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mercoledì 17 aprile 2019

“Lavorare meno, lavorare tutti” sogno o realtà? (da laVoce.info)

"(...) Le leggi francesi degli anni Ottanta e Novanta con cui i governi socialisti approvarono riforme significative dell’orario di lavoro a parità di salario sono state oggetto di vari studi. Bruno Crépon e Francis Kramarz (2002), per esempio, analizzando la riforma francese del 1982, che ha ridotto le ore settimanali da 40 a 39 a salario invariato, non trovano un effetto positivo sull’occupazione, ma, anzi, un aumento del rischio di disoccupazione a causa del costo orario più elevato, in linea con le previsioni della “teoria classica”. Matthieu Chemin e Etienne Wasmer (2009) studiano l’impatto della famosa riforma delle 35 ore di fine anni Novanta e anch’essi, comparando con il resto della Francia l’andamento dell’occupazione in Alsazia-Mosella, regione meno toccata dalla riforma in quanto più autonoma per motivi storici, non trovano effetti particolari (lo studio, però, è stato non poco criticato in patria).
I risultati per altri paesi vanno in direzione simile. In Germania, per esempio, Jennifer Hunt (1999) non trova effetti positivi delle riduzioni graduali degli orari di lavoro avvenute tra gli anni Ottanta e Novanta. Anche nel caso del Québec, dove l’orario di lavoro è stato gradualmente ridotto da 44 a 40 ore, non si sono registrati aumenti del numero di occupati (Mikal Skuterud, 2007). Stessa storia in Cile: la riduzione nel 2001 da 48 a 45 ore non ha avuto effetti tangibili sul numero di occupati (Rafel Sanchez, 2013). Un paese in controtendenza, invece, è il Portogallo dove secondo Pedro S. Raposo e Jan C. Van Ours (2010) la riforma che nel 1996 ha fatto scendere da 44 a 40 le ore di lavoro settimanali ha ridotto il tasso di distruzione di posti di lavoro (cioè licenziamenti o chiusure aziendali) con un effetto positivo sul totale dell’occupazione. Gli autori, cercando di comprendere il risultato in controtendenza con il resto della letteratura, ipotizzano che l’effetto positivo sia dovuto ai più ampi margini di flessibilità di aggiustamento dell’orario di lavoro che la riforma ha dato alle imprese.
Le esperienze europee non sembrano suggerire che ridurre le ore di lavoro porti ad aumenti dell’occupazione. Tuttavia, la discussione sul tempo di lavoro resta pertinente se si volge lo sguardo, e gli obiettivi, verso altre questioni: uno studio sulle riforme in Francia e Portogallo (Anthony Lepinteur, 2018), per esempio, fa vedere come quelle degli anni Novanta abbiano portato nei due paesi a un aumento del benessere dei lavoratori, con un effetto duraturo nel tempo. Altri studi, poi, mostrano come, in casi specifici, orari ridotti possano avere effetti benefici sulla produttività del singolo lavoratore (si vedano, per esempio, John Pencavel, 2015 e Marion Collewet e Jan Sauermann, 2017). (...)"

martedì 26 agosto 2014

Il problema del lavoro (Gianni Cuperlo)

La riflessione di Gianni Cuperlo - che trovate integrale su Facebook -  è interessante; anche se il problema dell'Italia è che il mix di interventi di cui ha bisogno è complesso; e quindi . diciamo così - i due diversi "approcci" alla crisi di cui parla Cuperlo vanno forse calibrati, e non si escludono reciprocamente. 


FMM 


"(...) Ci sono due modi per aggredire la creazione di lavoro. Uno è insistere sul fatto che le economie uscite meglio dalla crisi in termini di occupazione sono state quelle con più flessibilità (come quella tedesca, si dice sempre). L'altro mette in risalto un aspetto diverso. E cioè che non è bastata l'azione sulla flessibilità del mercato del lavoro a rendere più competitive alcune economie. La verità è che sono serviti investimenti pubblici e privati senza i quali non sarebbe aumentata la produttività, e dunque la crescita sarebbe stata semplicemente impossibile.
Sono proprio due modi di approcciare la crisi.
Il primo ha tra i suoi seguaci una lunga schiera di analisti ed esponenti della politica (da Ichino, Alesina, Giavazzi alla destra di Forza Italia e Ncd). Il secondo comincia a farsi largo anche sul piano teorico come dimostrano i saggi (spesso citati qui sopra) di Mariana Mazzucato o Thomas Piketty (a proposito, ma Bompiani si spiccia a mandare in libreria la traduzione?).
Ora, per la verità anche l'uso disinvolto del modello tedesco merita qualche osservazione. È vero che in questi anni i salari in Germania sono stati tenuti a freno (e la cosa non è stata priva di conseguenze sul versante della domanda interna) ma quella è stata la conseguenza di un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l'unificazione del paese nei primi anni ’90.
Quell'accordo peraltro prevedeva di mantenere i livelli occupazionali, ma insieme a una riduzione dell'orario di lavoro (35 ore) e a investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione. Sono questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri paesi sul versante della produttività. Il vero disastro con il quale misurarsi non è, dunque, il costo del lavoro, ma la produttività.(...)"


lunedì 5 maggio 2014

Vita in provincia – Il Jobs Act che non vi fu (da Phastidio.net)

(...) Forse è arrivato il momento di fare un minimo di fact checking su questa storia del “Jobs Act di Obama”.

Intanto, diciamo che negli Stati Uniti ci sono stati due Jobs Act. Uno, che è quello che è effettivamente nato, è l’acronimo di Jumpstart Our Business Startups, ed è finalizzato a sostenere l’imprenditorialità e lo sviluppo della piccola e media impresa essenzialmente attraverso la semplificazione della regolamentazione federale nella raccolta di capitale. Le disposizioni di quel JOBS Act hanno permesso, tra le altre cose, lo sviluppo di forme di crowdfunding d’impresa limitando notevolmente gli adempimenti. Ad esempio, tramite piattaforma web, oggi le piccole imprese possono raccogliere sino ad un milione di dollari annui di capitale da piccoli investitori-donatori, sotto ovvie regole di protezione del risparmio stabilite dalla SEC.
Inoltre, quella legge prevede l’estensione del cosiddetto “mini-IPO offering“, che ora consente di raccogliere sino a 50 milioni di dollari di capitale (in luogo dei precedenti 5), in un contesto di adempimenti SEC semplificati. Da ultimo, è stato creato il cosiddetto IPO On-Ramp, che consente alle imprese giovani e ad alto tasso di crescita di attendere un periodo sino a 5 anni dopo la quotazione in borsa prima di mettersi in regola con le disposizioni SEC in materia di revisione contabile e di disclosure al mercato.
In estrema sintesi, questo JOBS Act (Jumpstart Our Business Stratups) è un provvedimento, convertito in legge con appoggio bipartisan, che consente alle PMI la raccolta di capitale con meno intralci burocratici, pur con vincoli di tutela del pubblico risparmio e degli investitori. Ora, la domanda è la seguente: per caso questo è il modello di JOBS Act a cui Renzi si ispira, da sempre? No, ad evidenza. Non esiste alcun atto legislativo dell’attuale governo che vada in direzione anche vagamente simile a questa.
Quindi, per forza di cose, il Jobs Act di cui parla Renzi anche quando gli chiedono l’ora deve essere l’American Jobs Act. Che era costituito da un paio di disegni di legge di iniziativa presidenziale (e stampo moderatamente keynesiano), presentati a settembre 2011 e volti a ridurre quella che all’epoca era una disoccupazione alta, persistente e con una inquietante componente di lungo periodo (all’italiana, in pratica). Tra le previsioni dei due bill di Obama, vi erano la riduzione dei contributi sociali per imprenditori e lavoratori a reddito medio-basso, lo sviluppo di un piano di ammodernamento infrastrutturale e di opere pubbliche (anche attraverso la creazione di una banca specializzata, a capitale misto, pubblico e privato), l’erogazione di somme per proteggere l’occupazione di insegnanti, poliziotti e vigili del fuoco che la recessione aveva espulso dal lavoro statale, ed anche la possibilità di sviluppare il crowdfundingper le PMI.
Di fatto, solo quest’ultima previsione è diventata legge, circa un anno dopo, dei sette disegni di legge in cui i due originari bills furono spacchettati, nel tentativo di agevolarne l’approvazione, superando il fuoco di sbarramento dei Repubblicani e le perplessità di parte dei Democratici. Quindi, per amor di sintesi, l’American Jobs Act non vide mai la luce. (...)

venerdì 7 febbraio 2014

Cosa Succede In Bosnia-Erzegovina?

Da giovedì 6 febbraio in diverse città della Bosnia-Erzegovina migliaia di persone stanno manifestando contro il governo per la difficile situazione economica del paese, la disoccupazione e la forte corruzione nell’amministrazione pubblica. Le proteste sono iniziate martedì a Tuzla, terza città bosniaca per numero di abitanti, capoluogo dell’omonimo cantone e centro industriale della Bosnia settentrionale, dopo che quattro grandi aziende (Konjuh, Polihem, Dita e Resod-Gumig) hanno licenziato centinaia di lavoratori dopo essere state privatizzate e aver dichiarato bancarotta.(...)



(...) Nelle quattro fabbriche, che un tempo erano di proprietà dello stato e che poi sono state privatizzate dopo la guerra, lavorava la maggior parte della popolazione della città. Ma le quattro aziende sono fallite, i proprietari hanno venduto gli asset e gli operai non sono stati pagati o sono stati licenziati.
Dopo la fine della guerra nei Balcani molte aziende sono state privatizzate, ma una classe politica poco preparata e un alto tasso di corruzione hanno impedito all’economia bosniaca di decollare. Nel paese la disoccupazione è al 27 per cento: si tratta del tasso più alto di tutta l’area balcanica.

domenica 19 gennaio 2014

Le Trappole Della Retorica Politica, Le Questioni Realmente Importanti

Oggi sul tavolo della politica - e quindi sul "nostro" tavolo, perché la politica siamo anche noi, ci piaccia o meno - c'è la riforma elettorale. Argomento in realtà non molto importante, soprattutto se non viene accompagnato a riforme che stabilizzino realmente i governi (e che difficilmente si trovano nella legge che regola il voto; penso per esempio a sistemi di sfiducia costruttiva o regole per la formazione dei gruppi parlamentari) o che diano realmente poteri forti al premier e al governo (comunque nulla a che vedere con la "cosmesi" del presidenzialismo, secondo me).

La discussione sulle proposte che stanno girando è inoltre viziata dal fatto che ci siamo incastrati - oserei dire che ci siamo autointrappolati - su una questione mal posta ("permetteteci di scegliere il nostro rappresentante"), che in realtà non è così importante, e che rischia di "obbligarci" a giudicare negativamente scelte che non sono forse così strane (Stefano Ceccanti, costituzionalista, in queste ore sta ricordando come l'anomalia - nello scenario europeo - siano le preferenze, non le liste bloccate, già in uso in altri paesi).

Da questo caso forse si capisce che in politica è necessario agire con cautela anche nei momenti polemici, indirizzando correttamente il cosa e il come della critica (a volte soprattutto il come, evitando sempre toni apocalittici). Troppo spesso una critica mal posta prima (penso per esempio alla critica generalizzata alla Bossi-Fini sull'immigrazione, mescolata - temo impropriamente - alla questione della punibilità penale dell'immigrazione clandestina) rischia di far apparire i compromessi inevitabili del poi tutti inaccettabili.

Forse ho speso troppe parole; andiamo dunque alle questioni veramente importanti: It's the economy, stupid...
E quindi, anche in vista delle prossime scadenze elettorali per l'Europa, mi permetto di segnalare argomenti di riflessione soprattutto economica di cui trovate estratti di seguito:
  1. A proposito di Europa e di retorica della politica: interessante articolo sul Fiscal Compact, che forse non è quella mostruosità draconiana che sembra essere passata nell'immaginario; tema su cui è il caso di tornare in futuro per approfondire ulteriormente.
  2. A proposito di semplificazioni: funzionano le ricette del Fondo Monetario Internazionale? Forse sono troppo astratte? Un bell'articolo di Fabrizio Goria sui paesi che in Europa le hanno adottate e che si stanno riprendendo.
  3. Cosa fare contro la disoccupazioneAlcuni articoli - in particolare un paio del centro studi Nomisma - per tentare di trovare strumenti con cui reagire; sicuramente non basterà la ripresa e non saranno necessariamente utili gli ennesimi correttivi sul piano del diritto del lavoro.
  4. Come leggere il periodo attuale? Ci sarà un ritorno della mano pubblica nell'economiaun articolo molto interessante di Stefano Cingolani per provare a fare un punto della situazione.
  5. In ultimo tento di presentare con il richiamo di un paio di articoli la figura di Stanley Fisher, keynesiano anomalo e pragmatico, che avrà un ruolo importante nella FED, a fianco del nuovo Governatore, Janet Yellen.
Buona lettura

Francesco Maria Mariotti

venerdì 17 gennaio 2014

Disoccupazione: Come Reagire? Basterà La Ripresa?

Il dramma della disoccupazione rischia di aggravarsi, nonostante si percepiscano i primi segnali di ripresa. Come già scritto in passato il rischio è che la situazione si aggravi per persone che sono rimaste ferme troppo tempo. Mi pare vadano in questo senso i ragionamenti che vengono svolti negli articoli di Nomisma che propongo di seguito. 

Non so dire se la soluzione proposta (una sorta di patrimoniale che viene descritta nel secondo articolo in particolare; purtroppo in questo momento il link appare non raggiungibile) sia efficace, ma quel che è certo è che non può bastare toccare nuovamente le regole sul lavoro, anche perché i fattori importanti oggi - come forse quasi sempre - non sono quelli normativi

Prima la politica la smetterà di discutere di questioni di riforme istituzionali, e darà una tregua al paese sulle questioni di "politica politicata", prima si potranno prendere in mano le questioni economiche e aiutare i cittadini a riacquistare fiducia nel futuro.

FMM 

(...) Il mercato del lavoro del 2007 era segmentato, iniquo, escludente; ma di pieno impiego. Come valutare quello di oggi? Il raddoppio delle statistiche dalla disoccupazione non è stato causato da un peggioramento dei difetti di funzionamento che si avevano nel 2007, ma dalla recessione. Quella che si osserva è per la gran parte disoccupazione di tipo keynesiano, determinata da un livello inadeguato della domanda aggregata. I posti di lavoro disponibili sono pochi e razionati, al punto che la disoccupazione non può essere eliminata per quanto prolungato è lo sforzo di ricerca condotto dai lavoratori inoccupati e per quanto significativo è il taglio di retribuzione che essi sono disposti ad accettare pur di accedere a un lavoro. In queste condizioni vi è un’elevata probabilità che se un’impresa non assume un lavoratore in più non è tanto per un suo costo eccessivo, quanto perché, in un mercato asfittico e con rarefazione del credito, non saprebbe come utilizzarlo. A corollario di questa osservazione, è rilevabile che misure volte ad abbassare i costi espliciti e impliciti (come quelli di licenziamento) di ingresso nell’occupazione e le connesse rigidità, pur contribuendo a intensificare il ricambio nei flussi di entrata e uscita nel mercato del lavoro e a renderlo meno iniquo, non riescono a ridurre in modo sostanziale il livello complessivo della disoccupazione che dipende dallo stato dell’economia .  Si modificherà con l’incipiente ripresa questa situazione? Dato il modesto tasso di crescita atteso, c’è il rischio che il miglioramento del mercato del lavoro risulti insufficiente. (...)
In mancanza di una ripresa adeguata, la disoccupazione tende a incancrenirsi. Già oggi si osserva che una quota pari al 57% dei disoccupati è costituita da individui che sono senza lavoro da oltre un anno; tra i disoccupati sotto i 25 anni questa percentuale è del 54%. Il distacco prolungato da un’attività produttiva deteriora le abilità lavorative, rendendo queste persone meno attraenti per un datore di lavoro. Ne consegue che le probabilità di reimpiego di coloro che sono a lungo senza un’occupazione risultino, in condizioni di ripresa economica, più basse rispetto agli altri lavoratori. Ciò può essere particolarmente penalizzante per i giovani, il cui ritardato ingresso nel mondo del lavoro determina danni permanenti nelle loro future carriere retributive e contributive. Ma gli effetti avversi della disoccupazione di lungo periodo riguardano più in generale il funzionamento dell’economia. L’ampliarsi del bacino di persone inoccupate per lungo tempo rischia di alimentare la disoccupazione strutturale, ovvero quella quota di senza lavoro che è resistente al miglioramento del ciclo economico e sotto la quale non si può scendere senza creare inflazione. La disoccupazione keynesiana se non corretta con una decisa ripresa della domanda può, dunque, tradursi in un peggioramento permanente degli equilibri del mercato del lavoro.(...)
Il peggioramento della relazione tra posti vacanti e disoccupazione (più disoccupati per ogni posto vacante) non è, infatti, un fenomeno generalizzato, ma è da attribuire alla componente dei disoccupati che sono senza lavoro da oltre un anno (figg. 2a e 2b). In altri termini, la pur bassissima domanda di lavoro è rimasta per una sua quota insoddisfatta perché si è modificata la composizione del bacino dei disoccupati con una crescita della presenza di quelli di lungo periodo, caratterizzati da una minore appetibilità rispetto alle necessità delle imprese e per questo motivo non più richiesti. (...)
L’aumento prolungato della disoccupazione keynesiana porta quindi con se, in assenza di correzione, i germi di un deterioramento strutturale che è difficile da curare. Il reinserimento dei disoccupati di lungo periodo nel mondo del lavoro solleva problemi in parte diversi da quelli che riguardano l’inclusione dei giovani che si affacciano nel mercato del lavoro o degli inattivi che tornano a cercare un’occupazione. Se un disoccupato da oltre un anno viene percepito per le sue caratteristiche come non rispondente alle esigenze delle imprese, può non essere sufficiente abbassarne il costo di reclutamento per renderlo appetibile. Occorrono efficienti politiche di formazione, riorientamento e inserimento nelle imprese in espansione, politiche di cui, però, l’Italia è oggi effettivamente priva. Esse vanno associate a un adeguato sistema di assistenza sociale (dal sussidio di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro a forme universali di sostegno del reddito) che miri sì ad attivare inclusione, ma che metta anche nel conto la possibilità di fallimenti nelle operazioni di reinserimento. Questi ultimi saranno infatti tanto più probabili in un’economia in cui l’attività crescerà a ritmi molto contenuti e dove l’offerta di lavoro supererà per un prolungato periodo la domanda, talché la concorrenza tra disoccupati per l’accesso a posti scarsi tenderà a mantenere persistentemente “fuori dai cancelli” le tipologie di lavoratori che risulteranno meno attraenti per le imprese.

Per contrastare lo scenario di bassa crescita che contraddistingue la nuova normalità italiana e tornare ad avvicinarsi fra cinque anni, anziché dieci, ai livelli di benessere che i cittadini del nostro Paese avevano nel 2007, occorrerebbe un’accelerazione dell’attività economica verso ritmi del 2-2,5% all’anno tra il 2014 e il 2018[1]. Le attuali previsioni, anche le più ottimistiche, proiettano dinamiche del PIL distanti da questo sentiero, con un mercato del lavoro che non tornerà, neppure nel 2023, ai livelli pre-crisi (6% di disoccupazione). Il freno a una ripresa più robusta deriva da un difetto di domanda aggregata, come mostrano le stime dei previsori circa un ampio output gap (differenza tra domanda effettiva e prodotto potenziale) per diversi anni a venire. Se non corretta, la mancanza di domanda rischia di tradursi in un deterioramento delle capacità di sviluppo della nostra economia, incidendo, insieme con la rarefazione del credito, su dimensione ed efficienza della base produttiva. Se ciò si verificasse, l’output gap si annullerebbe non tanto per l’aumento della domanda aggregata, quanto per l’adeguamento dell’offerta potenziale alle più basse capacità di assorbimento del Paese. Una domanda maggiore è dunque oggi essenziale, più ancora delle riforme strutturali, per salvaguardare il lato dell’offerta.
Per cercare di conseguire una ripresa più forte sarebbe necessario un mutamento sostanziale nel framework europeo, con passi significativi verso una politica UE per la crescita, il ridisegno dei tempi del risanamento fiscale dei paesi periferici, una maggiore simmetria nel riequilibrio competitivo intra-euro. Si tratterebbe di una rivoluzione copernicana rispetto all’approccio finora seguito. Implicherebbe il formarsi in Europa di un coeso gruppo di pressione, costituito dai paesi che condividono problemi e interessi comuni, come Italia, Francia e Spagna. Un mutamento di alleanze tutto da costruire: complesso, pur se non impossibile. Esso richiederebbe tempi lunghi che vanno, forse, al di là di quelli a disposizione per evitare che lo scenario di debole ripresa si trasformi in una prolungata depressione.
Per questo motivo si devono cercare strade interne, di natura anche straordinaria, per il sostegno della domanda e della crescita economica. Senza rompere con l’Europa, ma operando nel pieno rispetto delle regole del Fiscal compact e inscritte in Costituzione. Nell’ambito di questi stretti paletti, il bilancio pubblico può essere modificato, a parità di saldi, in senso espansivo; ciò può essere fatto in modo più efficace e consistente di come si è tentato nella Legge di stabilità, paralizzata da interessi contrapposti, veti reciproci, ambizioni insufficienti.(...)
La strada per reperire le risorse necessarie a realizzare in modo adeguato queste due priorità e, con esse, l’obiettivo della crescita passa per una mobilitazione straordinaria del risparmio di “chi più ha” e la sua distribuzione a favore delle fasce più povere della popolazione, con elevata propensione al consumo, e del mondo produttivo impegnato nella competizione internazionale.
Si possono immaginare diverse varianti di questa operazione. Una possibilità è seguire, su dimensioni del tutto diverse, la manovra impostata dal governo nella riduzione della pressione fiscale sui lavoratori e contributiva sulle imprese, aggiungendovi le misure necessarie a neutralizzare la povertà.(...)
http://www.nomisma.it/index.php/it/soluzione-10x100 [in questo momento - ore 22 circa del 17 gennaio 2014 - il link non è raggiungibile...]

La ripresina europea
Nell’area euro, dopo due anni consecutivi di contrazione, la Banca mondiale prevede una crescita dell’1,1% quest’anno e dell’1,4 e dell’1,5% rispettivamente nel 2015 e 2016. Negli Usa il Pil è stimato a +2,8% quest’anno dal +1,8% del 2013 e a +2,9% e +3% nel 2015 e nel 2016. In Cina il Pil nel 2014 salirà del 7,7%, invariato rispetto al 2013 ma rallenterà al 7,5% nel 2015. «Gli indicatori dell’economia globale - spiega il capo economista della Banca mondiale, Kaushik Basu - mostrano un miglioramento, ma non occorre essere particolarmente astuti per vedere dei pericoli insorgere sotto la superfice. L’area euro è fuori dalla recessione ma il reddito pro-capite continua a scendere in molti paesi. Ci aspettiamo che i paesi più avanzati crescano sopra il 5% nel 2014, con alcune aree meglio delle altre, con l’Angola all’8%, la Cina al 7,7%, l’India al 6,2%. Tuttavia è importante evitare la stasi politica».

Di questo passo, tra molte chiacchiere e ancora più indecisioni su riforme e tagli alla spesa, la discesa agli Inferi dell'Italia nell'eurozona, più che un rischio, appare una scelta quasi scientifica. Ormai però in perfetta solitudine. Non a caso, in un incontro a porte chiuse a Strasburgo il presidente della Commissione, Josè Barroso, ha richiamato il nostro paese al «coraggio delle riforme, senza le quali non può poi lamentare l'assenza di crescita e di lavoro». 
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Q3hhd

Si tratta della manifestazione palese che il legame nefasto tra banche e stati sovrani (il cosìdetto "doom loop"), lungi dall'essere stato spezzato, si è anzi rafforzato, nonostante i reiterati impegni di un vertice europeo dopo l'altro. Le banche hanno continuato a fare incetta di titoli sovrani, in una marcia ininterrotta. La liquidità eccezionale fornita dalla Bce (Ltro) è finita tutta lì: solo in Italia il portafoglio bancario di titoli di stato è raddoppiato da 200 miliardi di euro a fine 2011 a 403 miliardi dell'ultima rilevazione Bankitalia (novembre 2013). Nel contempo, com'è noto, i prestiti a imprese e famiglie si sono ridotti, e non vi è segno di ripresa – anzi, la stretta creditizia pare persino inasprirsi. È per questo che qualsiasi nuova iniezione di liquidità della Bce, se avviene, sarà probabilmente destinata esclusivamente al finanziamento delle imprese e delle famiglie, in una variante europea dello schema Funding for Lending della Banca d'Inghilterra.
di Alessandro Leipold - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/kipb1

giovedì 31 ottobre 2013

Spagna, la ripresa assai poco umana (Phastidio.net)

(...) Su base destagionalizzata, infatti, il totale degli occupati è calato dello 0,4% trimestrale, per il ventiduesimo trimestre consecutivo. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica (INE), l’occupazione totale spagnola è cresciuta negli ultimi sei mesi di 186.000 unità su base destagionalizzata, ma questo incremento è quasi interamente imputabile a fattori stagionali associati all’industria turistica. Vi facciamo grazia dei dati non destagionalizzati, ad evitare polemiche metodologiche, ma sono contrazioni piuttosto pesanti.

Commento, quindi? Che attendiamo fiduciosi che il boom dell’export spagnolo si rifletta in corrispondente aumento di occupazione, per poter portare un minimo di beneficio anche ai consumi interni ed al gettito fiscale e contributivo. Restando tuttavia consapevoli che esiste una probabilità non trascurabile che il violento recupero di produttività non produca occupazione, nel breve-medio termine, ma possa anzi proseguire a distruggerne. E, poiché siamo anche malfidenti per natura, aspettiamo anche di leggere i dati di settembre, mese in cui la destagionalizzazione è meno problematica che in agosto.(...)

domenica 13 ottobre 2013

Chi E' Janet Yellen?

Janet Yellen differisce in molti aspetti dallo stereotipo del banchiere centrale. Innanzitutto, nelle apparenze. Non da duro banchiere con il sigaro, ma da nonna dolce che prepara la torta di mele per i nipotini. Ma la sua apparenza non deve trarre in inganno. Cresciuta professionalmente in un mondo tradizionalmente maschile (e un po' maschilista) come quello degli economisti, Yellen è una lady di ferro che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Un mio collega – tra i più aggressivi in un'università famosa per la sua aggressività - mi ha confessato di essere stato umiliato intellettualmente da Janet Yellen in una conversazione sulla disoccupazione. Lei ne sapeva molto più di lui e, con gentilezza ma determinazione, gli ha spiegato come le sue conclusioni erano sbagliate perché non era abbastanza al corrente dei fatti.
 
Questa fiducia nelle proprie capacità intellettuali, unita ad una apertura a idee diverse, sarà cruciale nei mesi a venire. La Fed deve sottrarre l'enorme liquidità che ha immesso nel sistema durante e dopo la crisi. Deve farlo abbastanza lentamente da non interrompere la fragile espansione americana, ma non così lentamente da creare pressioni inflazionistiche. Una manovra di queste proporzioni non ha precedenti e quindi esempi a cui rifarsi. Le pressioni da entrambi i lati saranno fortissime. Da qui l'importanza di un leader sicuro di sé, ma non arrogante, che riesca a creare un consenso all'interno della Fed e del Paese, senza lasciarsi traviare dalle varie pressioni. C'è bisogno di un leader che proietti al Paese e al mondo un'immagine di competenza e sicurezza. Penso che Janet Yellen possa essere questo leader.
 
Janet Yellen differisce dallo stereotipo dei banchieri centrali anche nella sostanza: non solo ha un cervello, ma anche un cuore. Per lei il tasso di disoccupazione non è solo un'altra statistica, è una tragedia umana. Per questo sul fronte inflazionistico è sempre stata considerata una colomba. E in un certo senso questo è vero. Se deve errare in una direzione nell'uscire dal quantitative easing, Yellen errerà nella direzione di un'uscita troppo lenta, non una troppo veloce. Ma sarebbe sbagliato considerarla alla pari di Krugman una sostenitrice di una politica monetaria ultra accomodante. Nel 1996 si scontrò con l'allora presidente della Fed Allan Greenspan perché sosteneva un rialzo dei tassi di interesse per controbattere pressioni inflazionistiche. Greenspan non la ascoltò, favorendo così la bolla internet.
 
di Luigi Zingales - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/5Du3b
 
(...) La Yellen, fino a ieri vice presidente della banca centrale americana, è sposata con il premio Nobel George Akerlof e ha un figlio che fa il professore di economia. Da quando Bernanke aveva fatto intendere che era pronto a lasciare l’incarico, e Obama non aveva fatto nulla per trattenerlo, lei era naturalmente entrata nella “short list” dei candidati. Le voci di corridoio, però, dicevano che il capo della Casa Bianca era più incline a scegliere Larry Summers, il suo ex consigliere economico, ex ministro del Tesoro nell’amministrazione Clinton, ed ex presidente dell’università di Harvard. Summers dava più sicurezza ad Obama, insieme alla garanzia di essere un falco, incline ad interrompere progressivamente gli stimoli all’economia varati da Bernanke per fare fronte alla crisi iniziata nel 2008.
Intorno al nome di Summers, però, si era costruita in fretta una coalizione di oppositori, che andava da un folto gruppo di senatori come la rappresentante del Massachusetts Elizabeth Warren, fino al premio Nobel per l’economia Stiglitz. Il motivo era che queste persone dell’ala liberal democratica consideravano Summers troppo vicino alle banche e al mondo della finanza, che dopo la crisi aveva aiutato, invece di far pagare loro il prezzo degli errori commessi. Con Larry, invece, si era schierato tutto il clan Clinton, incluso l’ex segretario al Tesoro Rubin.
La pressione degli oppositori è cresciuta, fino a quando tre senatori della Commissione che avrebbe dovuto approvare la nomina hanno annunciato che avrebbero votato contro. A quel punto Summers si è arreso, aprendo la strada alla Yellen. (...)


La nomina alla guida della Federal Reserve fa di Janet Yellen, 67 anni, attuale numero due di Ben Bernanke, la donna più potente del pianeta. La svolta è epocale: è la prima volta nei cento anni di storia della Banca centrale americana (il compleanno cade nel 2014) che si affida tanto potere nelle mani di una donna. Perché il presidente della Federal Reserve, con le sue decisioni di politica monetaria, è il faro che guida l’economia e i mercati non solo americani ma di tutto il mondo. L’ investitura di Yellen provoca anche un’altra circostanza eccezionale: la guida e la sorveglianza dei mercati Usa dal prossimo febbraio sarà declinata tutta al femminile, visto che anche il numero uno della Sec, l’autorità di controllo dei mercati americani, è una donna, Mary Jo White, 65 anni.

Pronti a un pizzico di ottimismo in Borsa? Oggi è possibile perché almeno un tormentone si è chiuso a Washington: sarà Janet Jellen, 67 anni, la numero due di Ben Bernanke. la nuova guida della Federal Reserve, la Banca Centrale americana. Barack Obama darà l'annuncio formale questa sera ora italiana, ma la decisione finale dopo mille tergiversazioni e un'epica battaglia con Larry Summers è presa. di Mario Platero con un commento di Luigi Zingales - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/SB24O

Janet L. Yellen took office as Vice Chair of the Board of Governors of the Federal Reserve System on October 4, 2010, for a four-year term ending October 4, 2014. Dr. Yellen simultaneously began a 14-year term as a member of the Board that will expire January 31, 2024.

giovedì 8 agosto 2013

Il "Sentiero Annunziato"

Per valutare l'efficacia degli annunzi monetari bisogna infatti considerare tre elementi che caratterizzano ciascuna delle banche centrali considerate: la missione, la strategia e la tattica. Un annuncio è credibile se è coerente con la missione del banchiere centrale che si sta legando le mani. Qui emerge la prima differenza tra la Bce, che ha un mandato specializzato, e le due banche centrali anglosassoni, che hanno un mandato duale. Dal 1999 la Bce ha una priorità da tutelare: la stabilità monetaria, (...) 
Donato Masciandaro - Il Sole 24 Ore - leggi su Un arma a doppio taglio

mercoledì 9 gennaio 2013

La curva di Phillips in otto parole (in memoria di Luigi Spaventa - laVoce.info)


Traggo dal sito la Voce.info un breve ricordo di Luigi Spaventa. Mi sembra molto bello e attuale. Allo stesso indirizzo sono scaricabili gli articoli di Spaventa raccolti in un dossier.

FMM

La curva di Phillips in otto parole, di Francesco Daveri

Luigi Spaventa non era solo un economista brillante e curioso. Era anche un grande comunicatore, capace di condensare in poche battute concetti complicati. Un esempio riguarda la sua fulminea trattazione della curva di Phillips durante un seminario alla Bocconi.
Per i non addetti ai lavori, la curva di Phillips è una relazione stimata molti anni fa da un economista inglese (Phillips) che, con i dati della prima metà del XX secolo per l’economia inglese, credeva di avere scoperto la possibilità di uno scambio tra disoccupazione e inflazione. I dati di Phillips sembravano cioè dimostrare che accettando un po’ di inflazione i politici potevano ottenere una minore disoccupazione, semplicemente allentando i cordoni della borsa della spesa pubblica. Dalla fine degli anni Sessanta in poi, però, l’esistenza di questa relazione è stata messa in dubbio da Milton Friedman che su questo punto vinse il premio Nobel e si guadagnò il consenso della maggior parte della professione economica. Per questo nei corsi di macroeconomia di solito si spiega che il guadagno di minor disoccupazione al costo di più alta inflazione implicato dalla curva di Phillips è, al più, temporaneo e che quindi non vale la pena che un governo faccia deficit e inflazione per far scendere per poco tempo la disoccupazione.
Tutto questo lungo (e verboso) discorso tecnico fu riassunto da Luigi Spaventa in poche parole efficaci, dicendo che molte volte i governi “Si fanno una botta di vita sulla curva di Phillips”. Otto parole invece di otto righe. Anche per questo ci mancherà.

lunedì 9 luglio 2012

L'Europa Dia Soldi ai Disoccupati (Primo Passo di un Nuovo Welfare)


La disoccupazione rischia di distruggere il collante che tiene unita una nazione, e ancor più facilmente un continente. Per questo andrebbero pensate misure straordinarie che facilitino l'impiegabilità di chi rimane senza lavoro, o che comunque - almeno - aiutino i singoli a non sentirsi "senza patria" e "senza speranza". Luigi Zingales esplicita oggi un tassello di questa strategia, parlando di un sussidio di disoccupazione che venga dato a livello europeo. Eventualmente, ma è una aggiunta mia in linea con quanto scrivevo in passato, con uno "scambio" che dia occasione alle persone di fare un servizio civile per questa nostra nuova patria europea. Un primo passo per un welfare europeo che sia base anche per una nuova spinta alla crescita: "fermare" la paura della povertà e della solitudine è parte integrante del progetto europeo; da qui deve passare la ricerca di una nuova crescita, che non sia solo economica, ma anche civile e politica.

Francesco Maria Mariotti

(...) Per evitare un avvitamento dell'economia sul modello greco, un'unione monetaria dovrebbe avere un programma automatico di trasferimenti, non solo per le banche, ma anche per i disoccupati. Un sussidio alla disoccupazione, omogeneo a livello europeo, finanziato con fondi europei, e amministrato a livello europeo, avrebbe notevoli vantaggi. Ridurrebbe i costi di aggiustamento delle economie in difficoltà senza per questo eliminare la pressione finanziaria per le riforme, perché i soldi verrebbero dati direttamente alla gente e non ai governi. Come per le banche, trasferendo a Bruxelles il potere di supervisione, ridurrebbe gli effetti devastanti della corruzione politica prevalente in sud Europa. Ma, ancora più importante, aiuterebbe a cambiare l'immagine negativa di Europa che si sta diffondendo, attenta agli interessi delle banche, ma non a quelli dei cittadini. Poco servirebbe salvare l'euro, distruggendo il consenso. Senza il quale l'Europa muore.

martedì 3 luglio 2012

Se la Grecia esce dall'euro... (dal Sole24Ore)

Non scoppierà il caos se la Grecia lascia? «Il caos è già qui. La disoccupazione di massa che l'euro ha portato è intollerabile. Solo un'uscita dall'euro può dare posti di lavoro dei giovani greci e sperare per il futuro ancora una volta. L'assistenza deve essere utilizzato per facilitare l'uscita ordinata. Negli ultimi decenni ci sono stati decine di default sovrani. In tutti i casi ci sono voluti una svalutazione per recuperare». di Vittorio Da Rold - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/nnnse

giovedì 15 marzo 2012

L'Unione Politica è archiviata, prendiamone atto (Paolo Savona, da FULM.org)


Sulla stessa linea si è posta la Bundesbank indicando nella Bce un possibile untore, mentre essa ha trovato un modo per evitare che l'euro si impesti. Gli organi dell'Unione non riescono invece a evitare la peste della disoccupazione, che combattono a colpi di dichiarazioni a favore dello sviluppo. Eppure almeno uno strumento lo hanno: finanziare un piano di infrastrutturazione europea emettendo eurobond. Non lo fanno perché sarebbe un passo concreto verso l'unione politica, che non si vuole.
Se così è, si prenda nota che i patti europei che ci legano vanno rinegoziati alla luce dell'abbandono dell'obiettivo dell'unificazione politica e il mantenimento, se si vuole, del mercato unico europeo con moneta comune, che è ben altra cosa e non richiede il trasferimento di sovranità, ma solo, come si dice, patti chiari e amicizia lunga. Meglio farsi illuminare dal faro politico inglese, che fotografa la situazione dei reali fondamenti dei patti europei, o accenderne uno nuovo.

domenica 29 gennaio 2012

La Cittadinanza Non Basta (Giovanna Zincone sulla Stampa)

Già in novembre - a partire dalle parole del Capo dello Stato - ho scritto sull'idea di dare la cittadinanza ai figli degli immigrati, esprimendo alcune idee sul fatto che questa giusta proposta andava contemperata alla situazione attuale del paese, costruendo su questa idea un nuovo patto sociale. 
La cittadinanza oggi è un patrimonio da condividere lavorando su un progetto comune
Segnalo in questo senso l'articolo - problematico, ma molto lucido e interessante - di Giovanna Zincone: su questo tema è sconsigliabile muoversi in un'ottica esclusivamente valoriale, ma è necessario valutare i molti fattori che incidono sui processi di integrazione.

Francesco Maria Mariotti

"(...) Ma se non convincono le motivazioni di chi, in materia di cittadinanza, non vuol concedere nulla, suscitano dubbi anche quelle di chi vuol dare tutto e subito. Quest'ultima è la posizione dei promotori del referendum di iniziativa popolare: la loro legge attribuirebbe la cittadinanza ai figli di immigrati che hanno un soggiorno regolare anche solo da un anno. Mi sembra poco per stabilire se quella famiglia con il suo bambino vorrà davvero vivere nel nostro Paese, né mi sembra in grado di far quagliare intorno a sé una maggioranza parlamentare. C'è spazio però per soluzioni bipartisan intermedie, già emerse, che collegano la concessione della cittadinanza a un ragionevole tempo di soggiorno regolare dei genitori o del bambino stesso.


Ho sostenuto prima che facilitare l'accesso alla cittadinanza può aiutare a integrare, pur se non è l'unica determinante. Sono molti i fattori che incidono sui processi di integrazione: l'istruzione, l'apertura del mercato del lavoro, la congiuntura economica. Non sappiamo quale sia il peso specifico della cittadinanza in questo processo, perciò è difficile elaborare in questo campo quella linea di azione che Weber predilige e definisce «razionale allo scopo», cioè orientata a valutare i mezzi e la loro capacità di ottenere risultati. Ma è anche impossibile in questa materia evitare di agire con un orientamento ai valori, un comportamento pubblico in cui Weber, come Sartori, vede a ragione rischi di derive ideologiche.



A mio avviso, però, in certi ambiti la coerenza ai valori è un ingrediente non solo inevitabile, ma salutare, purché la si coniughi con la razionalità strumentale, la ricerca di mezzi adeguati. Dagli orientamenti rispetto alla riforma della cittadinanza in Italia traspaiono valori di fondo, atteggiamenti emotivi distanti: una maggiore simpatia o antipatia per gli immigrati, una maggiore fiducia o sfiducia rispetto a sistemi politici e sociali aperti.



Come suggerisce Weber esplicito i miei valori: confesso di appartenere al secondo gruppo. Ma non dimentichiamo la buona, vecchia, prudente razionalità strumentale. Simpatizzare per gli immigrati, auspicare una società aperta non basta, se non si individuano soluzioni capaci sia di ottenere i consensi politici necessari nell'immediato, sia di funzionare bene per il futuro. Non basta essere puri come colombe se non si è anche astuti come serpenti."


domenica 18 dicembre 2011

Riforma del lavoro? Sì, ma l'Europa deve Crescere


A proposito dell'intervista di oggi a Elsa Fornero: ho dei dubbi sulla necessità di toccare l'art.18 (si può costruire un nuovo modello di contratto senza toccarlo, a mio avviso), ma è comunque molto interessante e completa. In ogni caso rimane il fatto che senza crescita a livello continentale possiamo fare le migliori riforme del lavoro, ma avremo sempre troppa disoccupazione. L'outplacement di cui si parla in varie proposte funziona se ci sono aziende nelle quali i licenziati possono essere ricollocati. Ma se non c'è crescita, non ci saranno aziende in grado di riassorbire il personale licenziato (Si leggano in questo senso le riflessioni di Dario Di Vico sul caso Electrolux). Per questo c'è il rischio che una ottima soluzione teorica si trasformi in una situazione squilibrata, qui e ora
In questo senso c'è necessità di soluzioni a livello sistemico che il governo Monti non può fare da solo: tutta l'Europa deve muoversi.
FMM

(...) Come se ne esce? 

«Penso che un ciclo di vita che funzioni è quello che permetta ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Ma un contratto che riconosca che sei all'inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto».

I sindacati non ci stanno a toccare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. 

«Sono abbastanza anziana per ricordare quello che disse una volta il leader della Cgil, Luciano Lama: "Non voglio vincere contro mia figlia". Noi, purtroppo, in un certo senso abbiamo vinto contro i nostri figli. Ora non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte». 

Monti ha detto che le nuove regole si applicheranno solo ai futuri assunti. 

«Certamente penso ci voglia maggiore gradualità nell'introduzione delle nuove regole rispetto a quanto abbiamo fatto sulle pensioni». (...)

martedì 22 novembre 2011

Educazione Civica e Servizio Civile - Per Una Nuova Cittadinanza


La riflessione di Napolitano ci pone - come sempre, negli ultimi tempi - di fronte alle emergenze di questo periodo: quella su cui ci ha richiamato oggi - l'immigrazione e i diritti di cittadinanza dei nati in Italia da non italiani - è lo stimolo per definire anche in termini non improvvisati cosa vogliamo come futuro e ambizione del nostro Paese.
Per questo però il discorso sul diritto di essere italiano per chi nasce in Italia è punto necessario ma non sufficiente per definire in prospettiva la nostra(le nostre) identità comunitaria(e), come Italia e come Europa.
Solo per dare i titoli di un discorso che andrebbe ampliato: educazione civica e servizio civile (obbligatorio? forse, se necessario...).
Non sto parlando qui- in realtà- dei soli immigrati.
Oggi, anche per combattere al meglio la battaglia economica di questa crisi ("la necessità di forze nuove" è uno dei motivi che Napolitano propone come giustificazione dello ius soli) dobbiamo trovare il modo di ridefinire il nostro collante nazionale - e di qui la necessità di riprendere una programma leggero ma innovativo di educazione civica; ma soprattutto, anche di fronte ai dati che ci dicono di un numero impressionante di giovani che sono completamente inattivi (non in  formazione, senza lavoro, e non in ricerca di lavoro) è forse inevitabile - anche se dal punto di vista liberale rappresenta un grave azzardo - che la mano pubblica rientri in campo per stimolare  uno sforzo collettivo di azione e riqualificazione dei cittadini.
So che così si rischia - e io lo sento come un gravissimo rischio - di "mettere in divisa" (di Protezione Civile, ma pur sempre divisa) di un gran numero di persone, con tutte le tentazioni che ne possono derivare. Ma l'alternativa, dato che la ripresa economica si farà aspettare a lungo, è di avere un numero consistente di cittadini fermi, bloccati (non per colpa, né per demerito) nel definire un proprio orizzonte, e dunque sempre più facilmente bersaglio di solitudine, demagogia, populismo.
Dagli ospedali ai territori da rimettere in sesto (Liguria docet), dalle nuove povertà e solitudini alla sicurezza contro la microcriminalità: i cittadini italiani -  e quelli europei, pensando a un programma continentale di occupazione dei cittadini UE, con scambi ad hoc - possono esser chiamati a dare il loro apporto al bene della comunità, nel frattempo imparando (o re-imparando) un lavoro.
Sto parlando dei nati qui (indipendentemente dalla nazionalità dei loro genitori), ma non solo.
Sto parlando dei giovani, ma non solo.
Perché la cittadinanza non è un diritto definito una volta per tutte, ma è una costruzione, a maggior ragione la cittadinanza europea.
E' un "artificio", quindi, e come tale è sovente da rinsaldare e ridefinire.
Francesco Maria Mariotti

martedì 15 novembre 2011

Rapporto Einaudi (Sole 24 Ore)

(...) Il professor Deaglio ha illustrato alla stampa il Rapporto con il pensiero rivolto al presidente del Consiglio incaricato Mario Monti, affermando che il compito che attende il nuovo Governo sarà tutt'altro che facile e soprattutto che non basterà tagliare, ma bisognerà dare all'economia «anche un po' di ricostituente». Le risorse andranno trovate stando attenti a non colpire né i consumi, né gli investimenti: «Per esempio ci sono prodotti finanziari che non hanno contenuti italiani, come gli hedge fund», ha detto Deaglio, secondo cui «La strada per la ripresa dovrebbe passare anche attraverso il prelievo sui patrimoni» (...) di Piero Fornara - Il Sole 24 Ore