"(...) Gli scenari, quindi, sono due. O una recrudescenza delle ostilità, con un incremento consistente di attacchi dell’LNA a sud di Tripoli; oppure una situazione “congelata”, come si sta verificando da alcuni giorni, in cui le truppe di Haftar e quelle di Sarraj si combattono moderatamente. Qualche segnale su cosa accadrebbe, peraltro, arriva dalle forze di Bengasi. Un portavoce del contingente ha fatto sapere che è stata completata circa il 70% della fase due dell’operazione e che adesso si sta lavorando per “raccogliere informazioni”. Tradotto, gli assetti sono fermi fino a nuovo ordine. Con il Generale, però, non si può mai sapere. L’uomo forte della Cirenaica, infatti, adora i coup de theatre. Perciò, non si può escludere nemmeno un’improvvisa accelerazione delle manovre a sorpresa."
"Una simile pace dovrebbe permettere a tutti gli uomini di navigare senza impedimenti oceani e mari." (Carta Atlantica, 14 agosto 1941)
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sabato 18 maggio 2019
mercoledì 16 marzo 2016
Dalla guerra all'Isis alle fusioni delle Borse (Francoforte e Londra), passando per il voto tedesco
Segnalo alcuni articoli che possono essere utili per riflettere sul presente e sul futuro. Verrebbe da dire che la notizia più importante è forse l'ultima (anche se rischia si passare un po' inosservata), quasi in controtendenza rispetto alla possibile "Brexit".
Buona lettura
Francesco Maria
***
Stiamo battendo l'ISIS?
A quasi due anni dalla sua proclamazione il Califfato in Siria e Iraq sembra finalmente costretto al declino e, anche se non è ancora possibile prevedere quando, alla sconfitta. Dopo aver retto per mesi all'offensiva congiunta della coalizione guidata dagli Usa, dell’esercito iracheno e delle milizie sciite, dei curdi siriani e iracheni, dell’esercito lealista di Assad (supportato da corpi scelti iraniani e dall’Hezbollah libanese) e della Russia, lo Stato islamico sembra ora avviato verso un inarrestabile sfaldamento.
I territori sotto il suo controllo - già mutilati l’anno scorso dall'avanzata dei curdi siriani nel nord del Paese, dei curdi iracheni nell'area circostante Mosul e dell’esercito iracheno a Ramadi, Tikrit e nelle aree limitrofe (v. cartina 1) – sono ora insediati da offensive, cunei e teste di ponte nemiche in quasi tutti i settori strategicamente più importanti.(...)
***
Inizia la spartizione della Siria?
Le autorità curde del Rojava, il Kurdistan siriano, hanno annunciato il passaggio a “entità federale” della nuova Siria dei tre cantoni sotto il loro controllo. Il passaggio avverrà su decisione di una assemblea che riunirà le diverse rappresentanze politiche ed etniche della regione, in particolare curdi e arabi. La nascita della prima entità federale può essere il preludio di una nuova Siria, divisa fra curdi, alawiti e sunniti. (...)
***
Intervista a Mario Monti su voto tedesco e Europa
(...) Sta dicendo che il solco fra Europa del Nord e del Sud si potrebbe allargare ancora, è così?
«Le faccio un esempio: la posizione dell’Austria sull' immigrazione è pericolosissima, e per fortuna è avversata da Germania e Italia insieme. Ma di fronte a evoluzioni pericolose, come un ulteriore rafforzamento dell’AfD, nell'Europa centro- settentrionale si potrebbe far largo l’idea di considerare l’Europa del Sud come una “quasi Europa” più che come parte integrante dell’Europa vera. Dobbiamo essere attenti a restare in ogni istante, con le parole e con i fatti, in una posizione di leadership credibile e rispettata. A non dare il minimo alibi a chi ha pregiudizi verso di noi».
Lei preferirebbe un asse Italia-Germania piuttosto che Italia-Francia. Non è così?
«Non sono mai stato un sostenitore degli assi a 360 gradi. L’Italia, che dalla primavera 2013 è l’unico Paese dell’Europa del Sud (inclusa la Francia) a non essere sotto procedura per deficit eccessivo, ha tutto l’interesse a stare al fianco della Germania nell'esortare la Francia a una maggior disciplina di bilancio e alle riforme. Allo stesso tempo deve spingere la Germania ad avere una visione più ampia della sua politica economica, riducendo l’enorme surplus commerciale».
***
La nuova destra tedesca
(...) Eppure, secondo l'AfD i migranti in arrivo sarebbero troppi per quelle che sono le capacità tedesche di medio-lungo termine, sia in termini finanziari, sia in termini di tenuta sociale: da un lato l'accoglienza costa e rischia di determinare un ridimensionamento del welfare state per i cittadini tedeschi, dall'altro la sospensione temporanea del sistema di Dublino impedisce un'identificazione dei migranti al di fuori dal territorio tedesco.
Questi messaggi, semplici ed efficaci, non sono condivisi da minoranze violente e ai margini della società. L'elettorato dell'AfD non corrisponde a quello del partito nazionaldemocratico (NPD). Se così fosse, i numeri dell'Alternative sarebbero probabilmente molto più contenuti. Al contrario, come dimostrano i dati sui flussi diramati dalla tv pubblica tedesca, l'AfD è un partito populista che ha tutte le carte in regola per diventare popolare. A sostenerla ci sono tedeschi di estrazione borghese e liberale, ex elettori di CDU/CSU ed FDP, ma anche cittadini che, ad Est, hanno sempre votato a sinistra. Si tratta in buona sostanza di conservatori che temono quello che l'ex-Presidente del Senato, Marcello Pera, ideatore nel 2006 del manifesto “Per l'Occidente”, avrebbe chiamato il “meticciato culturale” prodotto dall'immigrazione, in particolar modo di matrice musulmana.
In questo senso, l'AfD è l'ennesimo prodotto della German Angst, la paura tedesca per l'ignoto e per ciò che non può essere adeguatamente programmato o controllato. Ma l'AfD è anche l'unico partito in grado di intercettare un diffuso malcontento, quello che in Germania si usa chiamare Politikverdrossenheit, nei confronti dell'establishment, in particolar modo verso la classe politica dei due grandi partiti popolari al governo, sentimento niente affatto circoscritto alla realtà italiana, bensì comune a tutto il mondo occidentale. In Renania-Palatinato il 62%, e in Sassonia-Anhalt il 64% degli elettori dell'AfD hanno scelto l'Alternative non per convinzione, ma per delusione nei confronti dei partiti tradizionali, in Baden-Württemberg addirittura il 70%. Fino al 2012-2013 erano i Piraten la forza chiamata a colmare parzialmente questo vuoto (...)
***
Accordo fra la Borsa di Francoforte e la Borsa di Londra
È cosa fatta l’accordo fra la Borsa di Francoforte e la Borsa di Londra per una fusione quasi alla pari. Gli attuali azionisti del London Stock Exchange, riporta Bloomberg, avranno circa il 45,6% del nuovo gruppo mentre quelli di Deutsche Borse circa il 54,4%. Borsa Italiana rientra o nell'operazione in quanto parte del gruppo Lseg. La nuova società manterrà le sue sedi a Londra e Francoforte. I due soggetti rimarranno soggetti alle imposte dei rispettivi Paesi di costituzione. Le sinergie di costo sono previste in 450 milioni di euro per anno, e saranno completate in tre anni. (...)
domenica 22 novembre 2015
Combattere Ma Non Perdersi
Nota: il blog non è più aggiornato con continuità; riporto di seguito una riflessione condivisa con alcuni amici via mail riguardante i terribili attentati di Parigi del 13 novembre e scritta tre giorni dopo
FMM
Non devi giudicar le cose nel modo secondo il quale le giudica un uomo violento e malvagio o nel modo che costui vorrebbe che tu le giudicassi. Tu devi guardar le cose come sono, secondo verità.
(Marco Aurelio Antonino, Ricordi, Libro Quarto, 11)
***
Di seguito alcuni articoli e spunti di riflessione apparsi in questi giorni (Romano Prodi, Alberto Negri, Mario Monti, Enrico Letta, David Bidussa e altri). Nel richiamarli, aggiungo solo alcune mie brevi considerazioni:
1. Senza nulla togliere alla necessaria solidarietà atlantica ed europea, attenzione a non dimenticare pesi e responsabilità della stessa Francia nella gestione di alcune partite molto delicate. Si leggano le considerazioni di Massimo Nava, che ricorda alcuni errori di Parigi, in particolare dal punto di vista della politica estera (vd. Libia). Se dobbiamo muoverci uniti - e dobbiamo - è necessario che anche la Francia cambi atteggiamento nei confronti di tutti i suoi alleati;
2. Enrico Letta - che in questi giorni è stato una delle voci più nitide che si sono ascoltate - raccomanda l'integrazione della sicurezza a livello europeo. Su questo dobbiamo essere decisi e al tempo stesso molto attenti: abbiamo visto che i passaggi di sovranità sono lunghi e perigliosi; il passaggio all'euro è stato percepito - a torto (secondo me) o a ragione - come generatore di due gruppi di paesi, uno più forte economicamente, l'altro più in difficoltà. Questo tipo di percezione non può assolutamente verificarsi sul discorso sicurezza, per cui i passi devono essere fatti con molta attenzione, e condivisione piena. Sarebbe letale se ci accorgessimo che la condivisione delle procedure di sicurezza può diventare fattore di "vantaggio" di uno Stato rispetto ad un altro. Si possono condividere anche le informazioni più riservate? Forse, ma allora deve esserci attenzione massima in questi passaggi, e assoluta reciprocità;
3. Mario Monti in un bell'articolo segnala le debolezze di un'Europa che ha difficoltà a ragionare sulle necessità legate alle esigenze di sicurezza e scrive: "Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale." Oggi - guardando alle periferie di Parigi, ma anche alle nostre; guardando alla migrazione di masse sempre più ingenti, vien da pensare a un ruolo insostituibile della scuola (pubblica e privata, ma coordinata assieme) nel creare le condizioni di integrazione. Per questo è necessaria una riflessione non improvvisata sui programmi che le scuole pubbliche e private devono seguire; ed è forse il caso di tentare di rilanciare l'educazione civica, anche intesa come "educazione alla laicità", che dovrebbe prevedere momenti di scambio fra scuole, in modo che nessun allievo della Repubblica italiana - e dei futuri Stati Uniti d'Europa - rischi di rimanere legato a un solo tipo di formazione. Ed è altresì necessario pensare al modo di rendere il "panorama sociale" più integrato, il che vuol dire che nella nostra idea di società non può assolutamente mancare un welfare sostenibile e flessibile (quindi capace di esserci quando necessario, ma anche "retrattile" per evitare gli sprechi);
4. Giusto non cadere nella tentazione dello "scontro di civiltà", ma attenzione a non "annacquare" il fattore religioso e culturale, comunque decisivo in questo conflitto: su questo mi sembrano particolarmente importanti i contributi di Claudio Magris (ottimo) e Giovanni Fontana (con quest'ultimo sono meno pienamente in linea, ma la sua mi sembra riflessione importante da condividere).
Francesco Maria Mariotti
***
L'intervento di Romano Prodi a Che tempo che fa del 15 novembre (intorno al minuto 15 fino al minuto 34)
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/ programmi/media/ContentItem- c9737eb0-a843-4341-ba93- 7e172ce5b5d7.html#p=0
Alberto Negri sul Sole24ore
"(...) Serve una coalizione globale, un’alleanza di civiltà, da quella occidentale a quella musulmana, per combattere l’Isis. Siamo chiamati a costituire una coalizione militare e di intelligence questa volta davvero efficace non come quella che dal 2014 a oggi ha colto risultati incerti e invece di rinsaldarsi si è quasi sfaldata lasciando spazio all’intervento in Siria della Russia di Putin, senza il quale peraltro oggi al-Baghdadi farebbe colazione sulle rovine di Damasco. Gli aerei sauditi e degli Emirati non volano più e i loro raid adesso li compiono in Yemen contro i ribelli sciiti Houti; la Turchia, storico membro della Nato, fa ancora assai poco perché gli stessi occidentali le hanno dato via libera per quattro anni, alzando la sbarra della frontiera al passaggio di migliaia di jihadisti, molti europei e francesi, che dovevano sbalzare dal potere Assad e che si sono poi arruolati nell’Isis.
La guerra la devono fare anche i nostri riluttanti alleati mediorientali.
Musulmani che si battono sul campo contro l’Isis ce ne sono: i curdi, i più eroici, osteggiati però dalla Turchia; gli iraniani, alleati di Assad come del resto gli Hezbollah libanesi; gli iracheni, che hanno avviato un’offensiva per spezzare le linee di rifornimento dell’Isis. Questi nostri alleati oggettivi anti-Califfato, che l’Occidente ha boicottato per anni mettendoli sotto sanzioni e in lista nera, hanno due difetti, sono sciiti e alleati del regime di Damasco.
Siamo al punto nodale: per una guerra efficace contro l’Isis bisogna congelare anche la storica ostilità tra sciiti e sunniti. Qualche segnale positivo c’è e proviene dal vertice di Vienna sulla Siria, che per certi versi ha anticipato quello di oggi al G-20 di Antalya.(...)"
http://www.ilsole24ore.com/art /mondo/2015-11-15/la-grande- coalizione-battere-califfato- 081119.shtml?uuid=ACrU2XaB
"(...) Alla vigilia delle elezioni, dopo l’attentato di Ankara con oltre 100 morti, il braccio destro di Tayyp Erdogan, Ahmet Davutoglu, definì il Califfato «ingrato e traditore». Più che una gaffe, questi termini sono apparsi un’ammissione di colpa. Non mancano infatti le prove, se non di amicizia, almeno di compiacenza, della Turchia nei confronti dello Stato islamico. articoli correlati O si fa l’Europa o si muore Russi e americani contro il nemico ormai globale Coordinare intelligence europea e azioni militari Vedi tutti » OAS_RICH('VideoBox_180x150'); Erdogan è uno dei prìncipi dell’ambiguità mediorientale presenti al G-20 di Antalya. La guerra al Califfato è una vicenda in cui la Turchia ha giocato un ruolo essenziale con la complicità delle potenze occidentali e di quelle sunnite che in Siria hanno condotto un conflitto per procura all’Iran sciita. La svolta sono stati i negoziati sul nucleare con Teheran che hanno alimentato ancora di più la preoccupazione delle monarchie del Golfo per l'influenza iraniana. Più si avvicinava un’intesa con l’Iran e maggiori diventavano le offensive dell’Isil. Dopo Mosul, cadevano Ramadi e Falluja. Eppure la guerra della coalizione a guida americana restava inefficace: il 70% dei raid non trovava neppure il bersaglio. Ci si chiedeva come fosse possibile che non si riuscisse a fermare i jihadisti. La realtà è che il Califfato faceva comodo come mezzo di pressione per convincere gli iraniani ad arrivare a un accordo. (...)"
di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/J0GbYV
Mario Monti su ilFoglio
"(...) Beni pubblici e benessere privato. Se l’Unione Europea entra in una fase storica carica di sfide nuove rispetto ai suoi primi settant’anni – sfide legate ai profughi e ai migranti, alla guerra asimmetrica in corso, alla sicurezza interna ed esterna, alla necessità di spendersi seriamente per lo sviluppo sostenibile dell’Africa e del Medio Oriente, anche ad evitare che si scarichino sull’Europa flussi e tensioni insostenibili – ci sono due “confini” che devono essere riconsiderati quello tra beni pubblici e benessere privato e quello tra beni pubblici nazionali e beni pubblici europei.
Soprattutto in alcuni Paesi periferici, come l’Italia, si sta vivendo ora una tardiva onda lunga dell’era reaganiana. Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale. Anziché battersi a fondo perché il funzionamento dello Stato sia più efficiente, più trasparente, meno costoso, ma tuttavia dotato di risorse adeguate per svolgere i suoi compiti essenziali, sembra prevalere una certa rassegnazione. Si mira allora a sostenere il benessere privato, dando priorità alla riduzione delle tasse (“vanno ridotte tutte”, “non verranno mai più aumentate”, “alcune tasse saranno abolite” e “per sempre”) quasi come dovere morale dello Stato verso i cittadini e le imprese. Il loro consenso è assicurato, ma forse così facendo si trascurano interessi essenziali dei singoli Paesi, in un’Europa che deve “armarsi” della capacità di essere sicura, di sconfiggere il terrorismo, di farsi rispettare nel mondo. Inoltre i singoli Paesi, e l’Europa, faranno bene a tornare ad avere una certa attenzione per le disuguaglianze, cresciute a dismisura; e dovranno usare anche i sistemi fiscali per combattere le disuguaglianze eccessive, ancor più se vogliono conservare o accrescere una certa coesione sociale e nazionale dinanzi a un futuro forse caratterizzato da maggiori conflittualità esterne. (...)"
http://www.ilfoglio.it/esteri/ 2015/11/14/la-visione-miope-de lla-europa-che-emerge-dietro- la-strage-di-parigi___1-v- 135014-rubriche_c228.htm
Enrico Letta su laStampa
"(...) Sicurezza integrata
I Paesi europei hanno difeso le loro prerogative nazionali in materia di intelligence, di sicurezza e di difesa. Non hanno voluto rafforzare la dimensione europea in questo campo. E non possiamo certo dire di sentirci più sicuri grazie a questa nazionalizzazione dei sistemi di sicurezza. Come pensare di essere davvero più sicuri senza una reale integrazione dei sistemi di sicurezza preventiva, e come pensare di vincere questa guerra senza una capacità complessiva coordinata a livello europeo di contrastare i fenomeni terroristici? Oggi questa capacità non c’è. I sistemi sono rimasti troppo nazionali, mentre i terroristi usano tutti i più moderni e integrati meccanismi per attaccarci.
Fare finalmente un passo avanti nella capacità congiunta di reazione dei Paesi europei sarà l’altro passo fondamentale per vincere questa sfida così drammatica. (...)"
http://www.lastampa.it/2015/11 /15/esteri/vinceremo-questa-gu erra-solo-riprendendoci-la-vit a-dWNuXoJZl2UtelPG39ULTJ/pagin a.html
Massimo Nava su Facebook
"(...) La realtá della guerra all'Isis é molto diversa da quanto farebbero pensare i buoni propositi e gli ambiziosi obiettivi.
1) Chi oggi combatte davvero sul campo l'Isis sono Paesi e forze che l'Europa e l'Occidente non considera come alleati o che ha considerato e considera ancora come nemici : la Russia di Putin, senza il quale il Califfato sarebbe giá a Damasco; gli hezebollah (che hanno subito un feroce attentato a Beiruth); l'Iran che puntella il regime di Damasco e i kurdi, massacrati dai turchi e di tanto in tanto sacrificati da tutti.
2) Gli Stati Uniti hanno sempre pensato che lo scontro fra potenze regionali favorisse l'equilibrio della paura. Hanno favorito la guerra Irak Iran negli anni Ottanta e oggi assistono allo scontro e alle guerre per procura fra Iran e Arabia Saudita, cioé fra il mondo sciita e il mondo sunnita.
3) Turchia (Membro Nato!) Arabia Saudita (sostenuta e armata dagli Usa), monarchie del golfo (con le quali tutti facciamo affari) hanno permesso l'espansione del Califfato, hanno agevolato il passaggio dei volontari combattenti dall'Europa, hanno pensato che potesse essere il grimaldello per scardinare il sistema siriano. Aperto il vaso di Pandora, nulla é piú controllabile. L'Isis controlla un grande territorio dove vivono milioni di persone. Ha armi sofisticate e addestratori, ha arruolato pezzi dell'esercito iracheno smantellato dagli americani, si finanzia con il petrolio, la droga e il contrabbando di opere d'arte (molti pezzi naturalmente finiscono sulle piazze occidentali!)
4) La Francia piange i suoi morti e tutti piangiamo per la Francia, ma Parigi dovrebbe hanno avviare una profonda riflessione sugli errori di politica estera e di politica socio-culturale. La battaglia della civiltà e dei valori repubblicani é nobile, ma l'ipocrisia è dietro l'angolo se non si ripensano amici e nemici, clienti di centrali nucleari e armamenti, finanziatori e investitori sul territorio francese. La battaglia della civiltá e dei valori repubblicani é nobile, ma deve essere condotta anche nelle periferie, nel mondo a parte dell'integraziona mancata o sbagliata che é diventata il terreno di proselitismo e di manovra anche dei terroristi.
L'islamismo radicale é dentro la Francia."
Mario Giro* su Limes
"(...) Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmanistanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento.
Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.
In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.(...)"
http://www.limesonline.com/par igi-il-branco-di-lupi-lo-stato -islamico-e-quello-che-possiam o-fare/87990 * (chi è Mario Giro)
David Bidussa su GliStatiGenerali
"(...) Terzo aspetto. Come si sconfigge il nemico? Anche in questo caso è importante la forma in cui inquadrarlo. Perché sapere come lo si sconfigge è conseguente a inquadrare la natura di Isis, ovvero descrivere che cosa sia in quanto espressione, cultura e pratica politica. Ritenere che ciò che abbiamo di fronte sia un attacco terroristico implica intraprendere un percorso di contrasto che fa della controinformazione, dell’uso spregiudicato dell’intelligence, l’arma essenziale. Tutti i movimenti terroristici in età contemporanea sono stati sconfitti in seguito a un processo di rottura al loro interno, in altre parole “per defezione”. A un certo punto si è prodotta una falla e in forza di una capacità di contrasto e di intelligence qualcuno ha attraversato quella terra di nessuno in cui si era ritirato e “ha parlato”.
È pensabile che accada anche con ISIS? Vorrei pensarlo, ma non credo. ISIS ha la fisionomia del movimento politico, ideologico che si fa esercito, movimento fondato sulla convinzione. Movimento costituito da “soldati politici”.
Una sola esperienza nel corso del Novecento ha avuto questo percorso. L’esperienza politica, culturale, ideologica e mentale rappresentata dal nazismo. Il nazismo non è stato sconfitto da nessuna defezione. I suoi sopravvissuti, non hanno mai intrapreso una strada di pentimento, non hanno mai “abbandonato il campo”. Hanno attraversato il lungo dopoguerra senza mai aprire i conti con il loro passato, semplicemente perché ritenevano di avere ragione, ma di avere avuto il solo torto di essere sconfitti.(...)"
Claudio Magris sul Corriere della Sera
"(...) A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.
È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. (...)"
http://www.corriere.it/esteri/ 15_novembre_15/gli-attentati-p arigi-quel-complesso-colpa-che -ispira-l-equivoco-buonista- 0e5ec956-8b65-11e5-85af- d0c6808d051e.shtml
Giovanni Fontana su DistantiSaluti
"Tutti quelli che, in queste ore, stanno dicendo la sciocchezza che ciò che motiva gli attentati di Parigi è la politica e non la religione provi a rispondere a una semplice domanda: perché, in questa fase d’incertezza, siamo certi che tutti gli attentatori siano mussulmani? Attenzione: non sto dicendo che non esiste un terrorismo non mussulmano, non sono scemo, la storia ne è piena. Sto domandando: se la causa di questi attentati è politica e non religiosa perché sappiamo che tutti gli attentatori di questi attentati sono mussulmani? Saranno francesi, siriani, potrebbero essere marocchini, sauditi, belgi, tunisini, britannici, iracheni, italiani, giordani, kuwaitiani, spagnoli, libici, turchi (queste sono alcune delle nazionalità che hanno commesso attentati suicidi in Iraq e Siria) eppure siamo certi che siano tutti mussulmani. (...)"
Daniele Bellasio su Danton (Blog del Sole24Ore)
"(...) La prima ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è l’antiamericanismo, che poi assume forme di antiisraelismo, se non di antisemitismo, e ovviamente di antioccidentalismo. E’ colpa nostra perché gli americani sono brutti, sporchi e cattivi e siccome noi siamo alleati degli americani siamo anche noi un po’ brutti, sporchi e cattivi.(...)
La seconda ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un nostro merito, un nostro pregio, cioè un aspetto positivo delle culture liberal-democratiche, della civiltà occidentale, ovvero la diffusione di una sana consapevolezza sociale, mai abbastanza profonda ma pur sempre presente, che intravede nella difficoltà a risolvere alcune gravi questioni legate alle diseguaglianze economiche, e appunto sociali, una ragione di autocritica severa, la scaturigine cioè di un senso di colpa che ci fa dire, di fronte a reazioni da noi non controllate e non controllabili, che in fondo è colpa nostra. Se questa riflessione è corretta, se questa sensazione/opinione è frutto di un aspetto positivo della nostra civiltà, dobbiamo prenderne il buono – l’anelito a migliorare le nostre società – senza però dimenticare che allora, proprio e anche per questo motivo, le nostre società sono meritevoli di esistere, di continuare a proteggere i propri valori e a battersi per i propri principi. Senza cambiare la base della nostra convivenza. In poche parole, per continuare a migliorare le nostre società dobbiamo continuare a vivere. E dunque dobbiamo vincere contro chi ci vuole annientare.(...)
La terza ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un’illusione, naturale ma pur sempre un’illusione, cioè la voglia di credere che se noi facciamo qualcosa di diverso da quello che stiamo facendo loro, i terroristi jihadisti, ci lasceranno in pace. In fondo, è una naturale, ovvia, giustificata e giustificabile speranza quella di pensare: “Ci uccidono perché facciamo qualcosa, se smettiamo di fare quel qualcosa non ci uccideranno più”. Ma se è naturale questa illusoria speranza, allora bisogna rispondere con sincerità alla seguente domanda: che cosa dobbiamo smettere di fare perché ci lascino in pace? La drammatica risposta è che dovremmo smettere di essere noi stessi. Vogliamo?
venerdì 11 settembre 2015
Salvare Assad? (rassegna stampa)
Di seguito un ottimo Alberto Negri, e altri interessanti articoli sulla difficile questione siriana, che l'arrivo di profughi ha riproposto al centro dell'agenda politica europea.
"Salvare" Assad è il male minore, di fronte all'avanzata del Califfato? Può darsi, ma in ogni caso qualunque ipotesi di "soluzione" deve mettere nel conto un lungo periodo di gestazione, e un alto tasso di contraddittorietà e precarietà.
Già essere consapevoli dei tempi non brevi che sono richiesti da questo scenario (come anche da quello libico) sarebbe un primo passo verso un'azione più incisiva.
Francesco Maria Mariotti
***
Nessuno ama Bashar Assad, neanche i russi e neppure gli iraniani: ma oggi appare il male minore, unica alternativa alla vittoria dei jihadisti. Non per questo Mosca, rafforzando il suo sostegno militare a Damasco, intende far esplodere la terza guerra mondiale, come sembrava sfogliando ieri le prime pagine di alcuni giornali. Anzi la Russia, insieme all’Iran sciita, ha intuito che Assad non può vincere la guerra, e che serve trovare un compromesso per la transizione. Questo era il senso dell’offerta del Cremlino di costituire un coalizione internazionale contro lo Stato Islamico: ma è stata sdegnosamente respinta, come se qui dalle nostre parti avessero la soluzione in tasca. (...)
Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia continuano a sostenere che Assad se ne deve andare e allo stesso tempo dichiarano che vogliono colpire i jihadisti dello Stato Islamico. Ma è evidente che non si può combattere il Califfato e allo stesso tempo il suo avversario. A meno che Londra e Parigi non intendano comportarsi come la Turchia di Erdogan che con il pretesto della guerra al Califfato bombarda sistematicamente dei curdi, i più strenui nemici dei jihadisti. La comunità internazionale sembra colpita da una sorta di sdoppiamento della personalità che determina comportamenti fortemente contraddittori di fronte all’Isis e a quanto accade nel Mediterraneo. (...)
È questo uno dei motivi chiave perché le iniziative militari anti-Isis hanno avuto scarso successo: alla guerra degli occidentali manca l’obiettivo politico. François Hollande afferma che Assad se ne deve andare ma il presidente francese non ha la minima idea di chi mettere al suo posto, a meno di non volere riciclare i jihadisti che vuole combattere e consegnargli la Siria. Così come non si sapeva con chi sostituire Saddam nel 2003 e Gheddafi nel 2011. L’impressione è che gli Stati e l’Occidente non siano ancora usciti dalla macchina infernale delle guerre senza senso innescata dagli attentati dell’11 settembre 2001: l’anniversario di oggi dovrebbe indurci a qualche riflessione.
(...) Cosa fare, allora? Basta leggere le dichiarazioni del presidente francese Hollande per capire che si pensa a intensificare l’intervento armato. Quello che non è chiaro è come farla finita con Assad e come affrontare l’Isis. Il drammatico bilancio degli interventi internazionali in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 sono sotto gli occhi di tutti. Isis stesso è un problema che nasce tra le fila degli ex dirigenti del regime di Saddam. L’intervento a supporto dell’insurrezione in Libia, ha lasciato dietro di sé una devastante guerra per bande. In tutti e tre i casi citati, non si è mai lavorato a un reale progetto post-bellico e il rischio che si corre adesso è che nella corsa alla guerra, ancora una volta, si perda di vista l’obiettivo: rendere quella regione del mondo un posto sicuro. Restando lucidi, per non farsi travolgere dalla necessità di accorpare coalizioni in fretta e furia, magari pagando cambiali a paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita che profittano del momento per regolare i loro conti, rispettivamente con i curdi e con gli insorti filo iraniani in Yemen.
La chiave è mettere Assad fuori dalla storia, arrivando a un accordo con i suoi alleati. Senza Iran e Hezbollah, Damasco è finita. L’accordo sul nucleare tra Washington e Teheran potrebbe essere davvero il punto di svolta di questa crisi. Prima di concludere, deve essere preteso che l’Iran giochi un ruolo ‘trasparente’ nel conflitto siriano, per lavorare a una vera exit strategy che deve iniziare – ad esempio – dal fermare l’aviazione del regime e le sue criminali barrel bomb. Sostenendo un nuovo governo a Damasco, nato dalla condivisione di tutte le anime dell’insurrezione e della società civile siriana, e non pretendendo di sceglierlo a Washington o a Bruxelles, lavorando allo stesso tempo sulla situazione in Iraq, con l’elemento curdo che – piaccia o no al presidente turco Erdogan – ha preso un ruolo importante, affrontare tutti assieme le colonne di Isis.
Che sono molto meno imbattibili di quello che si vuole raccontare. Perché iniziare subito un’operazione razionale di intervento sulle fonti di finanziamento del gruppo darebbe risultati immediati. Almeno quanto aprire un tavolo di confronto ad alto livello e transnazionale con le figure più influenti della galassia sunnita in Siria e in Iraq per uscire dalla trappola del risentimento settario. Perché bombardare e basta aumenterà le vittime civili. E questo, come dimostrano gli ultimi quindici anni, finisce solo per rafforzare i radicali.
Bashar Assad era ancora un bimbo quando i russi hanno aperto la loro prima base a Tartus. Era il 1971, allora i siriani decisero di concedere l’uso di un punto d’appoggio logistico per le navi di Mosca. Uno scalo, neppure troppo grande, ma importante. E non lo hanno mai abbandonato. Oggi moli e gru fanno parte del piano lanciato da Vladimir Putin per sostenere Damasco. Un programma che poggia su tre pilastri per il momento irrinunciabili in quanto necessari a tutelare gli Assad e gli interessi del Cremlino. Visione che geograficamente trova il punto di sintesi nel cosiddetto corridoio di Latakia, che parte dalla costa e va verso Est, come nel cantone alawita, che scende verso Sud. Davanti il nemico. La miriade di formazioni ribelli e l’Isis che il regime non ha mai considerato come il target primario.
Molti rifugiati vengono dalla Siria, dove ora operano sul terreno anche i consiglieri militari russi. Non teme il rischio di una ulteriore escalation militare?
«In Siria non esiste una soluzione militare. Stanno combattendo da quattro anni e mezzo, sono morte oltre 250.000 persone, ci sono 4 milioni di rifugiati e 12 milioni di esseri umani colpiti dagli effetti della guerra. Sollecito una soluzione attraverso il dialogo politico, sulla base del comunicato di Ginevra del giugno 2012, e l’unità dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Col mio inviato Staffan de Mistura abbiamo proposto di creare gruppi di lavoro per la sicurezza, la situazione militare, la riconciliazione, lo sviluppo, le infrastrutture, le questioni politiche e costituzionali. È il tentativo di allargare lo spazio politico, per risolvere la crisi con lo strumento del dialogo».
È una vittoria per Obama. Un trionfo anzi. A consegnarlo al presidente i democratici che al Senato hanno bloccato una mozione presentata per respingere l’accordo sul nucleare iraniano. Questa volta hanno fatto muro e hanno aperto la strada per rendere realtà l’accordo negoziato con Teheran, consentendo a Barack Obama di evitare la sfida al Congresso attraverso il veto presidenziale.
Si è trattato di una votazione cosiddetta procedurale, che richiedeva un minimo di 60 voti per consentire alla mozione (Resolution of Disapproval) di procedere verso una ulteriore votazione finale. I voti a favore sono stati però soltanto 58, con 42 contrari, il testo è stato così bloccato e il promesso showdown tra Congresso e Casa Bianca sventato.
Premiati gli sforzi del presidente: Obama su questo accordo ci ha messo la faccia, letteralmente. Ha di persona guidato una campagna a tutto campo per assicurarsi e assicurare che i due anni di negoziati del cosiddetto gruppo 5+1 con Teheran non sarebbero stati vani. (...)
sabato 5 settembre 2015
Profughi e confini (Davide Giacalone)
Sul dramma dell'immigrazione, propongo un articolo che mi pare possa
essere di interesse, per cercare di leggere con razionalità il problema.
Francesco Maria Mariotti
***
"(...) La Germania ha unilateralmente deciso di accogliere i siriani, conquistandosi un posto nella bacheca della bontà. E’ stata una scelta in contrasto con l’ipotesi di una politica europea comune, proprio perché unilaterale. Sta di fatto che, da quel momento, complice l’enorme pressione sulle frontiere ungheresi, tutta la riflessione sull’immigrazione è concentrata sui siriani. Errore.
Intanto perché i profughi, quindi coloro i quali hanno diritto ad essere soccorsi e accolti, non vengono solo da lì. Se si vuole una politica comune si deve parlare tutti e di tutti, altrimenti si tratta di una scelta politica fatta da un solo Paese. Non c’è alcun dubbio sul fatto che i profughi abbiano diritto all’asilo.
I problemi sono tre: a. chi sono, come li si riconosce; b. quale è il limite oltre al quale vanno redistribuiti non solo dentro l’Ue, ma anche fuori, perché troppi; c. quale è la condizione in cui ci si pone il problema della guerra che li fa scappare, lavorando per farla cessare, il che comporta considerare come propria la guerra all’Is e come non desiderata l’alleanza di Assad. E comporta che ai turchi che si decidono a non offrire più coperture all’Is non si consenta di bombardare i curdi. Questi sono i dilemmi da affrontare, se dietro al piagnucolio non s’intende coprire le decisioni politiche di altri.Le quote obbligatorie hanno un senso a fronte della comune politica, altrimenti, sia nella versione accoglienza che in quella del pagamento, in vil denaro, per mancata accoglienza, diventano supporto a politiche estere non comuni.
(...) Se è problema comune allora comune deve essere la politica d’accoglienza, il che comporta comune amministrazione delle frontiere esterne, salvaguardando le conquiste (Shengen) in quelle interne.Se così non si procede non solo l’invocazione di più Europa e più integrazione si traduce in un gargarismo ipocrita, ma l’Italia si troverà in guai peggiori, perché il resto della pressione migratoria, fatta di gente in carne e ossa, di drammi umani, di bambini proiettati verso la speranza di una vita migliore, resterà problema di chi li vede alla propria frontiera, di chi va a salvarli dalla morte per annegamento, di chi deve sobbarcarsi il gravosissimo e necessario compito di rifiutarli e rispedirli indietro. Non essendo neanche in grado di farlo. (...)"
mercoledì 25 giugno 2014
Il Disordine Che Ignoriamo (dal Corriere.it)
(...) A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire? (...)
mercoledì 18 giugno 2014
Che fare In Iraq?
New York. Che fare? La più rivoluzionaria delle domande rimbalza nei corridoi dell’Amministrazione Obama a proposito della lacerante situazione in Iraq, figlia legittima di anni di traccheggiamenti nell’adiacente ginepraio siriano. Di fronte alle crisi internazionali di questi anni, la Casa Bianca ha insistito fino allo sfinimento sull’efficacia dello “smart power” e la varietà degli strumenti a disposizione del governo – dai droni alla diplomazia fino agli aiuti economici e al sostegno militare alle popolazioni ribelli – secondo l’idea obamiana che “non tutti i problemi hanno una soluzione militare”, ma l’avanzata repentina dei terroristi dell’Isis in Iraq restringe il ventaglio delle opzioni americane a tre alternative, nessuna delle quali è particolarmente desiderabile per Washington. La prima opzione è un intervento militare diretto; la seconda è una scivolosa alleanza di natura tattica con l’Iran nel nome del comune nemico sunnita; la terza è non fare nulla, un classico della politica estera obamiana.(...)
(...) Le colpe degli Usa Senza alcun dubbio gli Stati Uniti e i loro alleati hanno le loro colpe. La scellerata gestione del sistema iracheno nei mesi seguiti alla sconfitta di Saddam Hussein ha avuto un peso determinante nel fallimento del progetto di “nuovo Iraq” sorto in ambito neo-con. La terra dei due fiumi sarebbe dovuta divenire un faro di speranza, democrazia e stabilità nel cuore di una regione che – nonostante i molti alleati di Washington – era ottenebrata da autoritarismi, sperequazioni e violazioni quotidiane dei diritti umani più basilari. Essa sarebbe dovuta essere esempio e monito al tempo stesso, oltre che un alleato eccezionale dal punto di vista economico, politico e di sicurezza. Nel giro di pochi mesi, però, questo scenario è collassato sotto il peso di scelte errate, destinate a segnare l’Iraq per anni a venire: scioglimento delle forze armate, processo di de-baathificazione, passaggio immediato a un’economia di mercato e articolazione degli interessi della popolazione irachena su basi etno-settarie su tutte. Tali misure furono associate alla Coalition provisional authority di Paul Bremer III, ma gli errori americani furono più legati alla scarsa conoscenza degli equilibri locali e alla inadeguatezza dei preparativi per il “post-Saddam” che alle responsabilità – seppur importanti – di una singola persona o istituzione. Eppure, al momento del loro ritiro nel dicembre 2011 (una scelta frutto più dell’intransigenza della dirigenza irachena che dell’effettiva volontà di disengagement americana) gli Stati Uniti erano riusciti con gran dispendio di risorse ed energie a lasciare un Iraq, se non completamente pacificato, quantomeno non minacciato da un’insurrezione su ampia scala, con i resti dello milizie qaediste in fuga od operanti nell’ombra a Mosul e dintorni.
La responsabilità di al-Maliki Nel giro di pochi mesi, però, nonostante le rassicurazioni fornite a Washington, Nuri al-Maliki – il premier sciita alla guida del Paese dal 2006 – impresse una svolta significativa alla propria linea politica, dando il via ad una lotta senza esclusione di colpi contro le forze di opposizione, soprattutto quelle in quota arabo-sunnita. A farne le spese fu, nel dicembre del 2011, l’ex vice-presidente iracheno Tariq al-Hashimi, accusato di essere il mandante di una serie di attentati terroristici e condannato in contumacia, in seguito alla sua fuga in Kurdistan e da lì in Turchia e Arabia Saudita. Esattamente un anno più tardi, a cadere nella tela del primo ministro fu Rafi al-Issawi, allora ministro delle Finanze, che – a differenza di al-Hashimi – non sembrava altrettanto coinvolto nel bagno di sangue che aveva travolto il Paese tra il 2005 e il 2008. L’arresto di al-Issawi rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso. (...)
domenica 15 giugno 2014
In Iraq ora l’esercito attacca l’ISIS (da ilPost.it)
Tra sabato 14 e domenica 15 giugno l’esercito iracheno ha attaccato i miliziani dell’ISIS, un gruppo di estremisti islamici, ed è riuscito a riconquistare diverse città vicino a Baghdad e nel nord del paese. Un portavoce del governo ha dichiarato che negli scontri di sabato sarebbero stati uccisi 279 miliziani islamici, una cifra che però non può essere confermata. Si tratta di un capovolgimento di fronte piuttosto improvviso, visto che soltanto pochi giorni fa in molti temevano che la stessa Baghdad dovesse prepararsi ad affrontare un assedio da parte dei miliziani dell’ISIS.
Negli ultimi giorni, infatti, la situazione in Iraq è peggiorata molto rapidamente. L’ISIS, che opera sia in Iraq che in Siria, ha lanciato all’inizio di giugno un’offensiva che in pochi giorni ha portato alla caduta di numerose città, tra cui Mosul, la seconda città dell’Iraq che si trova nel nord del paese, e Tikrit, la città natale dell’ex dittatore Saddam Hussein, vicino a Baghdad. L’esercito iracheno non è riuscito a opporsi a questa rapida avanzata. A Mosul circa 30 mila soldati iracheni sono fuggiti o si sono arresi davanti a 800 miliziani dell’ISIS e a una rivolta degli abitanti sunniti della città.
In realtà sembra che le conquiste compiute dall’ISIS negli ultimi giorni siano frutto di una serie di circostanze particolari (ne abbiamo parlato qui). L’ISIS è un gruppo sunnita, come la minoranza che abita in particolare la parte settentrionale del paese. I sunniti iracheni negli ultimi anni sono diventati particolarmente ostili al governo del primo ministro Nuri al-Maliki, che ha portato avanti una serie di politiche a favore della maggioranza sciita (a Mosul, ad esempio, mentre gran parte dei soldati era sunnita, i comandanti erano tutti sciiti). L’ISIS è riuscita a sfruttare questa divisione e ha ottenuto notevoli successi militari nelle zone a maggioranza sunnita. Probabilmente però non riuscirà a minacciare seriamente la capitale Baghdad, dove è molto più forte la presenza degli sciiti.(...)
sabato 14 giugno 2014
La situazione in Iraq
Tra giovedì 12 e venerdì 13 giugno la situazione in Iraq è peggiorata ulteriormente, con una nuova avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) – gruppo estremista sunnita che opera sia in Iraq che in Siria – in direzione della capitale Baghdad. L’ISIS ha preso il controllo di due città nella provincia di Diyala, poco più a est di Baghdad, e ha compiuto diverse esecuzioni pubbliche a Mosul, capoluogo della provincia di Ninawa, città conquistata negli ultimi giorni.
All’improvvisa e violenta offensiva dell’ISIS si è aggiunta una reazione intensa dei soldati curdi “Peshmerga”, che rispondono al governo regionale del Kurdistan iracheno, una regione che da tempo vuole separarsi dal resto dell’Iraq: i curdi hanno conquistato la città di Kirkuk – capoluogo della provincia di Kirkuk, a circa 250 chilometri a nord di Baghdad – sfruttando la debolezza del governo iracheno causata dall’offensiva dell’ISIS. E infine all’ISIS e ai curdi si sono aggiunti anche gli sciiti, il gruppo minoritario dell’islam (ma maggioritario in Iraq) a cui appartiene anche il primo ministro iracheno Nuri al-Maliki. Venerdì, di fronte alle difficoltà dell’esercito iracheno a confrontarsi con le recenti minacce, migliaia di combattenti sciiti si sono diretti verso Samarra, città a circa 110 chilometri a nord di Baghdad finita sotto il controllo dell’ISIS nella notte tra giovedì e venerdì. (...)
"(...) Non manderemo truppe in Iraq" ma offriremo ulteriore aiuto. Lo afferma il presidente americano, Barack Obama. "Le forze di sicurezza irachene - ha continuato - purtroppo hanno dimostrato di non essere capaci di difendere alcune città. E il popolo iracheno è ora in pericolo". Obama ha aggiunto: "Fondamentalmente il futuro dell'Iraq dipende dagli iracheni. Proseguiremo con un'intensa azione diplomatica nella regione". Il presidente Usa ha detto che la linea di politica estera degli Stati Uniti resta quella di combinare "azioni militari mirate" se necessario con "lo sforzo insieme alla comunità internazionale" per risolvere le crisi insieme e ricorrendo alla diplomazia.
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