rapporto con i cittadini.
 
In particolare, per quanto riguarda il mercato del lavoro, il governo dovrebbe sapere che gli effetti del combinato disposto tra ripresa e Jobs act non saranno immediati: Pietro Nenni non trovò mai la stanza dei bottoni semplicemente perché non esiste e comunque l’economia ha sue dinamiche che non sono riconducibili al puro comando politico. (...)
 
Il governo replica che gli 80 euro non vengono contabilizzati come taglio delle tasse, bensì come spesa sociale (e si spiega così il dato sull’aumento delle uscite per +0,8%), ma la sensazione che resta è una: tutta quell’operazione ha sicuramente dato a Renzi un dividendo politico (alle Europee) ma non ha prodotto lo stesso esito in campo economico. È mancata la capacità di gestirla in maniera fruttuosa, si è pensato più a cavalcare l’elemento politico-propagandistico che a curare la trasmissione di quel taglio ai consumi e all’economia reale. Governare è più difficile che tener botta a un intervistatore.
 

giovedì 2 ottobre 2014

La Fiducia E La Società Complessa

Fra tutte le riflessioni che sto leggendo in questi giorni, un commento apparso oggi sul Sole24Ore mi è parso particolarmente interessante. Alberto Orioli coglie bene la contraddizione che rischia di minare alla base tutta la logica dell'azione governativa, forse ben più che le proposte poco meditate, o l'allarme sulla nostra situazione economica - espresso in vari modi - di Europa, BCE, Fondo Monetario. 

Il vero nodo è che la retorica di Renzi - pur molto funzionale a raccogliere un consenso - si basa su una visione sbagliata della società italiana: la società "fluida" - come si è soliti chiamarla - non è affatto più semplice, e non è governabile con tweet o "disintermediando" tutta la comunicazione, attraverso video su youtube.

Snobbare i corpi intermedi è tentazione financo comprensibile, ma sempre pericolosa.
Alla fine si snobba comunque il paese e si nega la realtà complessa dei sistemi sociali, danneggiando la comunità.

Forse non si crea un modello politico autoritario, come molti paventano; più banalmente si crea un modello poco intelligente, poco funzionale, alla lunga inefficace.
E questo paese non ne ha bisogno.

FMM

(...) Ma il vero rischio di un possibile flop per questa ulteriore iniezione di quasi-salario è nella confusione delle ipotesi diagnostiche: la crisi di domanda è crisi di fiducia, e non sono la stessa cosa. Per rilanciare la fiducia non servono solo più disponibilità per chi già ne abbia (l'operazione Tfr non riguarda naturalmente il grande mondo degli esclusi: disoccupati, poveri, precari) ma condizioni di sistema che modifichino la percezione della realtà e l'idea stessa del futuro. Insomma, non bisogna più avere paura del domani. Ma non bastano 80 o 100 euro a comprare buonumore. L'ottimismo non è in vendita. (...)

Il programma strategico di Renzi dell'operazione fiducia confligge e si sfarina con il programma strategico di Renzi dell'ideologia della disintermediazione. Non è vero – o non è ancora vero – che i social network possono sostituire le tante articolazioni sociali. Nè è sufficiente, per la storia del Paese, confidare solo nella composizione delle posizioni dei partiti (anche perchè, magari, si rischiano mediazioni pasticciate come sembra essere diventata quella sull'articolo 18). Certo, c'è molto da modernizzare anche nei cosiddetti corpi intermedi ed è tempo di ridurne il tasso di corporativismo in nome di un superiore interesse generale. Nè servono liturgie stantie o bizantinismi solo formali se non ci sono contenuti e significati veri. La società italiana è piena di incrostazioni, ma serve un lavoro di fino e paziente per pulire la chiglia, non la scorciatoia di gettare via tutta la barca. I contenuti esistono e rimangono: la mediazione sociale dà trama e ordito forte alla democrazia partecipativa. (...)

E così, anche oggi, si rischia di confondere lo strumento con lo scopo. Saranno le rappresentanze, certo riformate, snellite, modernizzate, a usare i social network e le comunità digitali per gestire le loro posizioni di interesse. Alla politica governante spetta la composizione di quegli interessi, la mediazione di alto profilo organizzata sulla rotta del bisogno generale. Che non sempre è quello di un uomo solo al comando che tweetta a 60 milioni di follower. Soprattutto in un Paese che rischia di avere 60 milioni di interessi singoli, tutti diversi e tutti confliggenti. Anche perchè, se così fosse, basterebbe un flash mob innescato con uno dei tanti tweet da Palazzo Chigi: il giorno x spendiamo 50-60-100 euro tutti insieme, la domanda avrà un sussulto, il Pil pure. Può valere, forse, per il Paese virtuale, quello reale ha bisogno di altri stimoli a cominciare da una vera, radicale riforma fiscale.

di Alberto Orioli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/z3ozTR

domenica 7 settembre 2014

L'Invincibile Debolezza Della Politica

Non so a chi fossero esattamente rivolte le parole del Presidente del Consiglio contro i "tecnici" che sarebbero cresciuti all'ombra della prima Repubblica.​ Ma è il caso di annotarle, insieme alle parole contro le élites che si riuniscono a Cernobbio, e quelle contro i professoroni e le parti sociali.

Forse sono parole di successo; successo facile; ma questo non toglie che possano assumere un significato inquietante, e che denotino più frustrazione che non vera capacità di leadership.

Frustazione che è la frustrazione della politica, italiana e non solo, angosciata - comprensibilmente - dalle difficoltà che incontra nel tentativo di riacquistare un'"autonomia" che non può più avere; questo non perché vi siano Tecnocrati Cattivi che complottano insieme ai Grandi Magnati della Finanza sulle rive di un lago, ma perché il mondo dopo il Muro si è svelato nella sua complessità, e si è reso (più) evidente che non puoi guidare la macchina-Stato senza relazionarti con le altre realtà. E se sbandi, puoi anche avere il 90% dei voti, ma prima o poi le altre vetture ti chiedono di accostare e di far guidare chi è più "competente". 

In quanto al desiderio di "saltare" le mediazioni sociali, c'è chi può giudicarla come la rivendicazione democratica dell'eguaglianza del voto dei cittadini. 
Legittimo pensarlo così, ma  - temo - falso.

La rete delle regole democratiche non vive d'aria, ma si "incarna" in una data società, in un dato tempo, in una data condizione di rapporti sociali, che non vengono "annullati" dal voto; certo, il voto eguale è un elemento essenziale della nostra comunità politica, per fortuna. Ma il giorno dopo il plebiscito, le rappresentanze sociali riprendono il loro "autonomo" (per quel che possibile) significato, e pretendono - inevitabilmente - di essere ascoltate dalla politica.

Dire che si possono "saltare" i corpi sociali, può significare quindi solo immaginare una società politica semplificata, ma falsa. E le rappresentanze sociali sarebbero comunque presenti, magari sotto aspetti peggiori (questo il rischio, per esempio, nella continua denigrazione dei sindacati confederali, certo bisognosi di profonda riforma: che - sconfitti loro - possano apparire al loro posto sindacalismi non regolati e poco inclini alla mediazione; altro che scomparsa del conflitto...).

Conviene accogliere con sano scetticismo, quindi, le "prove di forza verbali" della politica. 

Sarà lungo - e non semplice - il cammino che può portare una politica europea a rifarsi forte e autorevole; e non passerà per i bei discorsi, ma per arricchimento di "competenze" e capacità di costruire relazioni complesse, senza desiderio di abbattere avversari fantasiosi e troppo comodi.

Francesco Maria Mariotti

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venerdì 13 giugno 2014

Prepotenza, Solo Piccola e Sciocca, E Pericolosa, Prepotenza

Un po' di tempo fa ho scritto: "(...) Forse nella figura "leaderistica" - e un po' populista - di questo Presidente del Consiglio l'italia ritrova la periodica tentazione di credere nel "seducente" obiettivo del "primato della politica". Tale espressione - che affascina perché sembra voler riportare "ordine" nelle dinamiche sregolate dell'economia - purtroppo il più delle volte è semplice copertura di poche idee e poca concretezza, surrogate da "volontarismo" e "velocità". 
L'uscita dalla crisi non può avvenire per improvvisazioni. Il cammino sarà lungo, e le scorciatoie e le furbizie (correre alle elezioni dicendo che questo Parlamento non lo lascia lavorare, per esempio?) non funzioneranno, o faranno danni.(...)" (http://mondiepolitiche.blogspot.it/2014/02/inizio-preoccupante.html)
Di seguito qualche riflessione su quanto sta succedendo, in questi giorni, e che temo confermi quello che poteva sembrare un mio eccesso di pessimismo.

FMM

Senza dubbio c'è del vero in questo ragionamento. Come è noto, anche l'inglese Gladstone ai suoi tempi sosteneva che «tra la propria coscienza e il proprio partito si deve scegliere il secondo». Tuttavia è singolare che il Pd renziano stia riscoprendo oggi una forma di «centralismo democratico» che riporta a una tradizione politica alla quale egli è estraneo. Ma c'è dell'altro. Nel momento in cui s'intende riformare il Senato, è pericoloso dare l'impressione di voler soffocare il dibattito e zittire le voci fuori dal coro: specie quando si tratta di abolire o trasformare radicalmente un'assemblea legislativa. Sotto questo aspetto, il caso Mineo diventa il paradigma di un errore politico.
 
di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/FSjQNY
 
Chiti e Mineo fuori dalla commissione Istituzionale. Come definirebbe questa operazione del Pd?
«Una decisione di Renzi, eseguita da Zanda, perché oggi lo stesso premier l’ha rivendicata dalla Cina. A volte queste cose venivano dalla Bulgaria, ma evidentemente siamo ancora più esotici. È una scelta molto grave dal punto di vista dei rapporti interni del partito e del gruppo. In secondo luogo è un errore politico perché la sostituzione dei due senatori non impedisce che le contraddizioni si manifestino poi in aula, cioè quando si andrà davvero a votare la riforma del Senato. Il testo Boschi passerebbe in commissione, ma non in aula, dove le perplessità riemergerebbero, a maggior ragione dopo l’umiliazione costituzionale di mercoledì. E allora la mia domanda è: “Non è che questa sostituzione di Mineo nasconda le difficoltà di tenuta dell’accordo con Berlusconi? Avrebbe una grande maggioranza con Forza Italia per votare le riforme, quindi perché tanta prepotenza?»
 
Tredici senatori vicini alle sue idee si sono autosospesi dal partito. L’onorevole Corsini ha definito la vicenda «un’epurazione». Casson parla di «metodi militari».Qualcun altro dice che questo è il «renzismo».
«Non userei questi toni. Semplicemente è un momento di superficialità e di prepotenza di chi interpreta questa nuova fase. Un atteggiamento molto grave nella consuetudine e nella conversazione democratica. Ricordo quando i dissidenti erano i renziani. Noi stavamo votando tra mille incertezze il presidente della Repubblica, loro addirittura votavano un loro candidato: Sergio Chiamparino. Martedì Giachetti, il furbo renziano, in aula ha dichiarato di votare con le destre sulla responsabilità civile dei magistrati. E fa il vicepresidente della Camera, non fa il dissidente per conto Pd. Mi sorprende che dal “dissenso strategico” che lo ha portato a scalzare un intero gruppo dirigente del Pd, ora Renzi sia passato ad una logica di ortodossia vecchio stile e molto pesante».
 
Potrei chiedere come fa il governo a sapere che quei dodici milioni di italiani hanno votato specificamente per la riforma Renzi sul Senato. Potrei chiedere di quali elettori si parla. Perché se si parla di quelli che hanno eletto l'attuale Parlamento, allora il Premier attuale non è stato votato e Mineo sì. Se invece parla del voto per le Europee andrebbe ricordato che il pur immenso consenso non è comunque consenso politico diretto.
In ogni caso gli eletti, come abbiamo ricordato di recente in merito alla ondate di espulsioni dal M5S, hanno diritto alla libertà di opinione. Come del resto i militanti di partito - in questo caso, se parliamo al segretario del Pd, mi pare che andrebbe ricordato che in quel partito si è lavorato una vita (del Pd stesso e di varie generazioni di militanti) per affermare il diritto al dissenso interno, con conseguente richiesta di affrontare questo dissenso con pratiche il più possibile lontane dallo stalinismo.
Questi sono naturalmente dettagli. Si sa che i renziani credono che il potere che hanno in mano vada gestito in maniera decisionista. Chi dissente è palude, lo sappiamo.
Tuttavia, visto che la convivenza civile è fondata sulla salvaguardia - che nel suo piccolo riguarda la salvaguardia delle regole - non posso che segnalare che brandire l'investitura popolare come legittimazione ad agire forzando le regole costituisce una tentazione autoritaria. Non farò a Renzi il torto di accostarlo a Berlusconi, perché sappiamo che ha ambizioni e riferimenti storici molto più alti.
Nelle sue idee il paragone è Blair, o Obama. Peccato che anche la traiettoria di questi leader dimostri che il vasto consenso popolare non fornisce un passaporto con il destino. Blair è alla fine caduto nella trappola delle sue forzature (ricordate l'Iraq? In queste ore qualcosa di molto drammatico ce lo ricorda) e Obama in quelle della sua inefficacia.

Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio. (...)
Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.

Ma certo mi stupisce che anche i più strenui difensori del valore dibattimentale a un certo punto crollino. Da ultimo leggevo l’articolo di poche ore fa di Roberto Giacchetti, che ieri da garantista ero molto contento che avesse guidato una fronda interna al PD per fare votare a favore della responsabilità dei giudici (seppure in un decreto omnibus molto arrangiato ma sic). Ecco che invece oggi molla l’idea che ci possa essere una discussione nel merito sulla riforma del Senato. “E innumerevoli volte Renzi ha affermato che il voto sulla sua persona sarebbe stato anche una formale approvazione del suo programma nel quale appunto c’era questa specifica proposta di riforma costituzionale.” O con Renzi o contro di Renzi, qualunque cosa questo significhi.
Ora, uno con un minimo di coscienza democratica, uno con il desiderio di confrontarsi come dire, uno ancora non fulminato sulla via di Rignano sull’Arno, può farmi capire qual è il valore politico in sé di una battaglia contro le minoranze? Qual è il valore politico di una mancata discussione sulla riforma del Senato che coinvolga anche voci dissenzienti come Mineo, Chiti o sì anche Mauro di Per l’Italia? (...)
Essere sul carro del vincitore, credo, generi uno strano effetto galvanizzante. Si va avanti spediti, come alla guida di una macchina di un videogioco automobilistico, o Grand Theft Auto. Intorno i pedoni, gli altri autisti, la gente che incrociamo, che attraversa le strisce, persino quelli che ci stanno a guardare sugli spalti… possiamo spazzare via tutto, senza nemmeno usare troppo il volante, investirli semplicemente spingendo ancora il piede sul pedale. Vogliamo dire che stiamo guidando il Paese avanti, rapidi, sicuri, perché ce ne freghiamo di qualunque cosa che ci passi vicino?


giovedì 29 maggio 2014

La Golden Rule dei sogni (da Phastidio.net)

Pare che il premier Matteo Renzi proverà nuovamente, in sede europea, a chiedere l’esclusione degli investimenti pubblici dal computo del rapporto deficit-Pil. Si tratta di una antica aspirazione dei politici italiani, sinora sistematicamente frustrata perché più che altro rimasta nel libro dei sogni, essendo stata sempre ignorata a livello comunutario. Cambierà qualcosa, oggi?
L’idea di Renzi sarebbe quella di escludere dal calcolo gli investimenti pubblici, inclusi quelli per scuola e ricerca. Inoltre, il premier italiano vorrebbe escludere dal calcolo del deficit-Pil anche il cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali europei. Questi ultimi si svolgono in regime di matching funds, cioè per ogni euro erogato dalla Ue vi è un euro di spesa pubblica da parte del paese destinatario. All’Italia arriveranno, tra il 2014 ed il 2020, fondi comunitari pari a 43 miliardi di euro, ed altrettanti dovranno essere messi dal nostro governo. Metterli a deficit potrebbe dare un aiutino, ma solo se tali fondi avranno impatto elevato in termini di efficacia di sistema sulla crescita.
Il problema di queste iniziative politiche è sempre quello: la definizione di ciò che è “investimento”, ed i relativi margini per giochetti contabili nazionali. L’occasione fa il governo ladro (letteralmente), e ci vuole davvero poco per camuffare spesa corrente in spesa per investimenti. Quindi, ammesso e non concesso che il paese sia in grado di spendere in modo efficace ed efficiente i fondi comunitari (la vera rivoluzione di cui avremmo bisogno), servirebbe comunque una supervisione molto stretta da parte della Ue, ad evitare abusi e frodi contabili. Per ottenere ciò si potrebbe pensare quindi a mettere in campo lo strumento degli accordi di partnership bilaterale, già vagheggiato dalla Merkel.
Solo che la declinazione tedesca di questi accordi era quella di una camicia di forza e di una sorta di “nuovo memorandum”, per niente light, per paesi che non sono in assistenza della Troika, mentre Renzi non si spinge a dettagliare le modalità di controllo ma vuole solo ottenere “flessibilità contro riforme”. (...)

mercoledì 28 maggio 2014

Vittoria Netta, Ma Il Voto Non Decide Tutto (da Talpa Democratica)

Segnalo che su Talpa Democratica è stato gentilmente pubblicata una mia riflessione sul voto europeo, schematizzata per punti.
Buona lettura

Francesco Maria

***

Fattori “oggettivi”, e in linea di massima positivi:

1. Vittoria netta. Renzi si conferma campione dal punto di vista elettorale
2. E’ stato arginato Grillo.
3. C’è qualche speranza di incidere in Europa, per proporre cambiamenti sulle politiche della crescita (...)

Fattori “critici”:
1. Sembra “scomparire” una opposizione organizzata; a destra è in atto una grave crisi, che può indurre un atteggiamento non costruttivo sulle riforme
2. La situazione europea è a rischio instabilità: per dire uno dei tanti possibili problemi, come si dichiareranno gli euroscettici nel caso la crisi russo-ucraina peggiorasse (come sta già avvenendo)?(...)

Fattori per cui la valutazione non cambia e non può cambiare, quale che sia la percentuale di consenso:

1. Le coperture degli 80 euro sono molto discutibili, oggi e soprattutto negli anni futuri; permane la sensazione che si sia voluto “imporre” l’obiettivo politico al di là delle compatibilità economiche.
1bis. Sui problemi di bilancio non si ammettono improvvisazioni per l’Italia, né “pagherò” leggeri. Le coperture e il processo di risanamento devono essere chiari soprattutto per gli investitori esteri, ma non solo per loro.
2. La riforma del Senato e la proposta di riforma elettorale rimangono grandemente imperfette (è un eufemismo; sarebbe meglio buttarle nel cestino e rifarle da zero)(...)

lunedì 5 maggio 2014

Vita in provincia – Il Jobs Act che non vi fu (da Phastidio.net)

(...) Forse è arrivato il momento di fare un minimo di fact checking su questa storia del “Jobs Act di Obama”.

Intanto, diciamo che negli Stati Uniti ci sono stati due Jobs Act. Uno, che è quello che è effettivamente nato, è l’acronimo di Jumpstart Our Business Startups, ed è finalizzato a sostenere l’imprenditorialità e lo sviluppo della piccola e media impresa essenzialmente attraverso la semplificazione della regolamentazione federale nella raccolta di capitale. Le disposizioni di quel JOBS Act hanno permesso, tra le altre cose, lo sviluppo di forme di crowdfunding d’impresa limitando notevolmente gli adempimenti. Ad esempio, tramite piattaforma web, oggi le piccole imprese possono raccogliere sino ad un milione di dollari annui di capitale da piccoli investitori-donatori, sotto ovvie regole di protezione del risparmio stabilite dalla SEC.
Inoltre, quella legge prevede l’estensione del cosiddetto “mini-IPO offering“, che ora consente di raccogliere sino a 50 milioni di dollari di capitale (in luogo dei precedenti 5), in un contesto di adempimenti SEC semplificati. Da ultimo, è stato creato il cosiddetto IPO On-Ramp, che consente alle imprese giovani e ad alto tasso di crescita di attendere un periodo sino a 5 anni dopo la quotazione in borsa prima di mettersi in regola con le disposizioni SEC in materia di revisione contabile e di disclosure al mercato.
In estrema sintesi, questo JOBS Act (Jumpstart Our Business Stratups) è un provvedimento, convertito in legge con appoggio bipartisan, che consente alle PMI la raccolta di capitale con meno intralci burocratici, pur con vincoli di tutela del pubblico risparmio e degli investitori. Ora, la domanda è la seguente: per caso questo è il modello di JOBS Act a cui Renzi si ispira, da sempre? No, ad evidenza. Non esiste alcun atto legislativo dell’attuale governo che vada in direzione anche vagamente simile a questa.
Quindi, per forza di cose, il Jobs Act di cui parla Renzi anche quando gli chiedono l’ora deve essere l’American Jobs Act. Che era costituito da un paio di disegni di legge di iniziativa presidenziale (e stampo moderatamente keynesiano), presentati a settembre 2011 e volti a ridurre quella che all’epoca era una disoccupazione alta, persistente e con una inquietante componente di lungo periodo (all’italiana, in pratica). Tra le previsioni dei due bill di Obama, vi erano la riduzione dei contributi sociali per imprenditori e lavoratori a reddito medio-basso, lo sviluppo di un piano di ammodernamento infrastrutturale e di opere pubbliche (anche attraverso la creazione di una banca specializzata, a capitale misto, pubblico e privato), l’erogazione di somme per proteggere l’occupazione di insegnanti, poliziotti e vigili del fuoco che la recessione aveva espulso dal lavoro statale, ed anche la possibilità di sviluppare il crowdfundingper le PMI.
Di fatto, solo quest’ultima previsione è diventata legge, circa un anno dopo, dei sette disegni di legge in cui i due originari bills furono spacchettati, nel tentativo di agevolarne l’approvazione, superando il fuoco di sbarramento dei Repubblicani e le perplessità di parte dei Democratici. Quindi, per amor di sintesi, l’American Jobs Act non vide mai la luce. (...)

mercoledì 19 marzo 2014

F35 Sì, F35 No, Comunque Abbiamo Bisogno Di Aerei

Di seguito presento una breve rassegna stampa, con articoli anche non scritti negli ultimi giorni, sulla questione F35. E' comprensibile che in una situazione economica grave come quella che stiamo vivendo si pensi di tagliare su un comparto che a molti appare inutile, se non addirittura odioso, per alcuni.  In fondo l'alternativa "burro/cannoni" è di quelle che abbiamo imparato tutti, in qualche modo, come base dell'economia. 

Il calcolo però è inevitabilmente più complesso, e l'investimento nel settore militare - per quanto oneroso - è ineludibile, per uno stato che voglia farsi carico della propria sicurezza e delle proprie responsabilità nel mondo. 

Giusto discutere se il programma F35 sia quello più adatto, ma che siano quelli o altri aerei, un aggiornamento delle nostre dotazioni sembra necessaria. 

Perciò meglio evitare false alternative: non salveremo il nostro stato sociale rinunciando a migliorare la nostra capacità di fare la guerra. Anche perché forse presto saremo chiamati di nuovo alla prova.

Francesco Maria Mariotti


Si può ovviamente discutere se, quanto e come l’utilizzo delle Forze armate, in particolare della componente aerea, sia stato utile o no per tutelare gli interessi nazionali in questa o quella missione, o a promuovere il ruolo dell’Italia in ambito Nato ed Ue e il rapporto con gli alleati. Ma di certo, se si rottamano 253 caccia da attacco al suolo tra Tornado, AMX e AV-8B, ma non si acquisisce un sostituto, l’Italia resta senza aeronautica. E resta anche senza la possibilità di utilizzare l’aviazione imbarcata della marina, ed in particolare la Garibaldi e la Cavour che diventerebbero delle portaerei senza aerei. Occorre ricordare che in Afghanistan per sei anni, dal 2007 in poi, anche l’esercito ha beneficiato di un significativo e costante supporto dei caccia italiani quando ha dovuto rispondere alle imboscate della guerriglia o garantire la sicurezza delle vie di comunicazione - con oltre tremila sortite aeree e 8.450 ore di volo in teatro da parte di Tornado e AMX. Uno scenario di sostegno aereo a truppe di terra non si può affatto escludere in futuro, né si può escludere l’impiego di velivoli dalle portaerei nel caso non vi fossero basi disponibili a terra. L’acquisizione degli F-35 per aeronautica e marina è pertanto intimamente legata alla capacità di usare il potere aereo quando necessario. (...)
Se si ritiene che l’aeronautica e l’aviazione della marina siano ancora utili, e che debbano continuare a svolgere il ruolo svolto negli ultimi 24 anni, allora occorre ragionare su possibili risparmi che non intacchino la capacità operativa delle Forze armate. Un ragionamento già iniziato con la riforma approvata nel dicembre 2012, che prevede entro il 2024 un taglio del 30% delle infrastrutture militari, specie le piccole caserme oggi inutili, e una riduzione di 43.000 unità del personale del Ministero della Difesa. Riforma di fatto tradita dal decreto attuativo approvato dal Parlamento a inizio 2014. È quindi meritoria l’intenzione di riavviare la razionalizzazione della spesa militare a partire dalla dismissione di centinaia di caserme e presidi territoriali, inutili per le missioni che le Forze Armate devono e dovranno svolgere. Altrettanto meritoria è l’intenzione di elaborare un Libro Bianco della Difesa che discuta compiti, livello di ambizione, linee di sviluppo e necessità di procurement dello strumento militare in un’ottica europea e di medio periodo. Senza tale riforma e razionalizzazione, si rischia in ambito militare non solo di avere un’auto d’epoca inutilizzabile, ma di pagare anche i costi del personale in divisa che gli fa la guardia in garage.

Ora veniamo alle questioni più profonde. Una volta accettato che tutti i Paesi al mondo hanno un’aeronautica militare equipaggiata con aerei moderni, la domanda riguarda l’opportunità di acquistare l’F-35/Lightning II Joint Strike Fighter, di solito chiamato solo F-35 o JSF.
Innanzitutto, l’attuale flotta aeronautica italiana è composta principalmente da tre velivoli:
  • il Tornado Panavia, progettato nel 1968 e in costruzione dalla fine degli anni ’79;
  • l’AV-8B Harrier II plus, progettato negli anni ’70 come evoluzione di un precedente modello e costruito a partire dagli anni ’80;
  • l’Eurofighter Typhoon, progettato a inizio degli anni ’80 e iniziato a costruire a partire dalla metà degli anni ’90.
Facciamo una discussione semplice, così che chiunque la possa capire. Qualcuno si ricorda la FIAT Ritmo? Ecco, quelli sono i nostri Tornado. Qualcuno si ricorda la FIAT 127? Quelli sono i nostri Harrier. La Fiat Brava? I nostri Eurofighter.
E’ chiaro dunque che bisogna rinnovare le nostre flotte, a meno di non voler credere che gli attuali mezzi a nostra disposizione siano all’avanguardia. La domanda, dunque, è sul come rinnovare.
Signor PresidenteSignori Ministri, di fronte alle tre possibilità, Competere esprime la propria perplessità sull’ipotesi politicamente più semplice, la prima, che apre però ad enormi rischi. In primis, perché determinerebbe una cannibalizzazione delle risorse a disposizione delle Forze Armate nella falsa prospettiva di un loro potenziale ma inverosimile reimpiego in altri comparti dell’economia italiana. Perciò Competere condivide la linea adottata del Ministro Pinotti, che proprio ieri ha ammonito: “guai se passa l’idea che la Difesa sia il bancomat da cui attingere risorse”.

Per questo Vi chiediamo un intervento coraggioso ed inequivocabile, un messaggio, dalle Forze Armate al cittadino, che faccia presente al Ministero dell’Economia e delle Finanze che tagliare unicamente o in gran parte le spese della Difesa significherebbe colpire in modo irrazionale anche capacità essenziali, oltre a cauterizzare uno dei pochi settori in crescita della produttività italiana.
Generale, perché si pensa nuovamente di tagliare il programma F-35?

I motivi sono ideologici, più che economici. Tanto è vero che sono in molti a sostenere che dovremmo acquistare Eurofighter e non F-35. A loro dico che: a) sono due velivoli con caratteristiche diverse, non intercambiabili, il primo serve a difendersi, il secondo ad attaccare; b) Gli F-35 costano, a inizio programma, molto meno che gli Eurofighter al termine della produzione e hanno anche minori costi operativi per ore di volo; c) È vero che gli Eurofighter sono prodotti da un consorzio di quattro Paesi tra i quali c’è anche l’Italia con una quota del 21%. Proprio questo significa che se oggi ne ordinassimo un quantitativo spendendo ad esempio 100 – e gli altri Stati del consorzio non facessero lo stesso in proporzione -, noi avremmo sì un guadagno di 21, ma il restante 79 andrebbe ad altri Paesi. Con gli F-35 invece si è sul mercato in modo aperto, per un numero di commesse che potrebbe essere potenzialmente estesissimo. Non mi stupirei di scoprire che alla fine del programma Jsf, facendo i conti, avremmo avuto lavoro per una cifra superiore a quella spesa per acquistare i nostri velivoli.
Quando il governo Monti nel 2012 tagliò il numero di velivoli da 130 a 90 portò a casa una minore spesa di circa 3,5 miliardi. In conseguenza – come previsto dagli accordi tra governi e aziende partner – il numero delle ali affidate all’opera di Alenia è sceso da 1200 a 800 unità. Con un mancato introito di oltre 4 miliardi. Dimezzare l’ordine degli aerei adesso che l’Italia ha già investito 1,9 miliardi in ricerca e sviluppo e 1,7 in investimenti produttivi (l’investimento complessivo nel programma Jsf è già all’80%) rischia di avere impatti ancora più pesanti. Per ogni aereo tagliato (al valore attualizzato del 2018) ci sarebbe una minore spesa di circa 80 milioni di dollari e minore valore aggiunto per l’industria italiana della Difesa e per l’indotto di poco più di 150. Quasi il doppio. I numeri sono semplicemente la proiezione dello studio diffuso a fine febbraio da Pwc (PricewaterhouseCoopers) che ha calcolato l’impatto del programma Jsf sull’economia italiana (15,8 miliardi di valore aggiunto complessivo). Senza contare che prima del 2018, anno in cui entra nel vivo la produzione e che darebbe all’Italia i veri ritorni sul PIL, non è possibile disimpegnarsi dal programma. Semmai si potrebbe diluire il numero di velivoli già ordinati.
Oggi Lockheed Martin ha annunciato che i primi componenti alari prodotti da Alenia Aermacchi e installati su un F-35 Lightning II hanno effettuato il loro primo volo lo scorso 6 marzo. I componenti sono stati installati a bordo dell’AF-44, un velivolo della variante F-35A a decollo e atterraggio convenzionale, che ha compiuto il primo volo di controllo presso l’Air Force Plant 4 di Fort Worth, Texas. L’AF-44 sarà consegnato alla U.S. Air Force prima della fine dell’anno. “Per anni, Alenia Aermacchi ha dimostrato la propria capacità di produrre componenti avanzati sia per velivoli civili sia per aerei militari ad elevate prestazioni”, ha affermato Debra Palmer, Vice President Lockheed Martin e General Manager dello stabilimento FACO (Final Assembly and Checkout) in Italia. “Quanto la Società sta realizzando nell’ambito del programma F-35 Lightning II è un’ulteriore conferma del suo ruolo di leadership in un ambito altamente specializzato della produzione di velivoli”.
I pacifisti vorrebbero tagliare le spese militari senza rendersi conto, nel loro furore ideologico, che far passare il concetto che lo Stato possa abdicare a una delle sue funzioni (la Difesa) costituirebbe un pericoloso precedente che domani potrebbe venire allargato a settori più “sociali” della spesa pubblica. La Difesa sostiene che l’aereo è indispensabile ma non si capisce bene a che cosa perché nessuno ha mai delineato in modo preciso cosa pretenda l’Italia dalle sue forze armate. Ammesso che l’F-35 riesca a superare tutti i numerosi difetti che ancora lo caratterizzano e diventi un aereo da attacco invisibile ai radar, sofisticatissimo ed efficacissimo siamo certi di potercelo permettere? Perché non basta dire che i costi dell’aereo americano sono elevati (e probabilmente cresceranno ancora) senza ricordare che il bilancio della Difesa di questo e dei prossimi anni stanzia un po’ di denaro per acquistare nuovi mezzi moderni ma lo fa a discapito dei fondi per l’Esercizio, cioè per manutenzione, carburante e addestramento. Ha quindi senso acquistare gli F-35 per tenerli chiusi in hangar per mancanza di benzina e manutenzione come già accade per molti aerei, mezzi e navi oggi in servizio? La domanda sembrano porsela gli olandesi chiedendosi se abbiano davvero bisogno di un velivolo di quinta generazione o non sia sufficiente uno più gestibile e meno costoso di quarta generazione aggiornato con le ultime tecnologie (il cosiddetto 4++). L’Olanda è uno dei Paesi che hanno avviato una seria riflessione sulla loro adesione al programma ma tra questi non figura l’Italia dove si affrontano in modo “calcistico” due squadre che rappresentano i fans dell’F-35 contrapposti a pacifisti e populisti uniti dallo slogan “più burro e meno cannoni”. Come Analisi Difesa ha più volte evidenziato sul programma F-35 esistono molti interrogativi senza risposta anche a causa della discordanza tra le informazioni diffuse dai protagonisti del programma. Nei mesi scorsi il nostro web magazine aveva rivelato che i costi annunciati nel febbraio 2012 dalla Difesa erano già saliti considerevolmente ma oggi il problema dell’affidabilità delle cifre fornite si ripresenta. In una recente conferenza stampa Lockheed Martin ha annunciato che entro il 2018 l’F-35 costerà 67 milioni di dollari a esemplare. A dicembre però il Ministero della Difesa italiano aveva informato il Parlamento che a partire dalle consegne in programma nel 2021 alla nostra Aeronautica e alla nostra Marina, la versione convenzionale dell’aereo costerà 83,4 milioni di dollari (64,1 milioni di euro), e quella a decollo corto e atterraggio verticale 108,1 milioni di dollari (83,1 milioni di euro). Differenze non di poco conto forse spiegabili col fatto che l’Italia deve negoziare con il governo statunitense il prezzo degli aerei mentre Lockheed Martin fornisce i costi relativi ai velivoli prodotti per il Pentagono? (...)
Qualcuno può spiegarci perché dovremmo continuare a essere buoni clienti di costosi e traballanti programmi americani quando Barack Obama applica lo slogan “buy american” su tutte le commesse militari e negli ultimi mesi il Pentagono ha tagliato i contratti per i velivoli cargo italiani C-27J destinati alla Guardia Nazionale statunitense e G-222 acquisiti per le forze afghane? Non sarebbe meglio investire sui nostri prodotti adottando la versione da attacco del Typhoon e finanziando lo sviluppo di droni da combattimento europei con programmi che coinvolgono pienamente la nostra industria ? Con un bilancio della Difesa più che doppio di quello italiano i tedeschi non acquisiranno l’F-35 ma utilizzeranno un solo aereo per l’intercettazione e l’attacco, il Typhoon di cui sono anche loro produttori. L’Italia invece avrà una doppia linea di velivoli, Typhoon ed F-35, con un raddoppio dei costi logistici che non possiamo permetterci con gli attuali budget della Difesa. Una scelta “alla tedesca” ci permetterebbe di salvaguardare meglio la nostra industria e i posti di lavoro acquisendo solo una ventina di F-35 nella versione B a decollo corto e atterraggio verticale davvero indispensabili per la portaerei Cavour. Su questi interrogativi e su questi temi vorremmo vedere svilupparsi un confronto che coinvolga anche quanti pretendono di guidare l’Italia.

giovedì 27 febbraio 2014

Inizio Preoccupante

Segnalo in questo post alcuni articoli che tentano di analizzare da un lato la politica economica delineata nelle prime uscite pubbliche del Presidente del Consiglio o di altri esponenti del Governo, e dall'altra tentano di interpretare la strategia più complessiva dell'attuale inquilino di Palazzo Chigi. 
La lettura combinata dei vari articoli purtroppo non aiuta l'ottimismo, a mio avviso (anche se un paio danno interessanti suggerimenti).

Il mio grado di condivisione dell'attuale impostazione politica del Pd e del suo segretario è uguale a zero, o forse veleggia verso numeri negativi. Quindi probabilmente non fa meraviglia se dico che personalmente sono molto preoccupato; ma a prescindere dalla mia opinione, il problema è che molti osservatori rimangono perplessi dall'approccio complessivo che si sta dipanando in questi giorni (e questo mi pare accada anche fra coloro che hanno guardato senza pregiudizi - o con simpatia - al tentativo del sindaco di Firenze).

Forse nella figura "leaderistica" - e un po' populista - di questo Presidente del Consiglio l'italia ritrova la periodica tentazione di credere nel "seducente" obiettivo del "primato della politica". Tale espressione - che affascina perché sembra voler riportare "ordine" nelle dinamiche sregolate dell'economia - purtroppo il più delle volte è semplice copertura di poche idee e poca concretezza, surrogate da "volontarismo" e "velocità".

L'uscita dalla crisi non può avvenire per improvvisazioni. Il cammino sarà lungo, e le scorciatoie e le furbizie (correre alle elezioni dicendo che questo Parlamento non lo lascia lavorare, per esempio?) non funzioneranno, o faranno danni.

Spero di essere eccessivamente pessimista e di sbagliarmi.

Francesco Maria
***

Dal punto di osservazione del Sole 24 Ore ascoltare il discorso di Matteo Renzi è un po' una sofferenza. Ti impone, infatti, un duro sforzo per cercare di andare oltre la patina di genericità e individuare le proposte di merito. Una gran fatica per chi è abituato a giudicare sulla base dei numeri e della concretezza. E alla fine un senso di delusione resta: perché nello sfrontato monologo di Renzi le buone proposte non mancano, ma sono declinate attraverso molte semplificazioni e senza la dovuta attenzione (anche nella replica in tarda serata) alla responsabilità di indicare le necessarie, e cospicue, coperture finanziarie. (...)
Bene anche l'allargamento delle garanzie al credito per le Pmi, così come il piano per l'edilizia scolastica. Anche qui interventi da «miliardi» e mancanza di dettagli. E di verità: perché le modifiche al patto di stabilità interno non sono a costo zero. E se fino ad oggi sono state fatte con grande prudenza non è per illogica follia ma perché la lente dell'Unione europea su questo è molto attenta. (...)
Forse – parafrasando il film di Richard Brooks – «è lo stile di Renzi bellezza, e tu non puoi farci niente». Ma il salto dallo straordinario coagulatore di consensi delle primarie a un presidente del Consiglio che illustra in Parlamento con concretezza e credibilità il suo programma di governo, Renzi non lo ha ancora fatto. L'auspicio è che al di là di una retorica attenta al consenso, i piani operativi per attuare le misure annunciate siano già in fase avanzata. Una speranza, perché questa potrebbe davvero essere l'ultima chance.

di Fabrizio Forquet - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/WKP1H

Intervistato a Palazzo Chigi da Giovanni Floris per Ballarò, Renzi ha spiegato tutte le sue ideone per cambiare verso al Paese.Come ampiamente sospettato, sulle coperture lo studente Renzi non ha studiato, e spesso si trova disattento. “Entro un mese” avremo i dettagli, promette Renzi, ma intanto enumera le potenziali coperture, e le individua nella ormai salvifica spending review di Carlo Cottarelli e (udite udite) nel ritorno dei mitologici capitali italiani dalla Svizzera, in quella che appare una botta di sano berlusconismo. Inutilmente Floris, col suo sorrisetto permanente, tenta di ricordargli che quella non sarebbe una copertura “strutturale” ma una tantum, e che già altri in passato hanno tentato, senza successo. Renzi è già lontano, e risponde con un bel ghe pensi mi da Silvio dei giorni migliori: “Quella se la son giocata tutti, ma non l’ha fatta nessuno”.(...)
Poi Renzi parla del ruolo dell’altra pentola d’oro in fondo all’arcobaleno, la Cassa Depositi e Prestiti. E sono subito fuochi d’artificio: «La Cassa Depositi e Prestiti ci può aiutare a fare quello che ha fatto la Spagna, per circa 60 miliardi di euro, con un effetto benefico immediato. Aiuterà con i fondi per lotta al credit crunch, e in 15 giorni permetterà di sbloccare i 60 miliardi che sono bloccati per i debiti della P.A.».
Ora, questo è ovviamente impossibile, ma la cosa più interessante è che Renzi deve aver creduto alla fiaba che in Spagna non solo la rana gracida in campagna ma pure che gli asini volano, e quindi ha già inforcato felice il suo costumino con le ali. Non esiste alcuno “shock prodotto dalla Spagna sulla liquidità”, sarebbe interessante capire da dove Renzi ha preso questa botta di provincialismo magico, che fa il perfetto paio con “le spese per la sanità sono tutte online in Regno Unito” e “In Italia le rendite finanziarie hanno la tassazione più bassa che nel resto d’Europa”. E non è vero, basterebbe verificare.(...)


Articolo analogo su http://phastidio.net/2014/02/26/le-rendite-pure-con-scappellamento-a-destra-come-se-fosse-cdp/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter (dove potete trovare l'intervista del Presidente del Consiglio a Ballarò)

Lo scenario chiaroscurale sull’Italia rischia di avere un effetto particolare. Considerato che gli esponenti del neonato governo di Matteo Renzi hanno più volte rimarcato l’urgenza di andare oltre il vincolo del 3% del deficit per alimentare gli investimenti sull’Italia, ora non ci sono più scuse. Lo 0,4% di margine prima di arrivare al limite si può tradurre in poco più di 6,4 miliardi in investimenti. Una cifra che non è proprio irrisoria, specie in questo periodo, ma che in teoria non può essere utilizzata vista la regola sul pareggio strutturale. il rischio che corre il Paese è però quello di lasciarsi prendere dall’entusiasmo e sforare il tetto, o perlomeno arrivare vicini a farlo. Compiere una mossa del genere, senza portare a compimento le riforme strutturali promesse, potrebbe far scivolare il governo Renzi nelle sabbie mobili. 

È la proposta lanciata dalla Fondazione Astrid presieduta da Franco Bassanini, numero uno dell’ente di via Goito, e dall’economista Marcello Messori: usare la Cdp – soggetto per Eurostat fuori dal perimetro del debito pubblico – per ristrutturare i debiti delle Pa nei confronti delle banche (che a quel punto potrebbero scontarli), con la garanzia sussidiaria dello Stato. Coinvolgere la Cdp in questo ambito, va detto, non è una novità nell’entourage del rottamatore: «Invece di destinare i soldi dei depositanti in incerti progetti di politica industriale, la Cdp dovrebbe impegnarsi a fare quello che lo Stato non riesce a fare: pagare i suoi debiti alle imprese, a partire dai crediti Iva» ha scritto sul Sole 24 Ore Luigi Zingales, già ospite della Leopolda nel 2011 e, almeno in passato, ispiratore del leader Pd.

Si potrebbe complessivamente arrivare a 50-70 miliardi di euro da spendere subito che potrebbero far quasi raddoppiare il bassissimo tasso di crescita stimato dall’Unione Europea per l’economia italiana nel 2014. Non si tratta di cosa facile, ma ci si può provare, soprattutto se si utilizzano queste risorse per rimborsare debiti delle amministrazioni pubbliche con le imprese fornitrici e per ridurre il cuneo fiscale anche se sarà difficile arrivare subito alla riduzione a «due cifre» promessa da Renzi. Del resto, le stime europee sulla crescita italiana sono state sicuramente redatte prima della nascita del nuovo governo e quindi ipotizzano semplicemente la continuazione delle tendenze attuali mentre l’obbiettivo del governo è precisamente quello di ribaltare tali tendenze. 

"(...) Perché – è vero – quando sentiamo il primo ministro e i suoi (nostri) coetanei che hanno preso il potere in questi giorni, restiamo a volte perplessi, a volte sbigottiti. Spesso, molto spesso, ci rileggiamo in pieno nelle bastonature un po’ compiaciute ma puntuali della generazione dei rottamandi. Spesso sentiamo che non c’è la cultura politica che abbiamo imparato a ritenere fondamentale, e non troviamo il peso specifico, la padronanza dei numeri e delle relazioni che servono per metterci la faccia in Italia, ma soprattutto in Europa. Vediamo, e ci spaventiamo a quel che vediamo, un’improvvisazione che spaventa, e che difficilmente fa sentire tranquilli rispetto ai mostri che dobbiamo vincere: una burocrazia impossibile, un fisco invecchiato e nemico di rischia e produce, uno welfare che non sa più rispondere alle esigenze di oggi, un sistema scolastico da rifondare, e così via. Non cose da poco. Cose da cambiare, radicalmente, e per cambiare le quali servono competenze precise, un rapporto forte ma non supino con gli apparati dello stato, una rappresentanza di interessi ampia quanto basta per vincere gli ampi controinteressi.(...)"

(...) Insomma, più cerchiamo di comprendere qual è la strategia del sindaco e più ci rendiamo conto che Renzi non è pazzo ma un abile calcolatore. Anzi, un giocatore d’azzardo che fino all’ultimo è abituato a non scoprire le proprie carte. In tutti questi mesi in fondo si è comportato così, ossia ha sempre dichiarato una cosa per poi farne un’altra. È successo con le primarie (ricordate, aveva giurato e spergiurato che non avrebbe mai fatto il segretario del Pd), è capitato con il governo (fino a meno di un mese fa assicurava in tv che non avrebbe soffiato il posto a Letta), probabilmente si ripeterà ora.
Renzi è giovane e un po’ guascone, tuttavia non può non rendersi conto che se non fa qualcosa di concreto, la sua credibilità diminuirà rapidamente e lo stesso accadrà alla sua popolarità. Dunque? La sensazione è che anche adesso che è giunto a Palazzo Chigi l’ex sindaco non abbia sospeso la sua personale campagna elettorale. Cominciata con la sfida delle primarie - le prime, quelle contro Bersani - Renzi ha continuato senza fermarsi mai e neppure la conquista della segreteria del Pd lo ha indotto allo stop. Lunedì e ieri, al Senato e alla Camera, il nuovo presidente del Consiglio non ha presentato il suo programma, ma ha tenuto un comizio. La campagna elettorale proseguirà nei prossimi giorni, quando il premier itinerante inizierà a visitare le scuole, a partire da quelle di Treviso. Renzi che telefona ai marò e alla donna sfregiata dall’ex fidanzato, Renzi che imita Papa Francesco e scende fra la gente, si fa fare le fotografie e tra poco berrà dalle bottigliette che la gente gli offre, fa tutto parte dello stesso disegno. Della stessa campagna elettorale. Perché il neo premier sa che non ce la farà. Anzi sa che non ce la può fare con un Pd che non controlla. Un Pd che sotto i suoi occhi applaude Letta, il premier che lui ha licenziato.
Sì, Renzi pur negandolo (le sue smentite non fanno testo) ha pronta l’uscita di sicurezza, ovvero le elezioni. Proverà a far qualcosa, poi dirà che non gliela lasciano fare e quindi ci porterà a votare. In fondo ha solo 39 anni. E per governare c’è tempo.

(...) Se poi le riforme segnassero il passo o si affacciassero difficoltà crescenti, Renzi può giocare la carta del voto politico anticipato. Il suo calcolo è che comunque lo farebbe da presidente del Consiglio. A quel punto la coabitazione tra l’identità di premier del Parlamento e quella di presidente anti-Palazzo non avrebbe più ragione di continuare. Renzi potrebbe togliersi i panni istituzionali e indossare gli altri, più congeniali, da politico che parla all’opinione pubblica; e che chiede voti contro chi non lo ha fatto governare come voleva. È un gioco molto azzardato, ma anche ieri il presidente del Consiglio ha rivendicato quasi il dovere di rimettere in discussione tutto. D’altronde, l’azzardo gli piace, e finora gli è andata bene: basta che vada bene anche all’Italia. 


(...) Non è antiparlamentare, Renzi. Però è anti questo parlamento. E ne viene ricambiato, dai senatori che vuole licenziare e dai deputati il cui feeling istintivo è con Bersani, e perfino con Letta nonostante ne siano stati duri critici e, per la parte Pd, i veri carnefici.
La dinamica politica non concede all’ex segretario e all’ex premier alcuna ravvicinata possibilità di rivincita. Renzi rimarrà il dominus della situazione, il controllo del Pd da parte sua è fuori discussione. Ma oggi è chiaro che la famosa «sfrenata ambizione» può dispiegarsi davvero solo con altri equilibri, altri rapporti di forza, in un altro contesto, in definitiva con un altro parlamento.

giovedì 20 febbraio 2014

La Retorica Pericolosa Della Contrapposizione Popolo - Casta

In bocca al lupo a chi sta tentando di formare un governo, in queste ore. Siamo costretti a tifare per lui, perché il "rinculo" di un fallimento potrebbe costare troppo al Paese. 

Però non possiamo tacere le tracce pericolose di una retorica che non vorremmo sentire, soprattutto in un ambito che si vorrebbe progressista. La distinzione fra un'Italia popolare e reale e le élites (vd. intervista di Nardella al Corriere), la contrapposizione forzata fra un popolo puro e generoso, e una "casta" corrotta, o almeno lenta, non è una buona base per le riforme.

Lo si è già scritto: la democrazia dovrebbe riuscire a superare questo tipo di dicotomia; perché da una parte limita e contrasta il naturale formarsi di aggregati di potere, dall'altra perché richiede ai "semplici cittadini" e ai "senza potere" di non "accontentarsi" di accettare come date le dinamiche di potere, ma di costruire - da soli o in comunione con altri individui - le condizioni perché ogni potere venga controllato, limitato, valutato, messo in tensione.

Questo esercizio - quasi quotidiano - è cosa ben lontana dal protestare innocenza e dalla contrapposizione fine a se stessa; è anzi in realtà un'assunzione di responsabilità; è anche un comprendere realisticamente la situazione data, le dinamiche oggettive che si pongono nella storia. Abitare i tempi con scienza e coscienza, mai dismettendo il senso critico.

In questo senso - pur comprendendo le ragioni di chi chiede una "primazia" della politica sull'economia, di chi contesta alcune scelte economiche del passato - è secondo me da guardare con sospetto una certa retorica che accompagna l'operazione che si sta costruendo attorno al governo in formazione, in particolare rispetto alla volontà di "cambiare verso" all'economia italiana, anche attraverso il simbolico "ritorno" di un politico al Ministero dell'Economia (cosa di per sé assolutamente legittima, naturalmente).  

L'Italia ha bisogno di riforme, e forse questo nuovo governo ne farà di importanti; ma è anche importante costruire attorno alle riforme (anche per farle durare al di là di una fortunata contingenza politica) un tessuto di elaborazione e di approfondimento che è cosa molto più complessa della contrapposizione sterile - e alfine reazionaria - popolo vs casta. 

Francesco Maria Mariotti

"(...) E allora faccio notare al direttore che Guerra ha una simpatia notoria per Matteo Renzi. E lui: “Renzi catalizza tutte le aspirazioni alla novità in un paese fermo. Ma questo non basta. E mi è dispiaciuto il modo in cui è stata chiusa la vicenda di Enrico Letta”. Sembra di capire che Renzi non ti sta simpatico, direttore. “Per ora siamo alla sceneggiata dannunziana. Ma in realtà mi auguro che abbia successo. Se Renzi funziona, funziona anche l’Italia. Ma tutto è più complicato di come appare”, dice, mentre sottolinea le pause e i sottintesi. “La scena politica si sta svolgendo come se l’Europa non ci fosse. E Renzi tra un po’ sarà chiamato invece a un bagno di realismo, dovrà confermare il rispetto del vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/pil. Adesso lo spread è basso, tutto è calmo. Ma non è escluso che l’Italia torni a essere un’osservata speciale. Lo slancio e l’impeto giovanile vanno bene. Ma ci vuole anche ponderazione, e il soccorso di uomini che sanno stare in Europa”. Ma l’Italia, un uomo che sapeva stare in Europa l’ha avuto: Monti. E non è andata un granché bene. “La storia gli restituirà molto di quello che la cronaca gli ha sottratto. Dobbiamo a lui se non siamo finiti come la Grecia”. L’Italia lo ha triturato, Monti. Il Foglio qualche tempo fa ha paragonato Monti a Gulliver, un gigante divorato dai Lillipuziani: da Casini e da Riccardi, dalla politica di sacrestia, dalla nera pozza democristiana, quella in cui s’affogano tutti i meriti. “Monti ha sottovalutato le insidie”, dice de Bortoli. E quando parla di Monti, che è stato a lungo editorialista del Corriere, il direttore ammette di parlare di un amico. “L’Italia è strana”, dice. “Ha allergia per tutte le cose serie. E non sopporta nemmeno i governi forti. Da Craxi fino a Berlusconi. Qui da noi c’è un interesse diffuso ad avere un governo debole, ricattabile, di scarsa durata”(...)
(...) Non siete stati ingenerosi con Enrico Letta?

«Letta ha rappresentato bene l’Italia all’estero. Ma non è riuscito a mettere in campo il coraggio indispensabile per rompere quel grumo fatto di burocrazia, corporazioni, poteri costituiti che da anni non permette all’Italia di tirar fuori le sue energie migliori». 
Sta dicendo che l’establishment deve temere l’arrivo di Renzi?
«Esatto. E non mi stupisce che proprio l’establishment italiano in questi giorni si sia espresso più o meno implicitamente contro questo passaggio. Considerano Renzi come un barbaro». 
Un barbaro? 
«Il termine è forte, ma calzante: un barbaro che rompe i rituali e rappresenta un rischio per la conservazione dello statu quo. Come se l’Italia sonnolente, abituata a lucrare sulle posizioni di rendita economica, sociale e culturale, si trovasse improvvisamente e radicalmente messa in pericolo». 
A chi si riferisce? Banche, sindacati, finanza, Rai? 
«Mi riferisco a un insieme di mondi, anche all’apparenza in contrasto tra loro, che sono sopravvissuti in questo clima di lento declino, accontentandosi di mantenere posizioni dominanti, e oggi percepiscono lo stile, i contenuti, il messaggio di Renzi come qualcosa di estraneo. Matteo è un vero leader popolare. Un leader di popolo come da tanti anni non se ne vedono in Italia, e per questo capace di penetrare quella cortina di poteri costituiti, per comunicare direttamente con i cittadini. Renzi è visto come elemento destabilizzante; e dal loro punto di vista lo è. Proprio per questo rappresenta una grande opportunità per l’Italia per vivere un nuovo Rinascimento, se vogliamo usare un termine che appartiene alla storia di Firenze». (...)
Lei è stato il primo a dire che all’Economia ci vuole un politico. Perché? 

«Perché l’era dei “tecnici a prescindere” è ormai alle nostre spalle, e ha dimostrato purtroppo di non aver corrisposto alle attese. L’Italia è uno strano Paese: i politici scaricano sui tecnici le proprie responsabilità. È sbagliato affidare la spending review a un tecnico, per quanto capace. Non esiste scelta più politica che decidere quali voci di spesa pubblica tagliare. E il problema non riguarda solo i ministri, ma i ministeri». 
Si riferisce all’alta burocrazia? 
«Sì. Noi dobbiamo riformare radicalmente la burocrazia dello Stato, a partire dai vertici. Troppe volte nei corridoi si sente dire: “I ministri passano, i tecnici restano”. Dobbiamo aggredire l’iper-regolamentazione e le concentrazioni di potere e di privilegi, stipendi compresi. Basta decreti milleproroghe, specchio di un’Italia che getta sempre la palla in tribuna. Spezziamo la spirale drammatica di una burocrazia che di fronte a un problema, invece di risolverlo, inventa l’ennesima norma». 
Delrio potrebbe fare il ministro dell’Economia? 
«Non ci troverei nulla di strano. Anzi, ritengo che i sindaci oggi siano la migliore espressione della politica italiana; non fosse altro perché conoscono meglio di tutti l’Italia reale, mentre la distanza tra le istituzioni centrali e la società reale continua a crescere». 
Tra queste istituzioni include la Banca d’Italia? 
«Per certi aspetti, sì. La questione ci obbliga a una riflessione più generale dell’Europa. Il problema della distanza tra politica e società civile è ancora più vistoso sullo scenario europeo. Per questo sono preoccupato per le prossime elezioni di maggio». (...)
Il punto però, spiega Macaluso, è che al di là delle trattative tra i partiti è molto difficile oggi trovare candidati di questo tipo, che soddisfino anche il requisito della discontinuità imposto da Renzi. "Da un lato c'è stato un impoverimento culturale nella classe politica, una progressiva incapacità a governare e dall'altro i politici sono stati vittima di una pulizia etnica. Sì etnica. Da un po' di tempo è obbligatorio scegliere i tecnici per quella delegittimazione che ha travolto la politica". Ma perché Renzi ha collezionato tutti questi no?: "Credo che le persone da lui contattate abbiano capito che l'intenzione era di usarle, un po' come figurine, e non abbiamo voluto farsi strumentalizzare solo per riflettere sulla scena un'immagine di novità, discontinuità e tutti gli altri concetti che vanno di moda in questa fase"(...)