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giovedì 17 marzo 2022

Rischio sul fianco Sud (Formiche.net)

"Il rischio è quello di una grande operazione distrazione. Mentre la guerra russa in Ucraina scuote l’Europa sul fianco Est, i riflettori del mondo si spengono sul fianco Sud. E invece anche a Sud, nel Mediterraneo allargato, il bacino strategico che va da Gibilterra all’Iran, l’onda lunga della guerra si fa sentire. A suonare un campanello d’allarme è il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare europeo (...)"

 https://formiche.net/2022/03/ucraina-minaccia-sud-graziano/

lunedì 7 marzo 2022

Molte guerre, molti compromessi

Forse possiamo evitare di dividerci tra "interventisti" e "pacifisti". Ci sono molti modi di intervenire / fare la guerra, ci sono molte possibilità di "compromesso". Ci sarà probabilmente un mix delle due cose. È bene anche per noi che l'Ucraina resista più che può, ma noi dobbiamo muoverci contemporaneamente su più fronti. Fermare Putin è prioritario, i modi e i prezzi da pagare, e i compromessi accettabili possono essere diversi. Probabilmente un passo in più dentro questa guerra prima o poi dovremo farlo, ma senza ardore, senza inutile retorica. Facciamo ciò che è realmente necessario.

lunedì 28 febbraio 2022

Via d'Uscita

la relazione annuale del Dis (Formiche.net)

"(...) L’infrastruttura metanifera italiana permette però di attutire l’impatto, almeno nel breve periodo, di eventuali shock della supply chain come quello che si profila nelle prossime settimane dopo le sanzioni a Mosca. “Il sistema infrastrutturale italiano rispetta la cd. formula N-1, ossia la capacità di soddisfare, grazie alla ridondanza, livelli di domanda molto elevati anche in caso di interruzione della principale infrastruttura di importazione, ossia del gasdotto che trasporta i flussi in arrivo dalla Russia fino al punto di ingresso di Tarvisio e che, nel 2021, ha veicolato il 38% del fabbisogno nazionale”.(...)"

https://formiche.net/2022/02/007-rapporto-relazione-dis/

lunedì 26 agosto 2019

Un percorso europeo per le riforme italiane (Maurizio Ferrera, Corriere della Sera)


"(...) La nuova Commissione avrà infatti il sostegno dei partiti tradizionalmente europeisti: popolari, socialisti e democratici, liberali. Sarebbe sbagliato però dire che la Ue è rimasta quella di sempre. La nuova legislatura sarà sicuramente meno «austera» delle due precedenti (Juncker e Barroso), meno orientata alla stabilità fiscale in quanto tale e più aperta verso i temi della crescita, dell’occupazione, della sostenibilità ambientale e sociale. Lo testimoniano innanzitutto i programmi dei partiti che ora formano la maggioranza a Strasburgo. Rispetto alle elezioni del 2014, essi hanno formulato proposte precise su tutti questi fronti (si vedano le analisi su www.euvisions.eu). Il segnale più forte viene tuttavia dall’«Agenda per l’Europa» preparata dalla neopresidente Ursula von der Leyen per il prossimo quinquennio. Una lettura attenta di questo documento sarebbe molto utile a chi sta lavorando per risolvere la crisi di governo. Vi si trovano infatti idee e proposte molto calzanti per l’Italia. In primo luogo, von der Leyen richiama l’attenzione sui temi ambientali e sulla necessità di un vero e proprio «Patto verde» europeo. Non solo per affrontare la sfida oggi più dirompente per l’intero pianeta — il cambiamento climatico — ma anche per stimolare la crescita. Economia circolare, risanamento ambientale, rilancio delle aree e delle attività rurali, investimenti massicci in sostenibilità: preso seriamente, il perseguimento di questi obiettivi avrebbe enormi ricadute in termini di Pil e occupazione. Sul versante del lavoro, la neopresidente propone un salario minimo Ue e la regolazione della cosiddetta gig economy (i lavori tramite piattaforma, che interessano un numero crescente di giovani europei). In tema di welfare, l’obiettivo prioritario è il rafforzamento della garanzia giovani, nonché di una nuova «garanzia minori» (reddito, asili, formazione primaria, salute per tutti i bambini/ragazzi in condizioni disagiate). Dato il suo successo come ministra per gli affari sociali e la famiglia in Germania, von der Leyen propone poi un piano ambizioso per le donne (conciliazione, pari opportunità, protezione contro violenze e femminicidi) e la piena realizzazione del nuovo Pilastro europeo dei diritti sociali. Inoltre, la sua Agenda insiste moltissimo sugli investimenti digitali e in capitale umano: istruzione, ricerca e sviluppo. Nel documento c’è molto altro (compresa la revisione del Regolamento di Dublino sull’immigrazione). Ma i punti menzionati sono tutti rilevantissimi anche per l’Agenda Italia. Se un nuovo governo li includesse nel programma, si tratterebbe (questa volta sì) di un cambiamento epocale rispetto agli approcci del passato, prevalentemente basati sulla difesa a oltranza dell’esistente (settori economici tradizionali, previdenza pensionistica) piuttosto che investimenti per il futuro e per l’inclusione attiva delle persone più svantaggiate. Oltre che per i contenuti, la svolta di von der Leyen merita attenzione anche per altri motivi. In vari Paesi membri non vi sono oggi i margini fiscali per muovere nelle direzioni indicate dalla neopresidente. Certo, con incisive riqualificazioni della spesa pubblica e una lotta a tutto campo contro l’evasione, un po’ di margini si potrebbero (e dovrebbero) trovare. Ma difficilmente basterebbero, almeno nel breve periodo. In Italia abbiamo una complicazione in più. Le clausole sull’Iva introdotte dal governo giallo-verde ci obbligano a trovare 23 miliardi per il 2020 e 29 per il 2021. Se non le disinneschiamo, si rischia di tarpare ancor di più le ali a una crescita già intorno allo zero. E senza crescita il debito non scende. C’è un modo per uscire da questo circolo vizioso? Immaginiamo il seguente scenario. Il nuovo governo elabora (preferibilmente con l’assistenza tecnica della Commissione) un ambizioso piano di riforme in linea con l’Agenda Ursula, indicandone anche i costi. Poi lo presenta come Nota aggiuntiva al programma di Stabilità che tutti i Paesi devono sottoporre a Bruxelles nel mese di ottobre. Come reagirebbe la Commissione? È difficile che ci risponda con un no secco. Vorrà sicuramente essere sicura che non si tratti di una richiesta opportunistica, come è già avvenuto in passato. Chiederà assicurazioni su contenuti e tempi delle riforme, forse vorrà essere coinvolta nel monitoraggio e nella valutazione in corso d’opera. Inoltre si aspetterà che la legge di Stabilità per il 2020 si allinei alle raccomandazioni di politica economica e sociale ricevute dall’Italia lo scorso giugno (ad esempio rivedere quota 100 e il reddito di cittadinanza, per renderlo più efficace). (...)"

venerdì 19 luglio 2019

Von der Leyen: “L'Europa dialoghi con la Russia ma da una posizione di forza” (laStampa)

Mi sembra intervista interessante, da molti punti di vista.

FMM

"(...) Dalla necessità di un “nuovo inizio” sul tema delle migrazioni alla volontà di «sfruttare meglio i margini offerti dalla flessibilità» per ciò che riguarda i criteri del patto di stabilità e di crescita, la presidente von der Leyen si annuncia come un’interlocutrice attenta alle preoccupazioni italiane. Non solo si oppone a qualsiasi forma di Ital-Exit, ma riconosce che «le differenze tra Sud e Nord dell’Europa, così come quelle tra Est e Ovest, vanno ricomposte evitando un’eccessiva emotività nel dibattito, che possa far sentire esclusi o respinti alcuni degli Stati membri».  Anche sul caso che ha contrapposto il vicepremier italiano Matteo Salvini a Carola Rackete si è mostrata attenta a pesare le parole: «In tutto il mondo il dovere è salvare le persone dall’angoscia di trovarsi in alto mare, ma questo non significa che tutti debbano venire in Europa».

Pur riconoscendo che su alcuni dossier non è ancora in grado di offrire soluzioni e proposte – prima su tutte la questione catalana, che «intende approfondire in tutti i suoi dettagli» – von der Leyen ha assicurato che ascolterà molto e cercherà un approccio comprensivo nella soluzione dei problemi. Vale anche per Brexit: «L’accordo non è morto, se ci sono buone ragioni che il governo britannico vuole offrire all’Ue per un’estensione dei suoi termini, sono pronta ad ascoltarle». Le maggiori cautele le ha espresse a proposito della Russia di Vladimir Putin: «La Russia è nostra vicina e resterà la nostra vicina – ha detto - ma l’esperienza degli ultimi anni ci dice che il Cremlino non perdona alcuna debolezza, quindi l’Europa deve essere disponibile al dialogo da una posizione di forza». Trasparenza e contrasto alle fake-news: «Questa è la forza dei paesi liberi con la stampa libera».

La versione integrale dell’intervista concessa dalla Presidente Ursula von der Leyen alla Stampa e ad altri quotidiani europei (The Guardian, Le Monde, Sueddeutsche Zeitung e La Vanguardia) sarà disponibile nell’edizione di domani, 20 luglio."

https://www.lastampa.it/esteri/2019/07/18/news/von-der-leyen-l-europa-dialoghi-con-la-russia-ma-da-una-posizione-di-forza-1.37105568

martedì 16 luglio 2019

Chi è Ursula von der Leyen (ISPIOnLine)

"(...)"Il mio obiettivo sono gli Stati Uniti d’Europa” ha dichiarato Von der Leyen in un’intervista del 2011, citando come esempi Stati federali come la Svizzera, gli Stati Uniti o la Germania. “Immagino l’Europa dei miei figli e nipoti come un’unione che non sia debole e in preda agli interessi nazionali”. Coerente con tale visione di una UE forte e integrata, Von der Leyen nel suo discorso di candidatura al Parlamento europeo ha proposto varie riforme ambiziose: ha proposto un “Green Deal” per l’Unione europea, ha rinnovato l’appello a concludere l’integrazione del mercato dei capitali e ha promesso di lavorare per l’introduzione di un salario minimo e un programma europeo di lotta alla disoccupazione; inoltre, la candidata si è detta a favore di una riforma del regolamento di Dublino e più in generale della governance europea nel campo dell’immigrazione, così come di un nuovo meccanismo per la salvaguardia dello stato di diritto nell’UE e della costruzione di una capacità militare congiunta tra gli Stati membri."

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/chi-e-ursula-von-der-leyen-23507

lunedì 28 gennaio 2019

Migranti: le guerre lampo che non funzionano, l'opposizione che non convince

Ho raccolto alcuni articoli reperiti su varie fonti; mi sembra riassumano bene la difficoltà politica di questa fase, fra azioni governative poco utili (se non addirittura dannose per la sicurezza e gli interessi italiani) e un'opposizione poco convincente, che affronta la questione migrazione con argomenti e toni che rischiano di sembrare solo "moralistici", a tratti contraddittori, e - temo - alla fine controproducenti. 

Sullo sfondo, principe tra le altre cose, la questione libica, mai in pace dopo la guerra senza orizzonte del 2011, con una strada diplomatica sempre più difficile, con il dubbio - per quel poco che comprendo - che il coinvolgimento del nostro paese debba passare prima o poi attraverso nuovi interventi militari, o - forse più probabile - attraverso la delega ad altri (il generale Haftar? il figlio di Gheddafi?) che possano "unificare" il paese (se ancora possibile). 

Qui trovate estratti degli articoli; ovviamente è consigliato leggere i testi integrali.
Spero possano essere d'aiuto.

Francesco Mariotti

"(...) La forza di Salvini sta dunque qui, nello strappo «barbarico» che lo spinge dove la sinistra non osa. Come con l’azzardo estremo della chiusura (nominale) dei porti, che ha svelato tanta ipocrisia europea e che però si sta riproponendo in queste ore con la nuova odissea di una nave Sea Watch e 47 profughi, così il vicepremier leghista strappa sui Cara. Solo che da qui cominciano i problemi. Perché chiudere Castelnuovo di botto, con un blitzkrieg, è un’avventura sciagurata in quanto, oltre a colpire diritti soggettivi, mette per strada almeno un quinto degli ospiti. La pattuglia degli Invisibili si ingrossa ulteriormente e le cose andranno peggio nei prossimi mesi con la cacciata progressiva dai centri di chi non ha più la protezione umanitaria ma non può essere rimpatriato in mancanza di accordi coi Paesi d’origine: a migliaia (130 mila in due anni secondo l’Ispi) finiranno nel limbo dei né espulsi e né accolti, in mano alla criminalità.

Dunque la forza di Salvini è anche la sua debolezza, la filosofia della guerra lampo lo imprigiona. Temendo di essere raggiunto da problemi insolubili prima di incassare il dividendo elettorale promesso dai sondaggi, il vicepremier procede per strattoni e fughe in avanti. Si tratta invece di cambiare paradigma: un problema che non riguarda solo lui o il suo governo ma noi europei nell'insieme. Lungimiranti come gattini ciechi, ci siamo ridotti in 500 milioni a litigare su chi apre o chiude i porti a qualche centinaio di profughi sulle navi Ong, mentre l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, ci spiegava che in tutto il pianeta 68,5 milioni di persone nel solo 2017 sono state in fuga da guerre e persecuzioni. La zona più critica di questo disordine mondiale è l’Africa: sono 29 gli Stati coinvolti in guerre o guerriglie e 259 le milizie dal Burkina-Faso al Sudan, dalla Nigeria al Congo alla Somalia e, ovviamente, alla Libia che, al momento, non è neppure più uno Stato (dunque non si capisce in base a quale finzione possa essere titolare di una zona Sars, Search and Rescue, dove infatti non si viene salvati ma condotti a morte). Il summit di Ouagadougou ha previsto che nel 2030, causa desertificazione, saranno 135 milioni i «profughi climatici» e di essi 60 milioni saliranno dall’Africa sub sahariana al Nord Africa e (infine) all’Europa. Di fronte a questi dati enormi appaiono assai miopi due visioni.

La prima, della destra sovranista, riduce migrazioni bibliche a epifenomeno di un fenomeno criminale: il traffico di esseri umani degli scafisti con la «complicità» di alcune Ong. Sostenere che fermate le Ong si fermino i viaggi è contraddetto dalla realtà (arrivano tuttora boat people a Lampedusa): l’unico risultato è tornare a prima del 2013 e di Mare Nostrum, con più naufragi e morti. La seconda visione, tuttavia, è altrettanto fuorviante, ed è quella irenica della sinistra altermondista: mentre accogliamo tutti basta aprire relazioni amichevoli, insegnare mestieri sul posto e sarà fatta, gli africani si riscatteranno da soli. Non è così. E non solo perché, ovviamente, non possiamo accogliere tutti, pena conflitti sociali ingestibili. Il primo passo, perché questo sogno di riscatto sia reale, è garantire dalle varie Boko Haram, Ansar al-Shari’a e milizie criminali assortite i nostri tecnici, maestri, medici: significa essere disposti a combattere. Il secondo passo è evitare che gli investimenti umanitari finiscano nei conti offshore dei mille dittatorelli locali. Per questo le liti con i tedeschi sulla missione Sophia o coi francesi sul loro presunto neocolonialismo sono nocive per tutti: il piano Marshall africano di cui parla Antonio Tajani ha senso solo se siamo in grado di seguire e proteggere quei miliardi di euro; un esercito comune europeo, domani, ci sarebbe necessario almeno quanto una vera unione bancaria.

Nell'immediato i soccorsi sono doverosi. Ma più doveroso ancora, per governi europei degni di questo nome, sarebbe mettere adesso le premesse perché, domani, 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare. (...)"


"La paura ci rende pazzi, come ha detto papa Francesco, ma ci porta anche all’insonnia della ragione. Per ogni migrante espulso, cacciato da un centro di accoglienza, a causa dell’abrogazione della protezione umanitaria, che lascia per strada chi aveva un permesso di soggiorno in scadenza o scaduto. La paura rende pazzi, ma c’è un ma. Chi per anni ha studiato le sbagliate o mancate politiche di accoglienza, fatte alla rinfusa, perché c’erano esseri umani da salvare e il resto veniva dopo, sempre dopo, ora, davanti al putiferio scatenato dal piano di chiusura dei grossi centri di accoglienza, storce un po’ il naso. Sono anni che organizzazioni autorevoli della società civile, Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) in primis, denunciano le falle di un sistema di accoglienza fatto di maxi centri per migranti. A discapito di un modello alternativo di accoglienza diffusa, in cui la distribuzione dei richiedenti asilo sui territori permette di non intaccare i fragili equilibri sociali e di garantire un’integrazione concreta e mirata.

Giusto opporsi alle norme che frenano quella parziale integrazione realizzata. Restare umani è un imperativo.

Ma in molti di quei centri che dovranno essere chiusi, che non dovevano essere creati, 6 mila persone nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e i nei Cas (137 mila persone), c’era già la manovalanza per le mafie locali e straniere. Ascolto da anni i racconti dei volontari, pazzi anche loro ma di rabbia, perché vedono la mala gestione di molti centri, dove si chiudono gli occhi davanti alla tratta delle nigeriane, al racket dell’elemosina e allo spaccio di stupefacenti. (...)"


"(...) Tre giorni fa, per cominciare, Salvini ha detto che Sophia, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani nel Mediterraneo, può concludersi in qualsiasi momento, avendo “come ragione di vita che tutti gli immigrati soccorsi vengano fatti sbarcare solo in Italia”. Salvini forse non lo sa, ma come è stato ricordato bene ieri da Repubblica il mandato di Sophia non prevede il salvataggio dei migranti bensì unicamente la lotta a scafisti e trafficanti d’armi e l’addestramento della Guardia costiera libica, indispensabile per fare quello a cui Salvini tra un mojito e un altro non sembra essere interessato: occuparsi di come aiutare Serraj a governare i flussi che partono dalla Libia. Colpire Sophia, dunque, non significa colpire l’Europa ma significa colpire l’Italia.
E lo stesso atteggiamento autolesionista Salvini lo ha messo in campo quando il governo del cambiamento si è occupato di altri dossier. Uno su tutti: la modifica del trattato di Dublino. Il trattato di Dublino, come sapete, prevede che il primo stato membro in cui viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d’asilo del rifugiato e nel contratto di governo Salvini e Di Maio hanno promesso di voler portare avanti “la revisione del Regolamento di Dublino e l’equa ripartizione dei migranti tra tutti i paesi dell’Ue”. Anche qui, l’atteggiamento avuto finora dal governo è stato controproducente. I campioni del sovranismo tendono a non ricordarlo, ma lo scorso anno il Parlamento europeo ha approvato una legge – non votata dal Movimento 5 stelle e addirittura bocciata dalla Lega – che cancella il criterio che il primo paese di accesso debba essere quello in cui il migrante presenta la richiesta d’asilo. Il problema è che alla fine di giugno il primo Consiglio europeo a cui ha partecipato il presidente Conte ha creato le condizioni per non modificare mai più quel trattato, accettando il principio imposto dai paesi di Visegrád che ogni modifica del trattato di Dublino debba essere decisa all’unanimità dei paesi dell’Unione europea (è sufficiente dunque che uno dei paesi europei amici di Salvini ponga il veto alla modifica del trattato per non modificarlo più). (...)"

mercoledì 29 agosto 2018

Europa Terra Di Pace

(Con riferimento alle polemiche di queste ore)


Se proprio dovessimo schierarci, mi verrebbe da dire "con Merkel e con la Germania"; ma sarebbe meglio dire con l'Europa come economia sociale di mercato. 

No ai nazionalismi, ma no anche ai leaderismi che alla fine aprono anche involontariamente la strada ai populismi.

Europa terrà di libertà e solidarietà, non di sfide fra stati e leader politici.

Europa terra di pace.

Francesco Maria Mariotti

***
vd. anche i post riguardanti in modo più o meno diretto l'economia sociale di mercato e in particolare quello su Ludwig Erhard e l'Economia Sociale di Mercato

sabato 5 settembre 2015

Profughi e confini (Davide Giacalone)

Sul dramma dell'immigrazione, propongo un articolo che mi pare possa 
​essere di ​interess​e, per cercare di leggere con razionalità il problema.

F​rancesco Maria Mariotti
​​
***
"(...) La Germania ha unilateralmente deciso di accogliere i siriani, conquistandosi un posto nella bacheca della bontà. E’ stata una scelta in contrasto con l’ipotesi di una politica europea comune, proprio perché unilaterale. Sta di fatto che, da quel momento, complice l’enorme pressione sulle frontiere ungheresi, tutta la riflessione sull’immigrazione è concentrata sui siriani. Errore.

Intanto perché i profughi, quindi coloro i quali hanno diritto ad essere soccorsi e accolti, non vengono solo da lì. Se si vuole una politica comune si deve parlare tutti e di tutti, altrimenti si tratta di una scelta politica fatta da un solo Paese. Non c’è alcun dubbio sul fatto che i profughi abbiano diritto all’asilo.
I problemi sono tre: a. chi sono, come li si riconosce; b. quale è il limite oltre al quale vanno redistribuiti non solo dentro l’Ue, ma anche fuori, perché troppi; c. quale è la condizione in cui ci si pone il problema della guerra che li fa scappare, lavorando per farla cessare, il che comporta considerare come propria la guerra all’Is e come non desiderata l’alleanza di Assad. E comporta che ai turchi che si decidono a non offrire più coperture all’Is non si consenta di bombardare i curdi. Questi sono i dilemmi da affrontare, se dietro al piagnucolio non s’intende coprire le decisioni politiche di altri.Le quote obbligatorie hanno un senso a fronte della comune politica, altrimenti, sia nella versione accoglienza che in quella del pagamento, in vil denaro, per mancata accoglienza, diventano supporto a politiche estere non comuni. 

​(...) ​Se è problema comune allora comune deve essere la politica d’accoglienza, il che comporta comune amministrazione delle frontiere esterne, salvaguardando le conquiste (Shengen) in quelle interne.Se così non si procede non solo l’invocazione di più Europa e più integrazione si traduce in un gargarismo ipocrita, ma l’Italia si troverà in guai peggiori, perché il resto della pressione migratoria, fatta di gente in carne e ossa, di drammi umani, di bambini proiettati verso la speranza di una vita migliore, resterà problema di chi li vede alla propria frontiera, di chi va a salvarli dalla morte per annegamento, di chi deve sobbarcarsi il gravosissimo e necessario compito di rifiutarli e rispedirli indietro. Non essendo neanche in grado di farlo. (...)"

sabato 4 aprile 2015

Sul Nucleare Iraniano (rassegna stampa)

In tutti i grandi negoziati fermare l’orologio e continuare a trattare equivale a escludere la possibilità di un fallimento. Troppo gravi sarebbero le ricadute politiche per chi, volendo fare la storia, scopre invece di doversi arrendere alla sconfitta. Ma escludere il fallimento non significa garantire il successo, e il confronto nucleare di Losanna tra l’Iran e le potenze occidentali fiancheggiate da Russia e Cina ha sfiorato più volte il disastro prima di riuscire, ieri sera, a produrre un accordo-quadro che nelle limitazioni al programma nucleare di Teheran va al di là delle attese e incoraggia le parti a negoziare ancora per giungere all’intesa definitiva entro la fine di giugno.

Letta congiuntamente dal ministro degli Esteri iraniano Zarif e dalla responsabile europea per la Politica estera Mogherini (che nella circostanza rappresentava anche Usa, Russia e Cina), la dichiarazione messa a punto dopo otto giorni e sette notti di lavoro nasce da uno scambio di concessioni tra le due parti del tavolo: l’Iran accetta la volontà dei suoi interlocutori di impedirgli l’accesso all’armamento nucleare per un lungo periodo di tempo, in contropartita di una revoca sollecita e poco condizionata delle sanzioni economiche decise contro Teheran dagli Usa, dall’Europa e dall’Onu.​(...)

Ma se Obama e il suo negoziatore Kerry parlano di un «grande giorno», un segnale di necessaria cautela giunge dalle parole dei delegati iraniani che ridimensionano di molto il contenuto effettivo delle loro concessioni. Anche all’ora dei sorrisi sono i fronti interni dei due protagonisti del negoziato a tenere banco. Il capo della Casa Bianca aveva bisogno di fatti concreti, di concessioni precise da parte dell’Iran per convincere il Congresso (che riapre tra dodici giorni) ad aspettare il nuovo round negoziale prima di adottare eventuali nuove sanzioni contro Teheran. E dall’altra parte, poteva Zarif superare le linee rosse indicate più volte dalla «Guida suprema» Khamenei in tema di sovranità e di diritto al nucleare (pacifico, afferma Teheran)? E poteva il presidente Rohani inviare a Losanna istruzioni ancor più flessibili, senza sapere se l’ambiguo Khamenei e dietro di lui i militari, i nazionalisti, gli avversari personali ne avrebbero approfittato per accusarlo di tradimento?

Questi condizionamenti non spariranno nei prossimi mesi. L’accordo preliminare di Losanna dovrà dimostrare davvero, davanti al Congresso e davanti a Khamenei, di essere stato l’annuncio di una svolta storica che cambierebbe il mondo. Dovrà dimostrare di poter garantire la sicurezza di Israele, dando torto alle preoccupazioni di Netanyahu che fino a prova contraria e definitiva conservano qualche fondamento. Dovrà dimostrare che l’opzione militare, evocata come possibilità in caso di rottura delle trattative, è destinata anch’essa all’archivio. E dovrà evitare, con una iniziativa politica dell’Occidente che deve partire subito, il diffondersi tra le monarchie del Golfo e oltre di una generica paura dell’Iran sciita foriera di nuove guerre e di nuovo terrore. Soltanto così Losanna oggi e l’accordo di fine giugno fra tre mesi risponderanno davvero all’entusiasmo del popolo iraniano, soprattutto a quello dei giovani che sperano in più benessere e più libertà. 



Finalmente il tanto atteso accordo sul nucleare iraniano è arrivato. Ci sono voluti otto giorni, con due di estensione rispetto ai tempi previsti, perché i P5+1, i sei paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite insieme alla Germania, dessero il via libera ad un’intesa definitiva che metta fine a dodici anni di contenzioso nucleare. Una pagina storica per la storia del Medio oriente: è stato subito il commento del segretario di Stato John Kerry e del ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha parlato di un mondo più sicuro in seguito all’accordo e di «verifiche senza precedenti» per impedire qualsiasi deviazione militare del programma nucleare a scopo civile.

I termini dell’accordo
Sebbene il testo finale sarà firmato soltanto il prossimo 30 giugno e solo ora si passa alla stesura dell’intesa, di fatto il vero passo avanti è stato compiuto. La bozza annunciata a Losanna ammette di fatto che l’Iran prosegua nel suo programma nucleare a scopo civile. Non solo, prevede la cancellazione di tutte le sanzioni internazionali, contestualmente al rispetto dei requisiti dell’accordo annunciato in una conferenza congiunta dall’Alto rappresentante per la politica dell’Unione europea Federica Mogherini e dal suo omologo iraniano, Javad Zarif.


Con l’accordo-quadro raggiunto a Losanna, l’Iran è più vicino o più lontano dall’atomica?
Gli Stati Uniti ritengono che l’Iran sia più lontano dall’atomica. Se ora il «break-out time», il tempo per raggiungerla, è stimato in 2-3 mesi grazie alle intese diventa di 12 mesi. E le intese resteranno in vigore per 10 anni, con successivi 5 anni di obblighi per Teheran. Usa e Ue ritengono di aver bloccato la corsa dell’Iran all’atomica soprattutto perché l’impianto al plutonio di Arak viene bloccato, il carburante usato spostato all’estero e l’arricchimento dell’uranio limitato a 5060 centrifughe modello IR-1, della prima generazione, nell’impianto di Natanz. Ma a tal fine saranno di vitale importanza le verifiche dell’Agenzia atomica Onu, i cui ispettori per i prossimi 15 anni dovranno certificare il rispetto degli impegni sottoscritti.

Chi vince e chi perde nel negoziato fra l’Iran e il Gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania)?
Vincono Obama e Rohani, i leader che più hanno voluto l’accordo. Il presidente Usa perché convinto che il dialogo con i nemici rafforza la leadership americana nel mondo e, in questo caso, disinnesca la minaccia atomica di Teheran. Il presidente iraniano perché vede riconosciuto il diritto all’arricchimento dell’uranio e ha la possibilità di far ripartire l’economia e gli investimenti grazie alla progressiva riduzione delle sanzioni. Perdono Israele, Arabia Saudita, Egitto e gli altri Paesi sunniti protagonisti di forti pressioni su Usa e Ue per evitare un’intesa che ritengono pericolosa per la propria sicurezza nazionale. Anche la Russia esce indebolita perché il dialogo fra Usa e Iran che ora inizia consegna nuove opzioni a Obama, riducendo gli spazi per Mosca».

lunedì 26 gennaio 2015

L'Europa (Forse) Sta Cambiando - Rassegna Stampa

Per carattere e per scetticismo innato nelle possibilità della politica, andrei cauto ad entusiasmarmi per la vittoria di Syriza in Grecia, e forse anche per il QE di Draghi; sicuramente sono segnali molto positivi ma tutt'altro che risolutivi. Ritorno alla politica contro la tecnocrazia? difficile crederlo possibile; il braccio della politica in Grecia si è rafforzato, ma per il momento di sole parole e consenso; la tensione con le autorità che devono sorvegliare il debito greco non si risolve né con i comizi né con i voti. E la torsione "di sinistra" di Syriza può sempre rischiare di alimentare prospettive ben più reazionarie (si veda il discreto successo di Alba dorata).

Comunque è stato importantissimo che si siano rese più "visibili" le sofferenze dei cittadini greci, e quindi la necessità urgente di riformulare il percorso di uscita dalla crisi. Se i politici - greci, ma anche nostri per quel che ci riguarda - eviteranno di farsi illusioni, si potrà fare un percorso utile e positivo per tutti. 

Le rivoluzioni annunciate sovente falliscono: meglio calibrare con attenzione obiettivi e reale potere; e forse sarebbe meglio cominciare a costruire una politica europea degna di questo nome. Di seguito alcuni articoli per approfondire la situazione in Grecia e cosa aspettarsi dalle manovre dello Zar Draghi.

Francesco Maria Mariotti

ps: prima di tutto, però, un articolo sul Presidente che verrà...
Vorremmo, poi, un Presidente che sappia servire in maniera privilegiata i più deboli: se è vero, come sostenevano don Loreno Milani e la sua Scuola di Barbiana, che “non c'è niente di più ingiusto che trattare i diseguali da eguali”, il Capo dello Stato dovrà essere attento alle disuguaglianze, vigile nel segnalarle, di stimolo nel superarle, perché cresca la distribuzione dei beni e dei servizi a vantaggio di tutti, e nessuno sia escluso dai diritti di cui da cittadino della Repubblica deve poter godere, da quello alla vita, alla casa e al lavoro, al diritto alla salute, allo studio e alla partecipazione alla vita politica e sociale del Paese.
di Bruno Forte - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/4ejE7Y

***
GRECIA

Eppure, Tsipras non ha mai ricordato che senza l’Ue non sarebbe stato possibile ottenere oltre 240 miliardi di euro. Non ha mai ricordato che senza il supporto della Bce le banche elleniche sarebbero collassate sotto il peso della pressione dei mercati finanziari nella fase più severa della crisi. Ma soprattutto, non ha mai ricordati ai suoi elettori che rinegoziare i patti, o memorandum of understanding, sottoscritti con la troika significa uscire de facto dall’eurozona. Il motivo è semplice. Dato che ogni erogazione finanziaria deve essere il frutto di un patto fra il Paese e il prestatore, se essi vengono meno chi potrà mai finanziare, ai prezzi attuali, la Grecia sui mercati obbligazionari? Nessuno. Perché il concetto di premio per il rischio, quando si parla di bond governativi, è ben ricordato dagli investitori internazionali. Più un Paese è incerto, incapace di avere una prospettiva di lungo periodo e poco credibile, più dovrà pagare per collocare i propri bond. Ed è indubbio che sul mercato obbligazionario il cappello di protezione della troika ha giovato alla Grecia, dato che i rendimenti dei suoi titoli di Stato si sono ridotti in modo significativo dall’inizio della crisi a oggi. Tsipras però questo non lo rammenta di proposito. Quello che è certo è che se ne renderà conto in fretta. Più cresce l’incertezza legata al destino del Paese, più i mercati saranno sotto stress. E l’unica rete di protezione talmente forte da contrastare queste spinte è l’area euro. Ecco perché Tsipras dovrà negoziare con la troika, dopo averla attaccata a lungo. Potranno esserci delle concessioni, ma il pacchetto di misure strutturali da introdurre non muterà.

Alexis Tsipras non cambierà l’Europa. E nemmeno la Grecia. Ne sono convinti tanto i mercati finanziari quanto i policymaker europei. Nonostante gli annunci choc e gli attacchi diretti alle politiche comunitarie, Syriza non potrà far marcia indietro rispetto a quanto sottoscritto dal Paese con la troika composta da Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Commissione Ue. Perché se così accade, Atene corre il rischio di ritornare al centro della crisi dell’eurozona. Senza le protezione europee, però.

Quei due milioni, così, non solo agitano lo spettro - a Berlino e in parte anche a Bruxelles - di un nuovo governo che getti a mare le imposizioni della troika e le politiche di austerità dettate, ma vengono già accolti dalla sinistra radicale in tutta Europa come il segno - anzi l’annuncio salvifico - di un cambiamento possibile. E del resto se un messaggio arriva dalla Grecia è quello che di troppa austerità si muore; o almeno muore politicamente chi governa, schiacciato ad esempio dal peso dei 300 mila cittadini che su una popolazione di 11 milioni di persone non possono più permettersi l’energia elettrica.
Germania in arrocco e Grecia in attacco, dunque. E il resto dell’Europa?​

È stato detto che la Grecia è troppo piccola perché la sua uscita dall’eurozona abbia effetti irreparabili sulle sorti dell’euro e dell’Unione Europea. Sarebbe forse vero se l’economia fosse soltanto cifre e la politica un teorema basato su fattori esclusivamente quantitativi. Ma la Grecia è anche altre cose che la buona politica non può ignorare. È una parte essenziale della nostra storia, della nostra cultura e di quella che, con parola abusata ma particolarmente adatta in questo caso, viene definita identità. Se l’Ue vuole essere molto più di una semplice alleanza, non è realistico pensare che i grandi Paesi, dagli Stati Uniti alla Cina, reagirebbero distrattamente all’abbandono di Atene. Penserebbero che l’Europa di Bruxelles e Strasburgo è soltanto una costruzione utilitaria e contingente, priva di qualsiasi motivazione ideale, pronta a sbarazzarsi del più vecchio dei suoi passeggeri se la barca s’imbatte in una tempesta. E da questa constatazione trarrebbero inevitabilmente conclusioni negative sull’autorità e sull’affidabilità del progetto europeo. 



Chi è Alexis Tsipras
Tsipras è nato ad Atene il 28 luglio del 1974, quattro giorni dopo la caduta della dittatura dei Colonnelli: ha una compagna, due figli, vive in periferia e si è laureato nel 2000 in ingegneria all’Università di Atene (il padre era un imprenditore edile vicino al Pasok). Tsipras ha iniziato a fare politica alla fine degli anni Ottanta con il movimento dei Giovani comunisti greci, durante l’università era diventato membro del sindacato degli studenti (riuscendo a vincere contro il governo la battaglia per il ritiro di una controversa riforma scolastica) e, dopo essersi allontanato dal partito comunista, nel 1999 era stato eletto segretario dell’area giovanile del partito della sinistra radicale, Synaspismós.


Un’ultima nota, per tornare da Atene a Roma. La vittoria di Syriza deve servire per costruire un’Europa più plurale, aperta, fondata sul lavoro che genera crescita e su una solidarietà fra popoli che fa di essi un solo popolo federato. Non può, non deve servire, a giustificare la mancanza d’impegno nel rendere sostenibile la finanza pubblica nazionale e nel mettere ordine in situazioni contabili, politiche e di distribuzione delle risorse grandemente sbilanciati e nel medio periodo non più sostenibili. Dobbiamo, insomma, negoziare con i tedeschi per un’Europa più equilibrata come se non ci fossero debolezze errori e lacune nazionali; ma al contempo dobbiamo combattere i disordini, la spesa pubblica inutile e le troppe tasse su chi lavora e produce che servono per mantenerla, le clientele e le corruzioni di casa nostra, come se non fosse l’Europa a chiedercelo, ma la premura per il nostro futuro. Che è poi la verità: ad Atene, come a Roma.

BCE 

Quello della Bce sarà un Qe differente da quelli osservati finora. Prima di tutto, come ha spiegato Goldman Sachs, per via del contesto. “Il Qe della Bce è diverso e non solo a causa della mancanza di unità dell’area euro. Tassi nominali e rendimenti a termine sono già molto più bassi rispetto agli Stati Uniti prima dei suoi programmi di Qe”, spiegano gli analisti della banca americana. Inoltre, “i tassi reali sono molto più bassi che in Giappone prima che iniziasse il passaggio al Qqe (Qualitative quantitative easing, ndr)”. Infine, continua Goldman Sachs, “la Bce si trova ad agire in un contesto con aspettative di mercato sull’inflazione decisamente diminuite in tutto il mondo e rafforzate dal calo del prezzo del petrolio”. Sotto un profilo operativo, conclude Goldman Sachs, il Qe nella versione di Draghi “può fornire un maggiore supporto se è in grado, da un lato, di restringere gli spread del credito sovrano nei Paesi periferici e, dall’altro, di convincere il mercato ad aumentare le aspettative di inflazione più a lungo termine”. Traduzione: deve convincere gli investitori sull’inversione di rotta nella zona euro e sul ripristino del corretto meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Un compito non facile.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Com'è accaduto negli altri Paesi, questa forte iniezione di liquidità indurrà le banche a rivedere la composizione del loro attivo e i capitali privati a spostarsi su investimenti più rischiosi, principalmente azioni e obbligazioni ad alto rischio. In assenza di sorprese dalla Grecia, quindi, la reazione positiva dei mercati azionari dovrebbe continuare, così come la discesa del tasso di cambio. Ciò fa parte degli effetti voluti, e del meccanismo con cui il Qe si trasmette all'economia reale.
di Guido Tabellini - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/tI7Amq

Ma c'è un contesto storico di più ampio respito. Nel lungo percorso verso l'unificazione europea, l'azione di Draghi rappresenta una svolta equiparabile a quella di Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti che elaborò le fondamenta economiche del paese con la sua “triologia” scritta fra il 1790 a il 1793: a) sulla necessità di creare una Banca Centrale (che venne però oltre un secolo dopo); b) sul consolidamento del debito pubblico (dopo i forti indebitamenti per la guerra di Indipendenza dagli inglesi); e c) sulle manifatture, sull'importanza di “proteggerle per rafforzarle”. C'era anche un quarto rapporto, minore, una zecca autonoma.
di Mario Platero - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Cp8Q8R

L’acquisto da parte della Bce e delle Banche centrali nazionali di titoli di istituzioni europee (Esm ed Eib) e di titoli di stato limitatamente al 20% del totale con solidarietà nel rischio condivisa è stato visto dai più come un vulnus all’unità del Sistema europeo di Banche centrali. Potrebbe però essere letto anche come una premessa per il varo di quegli eurobond senza i quali l’Eurozona non potrà mai fare una politica fiscale, di bilancio e di investimenti (pubblici) che è essenziale per l’integrazione sia politica che dell’economia reale.
di Alberto Quadrio Curzio - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8Sw4t3

Tutto ciò premesso, ci sono altri effetti collaterali del QE della Bce da analizzare. Il primo è quello tradizionale di operazioni di questo tipo: quando una banca centrale compra debito pubblico domestico, su di esso incassa le cedole. Che accade a queste cedole? Che vanno a contribuire all’utile della banca centrale, che viene poi girato secondo statuto al Tesoro nazionale. Il fatto che la Bce abbia precisato, giovedì pomeriggio, che le cedole non potranno essere corrisposte immediatamente al Tesoro, non cambia la sostanza delle cose. Quell’utile di Banca d’Italia finirà sotto forma di “dividendo” al Tesoro, mediato assieme alle altre determinanti dell’utile della banca centrale. Salvare la forma per offuscare la sostanza. E qui, la considerazione sorge spontanea: confidiamo che la Banca d’Italia non andrà a beneficiare con questo utile da QE anche le banche private sue azioniste: sarebbe un assoluto non senso, oltre che una presa in giro.

Altra perla politica di Draghi è l’aver minimizzato i rischi della ridotta mutualizzazione dell’operazione affermando che, se mai vi fossero default, le singole banche centrali nazionali hanno comunque cuscinetti di capitale più che sufficienti per assorbire le perdite sui titoli di stato da esse acquistati. Ma un programma ben costruito non è necessariamente un programma efficace. Le forze deflazionistiche continuano a soffiare forte; il QE arriva comunque molto tardi; la crescita globale, con l’eccezione (sinora) degli Usa è in rallentamento; il sistema finanziario dell’Eurozona resta fortemente bancocentrico, e ciò attenua l’efficacia delle misure.

domenica 31 agosto 2014

Il "miracolo" polacco

«Coniugare disciplina di bilancio e crescita è una sfida possibile, in Polonia lo abbiamo fatto, non c'è contraddizione, e cercheremo di raggiungere questo obiettivo anche in Europa. Avrò un atteggiamento audace e responsabile».
(Donald Tusk)


***

(30 novembre 2013) 

In un paese dove non c’è niente è difficile costruire cose inutili, quindi ogni soldo speso dal governo per costruire strade, ponti o aeroporti finiva per essere utile e ben speso. E di soldi in Polonia ne arrivarono molti, soprattutto da quando, nel 2004, entrò a far parte dell’Unione Europea. Nel 2007-2013 la Polonia è stata il più grande beneficiario di fondi europei e ha ricevuto circa 100 miliardi di euro.

Nel 2012 ha ospitato, insieme all’Ucraina, i campionati europei di calcio, ricevendo un’altra iniezione di denaro. In questi anni, scrive Bloomberg Businessweek, tutto è stato ricostruito e migliorato: strade, porti, aeroporti, ferrovie e stazioni. Il contrasto con l’epoca del comunismo è molto forte: «È difficile ricordare come andavano le cose una volta se guardiamo a come vanno oggi», ha detto un gestore di fondi di investimento polacco intervistato dal settimanale.
La legislazione che tutela il lavoro è estremamente flessibile, tanto che da quando è entrata in Europa la Polonia è stata più volte minacciata di sanzioni per non rispettare la normativa europea sulla tutela dei precari. In ogni caso, il tasso di occupazione – cioè la percentuale della popolazione in età lavorativa che ha un lavoro – è continuato ad aumentare negli ultimi 10 anni: dal 51 per cento del 2003 all’attuale 60 per cento (cinque punti percentuali in più di quello italiano). Il tasso di disoccupazione, dal record del 2003 quando raggiunse il 20 per cento, è sceso fino al 7 per cento del 2008. L’anno successivo cominciò la crisi finanziaria che, nonostante tutto, si è sentita anche in Polonia.
(21/01/2014)
Nel 1988 è stata emanata la prima legge sulla libertà economica, l’anno successivo si sono tenute le prime libere elezioni dopo la seconda guerra mondiale e nel 1990 ha preso avvio un processo di riforme radicali che avrebbe portato alla formazione di moderne strutture di economia di mercato. Grazie a queste trasformazioni l’economia polacca ha iniziato a recuperare terreno rispetto ai paesi occidentali, almeno per quanto riguarda il reddito pro capite. E lo ha fatto a un ritmo mai visto prima nella storia. Alcuni economisti ritengono, con pessimismo, che questa fase di successo economico stia pian piano volgendo al termine poiché il fervore riformista è scemato, gli stimoli connessi all’entrata della Polonia nell’Ue si stanno indebolendo e lo sviluppo economico registrato sinora si fondava in larga misura sul ricorso al debito estero. Il noto editorialista Krzysztof Rybiński, ex vicepresidente della Banca nazionale polacca, dichiara che la Polonia sta andando incontro a un «decennio sprecato». Queste opinioni, però, sono in netta minoranza. Sicuramente la Polonia affronterà degli anni difficili perché dal punto di vista finanziario e commerciale è strettamente legata all’Eurozona, la quale si trova nel bel mezzo di complesse trasformazioni strutturali che incidono sulla sua crescita economica.

Ma i successi degli ultimi vent’anni non sembrano sul punto di svanire: la Polonia dovrebbe infatti continuare a recuperare terreno rispetto all’Occidente (...)

lunedì 25 agosto 2014

Mario Draghi e l'Europa irriformabile (da Linkiesta.it)

(...) Nessuno dei quattro grandi paesi che adottano l’euro è davvero a posto, nessuno può alzare il ditino o indossare l’aureola del santo. Ma chi è in grado di convincerli a seguire la retta via? È questo il dilemma che Draghi ha posto indirettamente, ma con chiarezza. E si è scontrato contro un muro, perché nessuno oggi ha il potere di farlo, certo non la Ue che è ridotta sempre più a un club di nazioni chiassose e litigiose, ma nemmeno la Bce che pure è l’unica istituzione federale dotata di veri strumenti d’intervento. I cambiamenti principali finora sono stati compiuti sotto la pressione degli eventi, davanti a rischi drammatici come la crisi bancaria del 2008, il crack della Grecia nel 2010 o il collasso dell’euro nel 2012. E sono comunque rimasti cambiamenti a metà, accettati di mal grado dalla Germania che pure vanta il proprio europeismo federalista.

Draghi ha chiesto un’ulteriore cessione di sovranità e vuole un patto per le riforme da accompagnare al patto fiscale. Se si vuole dare all’euro una intelaiatura più solida è un passaggio inevitabile. Ma oggi non c’è consenso né tra i paesi del sud né in quelli del nord Europa. Dunque, la politica economica europea è in un cul de sac. La Bce alla fine sarà costretta a fare come la Fed se arriverà davvero una nuova tempesta finanziaria. Ma senza dietro un paracadute politico, nessuno può garantire che sia davvero efficace. Draghi lo sa e lo ha detto. Anche la sua diventerà una predica inutile?

Il rischio è ancor più forte se si passa alla riforma delle riforme, quella del sistema finanziario dove è cominciato il grande crack. Qui i passi sono stati ben più timidi di quelli compiuti dalle politiche fiscali dei governi. I grandi protagonisti, le megabanche, i supermarket della moneta, i fondi di investimento, hanno continuato ad assumere rischi come se nulla fosse e poco è cambiato del loro comportamento. Sono migliorati gli strumenti di controllo, anche se non a sufficienza, ma sono sempre interventi ex post, nulla che possa in alcun modo prevenire lo scoppio a catena di nuove bolle e una crisi sistemica. (...)

sabato 24 maggio 2014

TTIP: Deregulation Selvaggia O Possibilità Di Progresso?

Se ne discute molto, ma senza continuità, e come al solito si rischia di semplificare molto il discorso, e di ridurre la cosa a un sì/no troppo generali. 

Sto parlando del TTIP, dell'accordo di libero scambio che si sta discutendo fra Stati Uniti e Unione europea. In gioco non sono tanto le tariffe doganali, ma una più ampia armonizzazione della regolamentazione del mercato, che significherebbe di fatto creare un'area unitaria fra Usa e Europa.

Tutto questo crea timori, credo in parte giustificati, in parte no; molto comprensibili, comunque, soprattutto dopo alcune vicende (Datagate), che hanno fatto percepire una eccessiva spregiudicatezza degli Stati Uniti rispetto all'osservanza di limiti e leggi nei confronti degli alleati europei. L'idea di "armonizzare" le norme rischia di sembrare un "abbattere" le norme, e i dubbi non vanno sottovalutati. 

Proprio i fautori dell'accordo dovrebbero per primi comprendere che è essenziale "accompagnare" questo cambiamento con un consenso che deve essere diffuso, razionale, confortato da conoscenza dell'argomento.
Dobbiamo andare più in profondità e trasparenza sugli accordi che si stanno perfezionando. 

Il TTIP è una grande opportunità, e il libero scambio non è un arrendersi alle multinazionali; ma perché questa paura non diventi prevalente, e perché questi accordi funzionino veramente da volano di progresso, la politica non deve scomparire, ma integrare, accompagnare, gestire dove è possibile. 

Difendere quel che è giusto difendere (per esempio il nostro approccio al problema privacy), ma saper accompgnare l'apertura quando necessaria.

Di seguito qualche articolo (purtroppo quasi tutti non recentissimi) per tentare di capire meglio. (Ringrazio Alessandro Zunino per la segnalazione dell'articolo di Libération)

Francesco Maria Mariotti

(...) Il cuore del trattato è l’armonizzazione normativa e regolamentare, che potrebbe diventare un possibile modello per altri futuri accordi commerciali.

Una ricerca indipendente (seppure finanziata dalla Commissione europea) parla di benefici pari a quasi 200 miliardi di euro. In realtà, considerato che l’impatto economico, soprattutto in Europa, è difficilmente valutabile, ad oggi l’unica certezza è che gli Stati Uniti e l’Unione Europea diventerebbero un solo grande mercato. Tutti gli aspetti relativi a regolamentazione e supply chain verrebbero unificati, con vantaggi immediati per le aziende capaci di sfruttare efficacemente le neonate economie di scala – a cominciare dalle grandi multinazionali, che infatti sono tra i maggiori sostenitori dell’accordo.

Gli ostacoli negoziali da superare sono enormi e non tutti di carattere economico: il clima di sfiducia reciproca causato dal datagate ne è un ottimo esempio. Le conseguenze dello scandalo sembrano aver intaccato profondamente i rapporti di fiducia tra UE e Stati Uniti, e hanno già rallentato il passo dei negoziati nella fase iniziale.

Alla diffidenza da parte delle élites politiche europee nei confronti degli Stati Uniti si somma lo scarso sostegno – o perfino la crescente opposizione – di un’opinione pubblica confusa da un accordo i cui contorni non sono ancora ben definiti. Ad oggi, tre sono i nodi più complicati nell’ambito delle trattative: la clausola relativa alla protezione degli investimenti, la protezione dei dati personali dei cittadini europei, e la commercializzazione di prodotti agricoli e i relativi standard di sicurezza alimentare (che si riflettono sull'infinita diatriba sugli OGM e la carne americana).

La clausola di protezione degli investimenti (investor-state dispute settlement, ISDS), permetterà agli investitori privati di citare in giudizio i governi nazionali presso una corte d’arbitrato, nel caso in cui gli investitori ritengano che nuove leggi locali minaccino i loro investimenti. Una clausola controversa che ad oggi ha scatenato proteste su entrambe le sponde dell’oceano, sia da parte della società civile che di molti governi europei. A livello politico, il maggiore oppositore è il governo tedesco, il quale ritiene il ricorso a corti esterne (di fatto aggirando le giurisdizioni nazionali) un attacco inaccettabile alla sua sovranità.(...)


(...) Le obiezioni alla TTIP che provengono dalla Francia possono raggrupparsi in tre grandi categorie. Per cominciare – ed è una critica mossa anche da giornali liberali e vicini al mondo imprenditoriale come Les Echos – si dubita fortemente che l'accordo porti i benefici promessi dalla Commissione europea. Secondo questa visione, una volta messa in opera la Partnership, effettivamente il volume di scambi transatlantico potrebbe aumentare; ma in assenza di una robusta crescita del reddito e dunque della domanda individuale, ciò avverrebbe a discapito di flussi commerciali già esistenti.

In particolare, considerando che la Cina è attualmente tra i principali partner economici di tutti i paesi europei, il vero risultato dell'accordo tra Bruxelles e Washington sarebbe quello di alzare una barriera commerciale nei confronti di Pechino – grazie al nuovo quadro normativo comune, al quale le merci cinesi si adatterebbero con maggiore difficoltà. Non è un segreto che, parallelamente a questi negoziati, sia Stati Uniti che Unione Europea siano impegnati nella stipula di ulteriori accordi commerciali con paesi terzi, tutti accomunati dalla stessa caratteristica: abbandonano la prospettiva del consenso multilaterale a livello globale in favore di quella bilaterale (o “multi-bilaterale”), con l'obiettivo primario di escludere la Cina.

La seconda obiezione riflette ormai una sorta di condivisione di alcune delle critiche francesi da parte di altri paesi europei: si tratta degli strascichi del caso datagate, cioè la scoperta dello spionaggio sistematico condotto da parte dell'Agenzia nazionale per la sicurezza americana (NSA) con la collaborazione di alcune imprese di alta tecnologia, ai danni del mondo politico e industriale europeo. A seguito dello scandalo, molti paesi tra cui la Germania hanno completamente modificato il loro atteggiamento nei confronti del processo negoziale: questo di fatto è ora bloccato a un livello superficiale, senza che i temi più importanti vengano davvero toccati. Ancora a inizio febbraio, la ministra francese del Commercio estero Nicole Bricq, in occasione della visita di Hollande negli USA, era costretta a promettere alla sua controparte che si sarebbe cominciato "presto" a fare sul serio.

Ecco perché per molti analisti francesi in realtà la TTIP è "nata morta". Inoltre, si fa notare come la segretezza dei negoziati abbia sollevato forti perplessità anche nell'opinione pubblica americana, e che il Congresso abbia negato al presidente Barack Obama una "corsia preferenziale" che avrebbe permesso un'approvazione più rapida. Quindi, sapendo che ormai è impossibile rispettare la scadenza di fine 2014, si considera probabile anche uno sforamento della scadenza di fine 2015: un ritardo, questo, che sarebbe decisivo – con esiti imprevedibili – in quanto coinciderebbe anche con la fine dell'attuale amministrazione Obama.

Infine, un elemento ha contribuito più di altri a suscitare la contrarietà dell'opinione pubblica, dei sindacati e delle associazioni non governative – nonché di molti governi: la previsione di un tribunale arbitrale a cui le imprese potrebbero ricorrere qualora ritenessero che gli Stati non rispettino i principi del libero scambio contenuti nell'accordo. Secondo questo punto di vista, un tale organo di giustizia consegnerebbe nelle mani delle multinazionali le chiavi della legislazione europea sul lavoro e l'industria, ed esporrebbe gli Stati al rischio di dover versare enormi risarcimenti.(...)


Depuis lundi, à Arlington, en Virginie, en face de Washington, les négociateurs européens, emmenés par Ignacio Garcia Bercero, et américains, dirigés par Dan Mullaney, se retrouvent pour une nouvelle semaine de pourparlers. C’est la cinquième fois que les deux délégations se réunissent depuis l’ouverture, en juillet 2013, des négociations du Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) ou Partenariat Transatlantique pour le Commerce et l’Investissement (PTCI) qui vise à créer un marché commun euro-américains où les biens, les services et les capitaux circuleront sans entrave.
Cet accord de libre-échange dit de « nouvelle génération », voulu par la Commission européenne et son président, José Manuel Durao Barroso, mais aussi par les vingt-huit États membres, est de plus en plus contesté par la société civile européenne, mais aussi par une partie de la classe politique. Ainsi, la levée de boucliers en Allemagne contre l’instauration d’un tribunal arbitral - qui permettra aux entreprises de poursuivre les États si elles estiment que le TTIP n’est pas respecté (lire l'excellent article de Chritian Losson) - a contraint l’exécutif européen à suspendre, le 21 janvier, les discussions sur ce point, le temps de mener une « consultation publique » qui lui permettra de prendre la température des opposants. Elles ne reprendront qu’en juin, au lendemain des élections européennes du 25 mai…

(...)These companies (along with hundreds of others) are using the investor-state dispute rules embedded in trade treaties signed by the countries they are suing. The rules are enforced by panels which have none of the safeguards we expect in our own courts. The hearings are held in secret. The judges are corporate lawyers, many of whom work for companies of the kind whose cases they hear. Citizens and communities affected by their decisions have no legal standing. There is no right of appeal on the merits of the case. Yet they can overthrow the sovereignty of parliaments and the rulings of supreme courts.
You don't believe it? Here's what one of the judges on these tribunals says about his work. "When I wake up at night and think about arbitration, it never ceases to amaze me that sovereign states have agreed to investment arbitration at all ... Three private individuals are entrusted with the power to review, without any restriction or appeal procedure, all actions of the government, all decisions of the courts, and all laws and regulations emanating from parliament."
There are no corresponding rights for citizens. We can't use these tribunals to demand better protections from corporate greed. As theDemocracy Centre says, this is "a privatised justice system for global corporations".(...)

(...) I have never had Monbiot down as an ungenerous character, but to ignore all of this in favour of blowing up a controversy around one small part of the negotiations, known as investor protection, seems to me positively Scrooge-like. Investor protection is a standard part of free-trade agreements – it was designed to support businesses investing in countries where the rule of law is unpredictable, to say the least. Clearly the US falls in a somewhat different category and those clauses will need to be negotiated carefully to avoid any pitfalls – but to dismiss the whole deal because of one comparatively minor element of it would be lunacy.
This talk of shadowy corporations is all the more misleading given that, in my view, the deal's advantages will prove to be far more noticeable for smaller enterprises than for larger corporations. This is because the most important task for the regulators will be to establish that where a car part or a cake or a beauty product has been tested as safe in the EU, the US will allow its import without requiring a whole new series of similar-but-slightly different tests – and vice versa. This is not about reducing safety levels. It is simply common sense. Would any of us on holiday in the US decline to hire that all-American SUV, or say no to that unfeasibly enormous vat of fizzy pop on the grounds that the regulations "are not the same as the EU's"?
And while it is of course true to say that these changes will help big business, it is also true to say that big business often has a vested interest in overly complex regulation. They can afford armies of staff to satisfy reams of regulation, but their smaller rivals cannot and so are squeezed out. So while leftwing radicals can attempt to skew the facts, it's my view that the TTIP is much more a deal for the small widget maker from the West Midlands than it is for the multinational corporate giant.(...)