mercoledì 18 giugno 2014

Che fare In Iraq?

New York. Che fare? La più rivoluzionaria delle domande rimbalza nei corridoi dell’Amministrazione Obama a proposito della lacerante situazione in Iraq, figlia legittima di anni di traccheggiamenti nell’adiacente ginepraio siriano. Di fronte alle crisi internazionali di questi anni, la Casa Bianca ha insistito fino allo sfinimento sull’efficacia dello “smart power” e la varietà degli strumenti a disposizione del governo – dai droni alla diplomazia fino agli aiuti economici e al sostegno militare alle popolazioni ribelli – secondo l’idea obamiana che “non tutti i problemi hanno una soluzione militare”, ma l’avanzata repentina dei terroristi dell’Isis in Iraq restringe il ventaglio delle opzioni americane a tre alternative, nessuna delle quali è particolarmente desiderabile per Washington. La prima opzione è un intervento militare diretto; la seconda è una scivolosa alleanza di natura tattica con l’Iran nel nome del comune nemico sunnita; la terza è non fare nulla, un classico della politica estera obamiana.(...)
 
(...) Le colpe degli Usa Senza alcun dubbio gli Stati Uniti e i loro alleati hanno le loro colpe. La scellerata gestione del sistema iracheno nei mesi seguiti alla sconfitta di Saddam Hussein ha avuto un peso determinante nel fallimento del progetto di “nuovo Iraq” sorto in ambito neo-con. La terra dei due fiumi sarebbe dovuta divenire un faro di speranza, democrazia e stabilità nel cuore di una regione che – nonostante i molti alleati di Washington – era ottenebrata da autoritarismi, sperequazioni e violazioni quotidiane dei diritti umani più basilari. Essa sarebbe dovuta essere esempio e monito al tempo stesso, oltre che un alleato eccezionale dal punto di vista economico, politico e di sicurezza. Nel giro di pochi mesi, però, questo scenario è collassato sotto il peso di scelte errate, destinate a segnare l’Iraq per anni a venire: scioglimento delle forze armate, processo di de-baathificazione, passaggio immediato a un’economia di mercato e articolazione degli interessi della popolazione irachena su basi etno-settarie su tutte. Tali misure furono associate alla Coalition provisional authority di Paul Bremer III, ma gli errori americani furono più legati alla scarsa conoscenza degli equilibri locali e alla inadeguatezza dei preparativi per il “post-Saddam” che alle responsabilità – seppur importanti – di una singola persona o istituzione. Eppure, al momento del loro ritiro nel dicembre 2011 (una scelta frutto più dell’intransigenza della dirigenza irachena che dell’effettiva volontà di disengagement americana) gli Stati Uniti erano riusciti con gran dispendio di risorse ed energie a lasciare un Iraq, se non completamente pacificato, quantomeno non minacciato da un’insurrezione su ampia scala, con i resti dello milizie qaediste in fuga od operanti nell’ombra a Mosul e dintorni.
La responsabilità di al-Maliki Nel giro di pochi mesi, però, nonostante le rassicurazioni fornite a Washington, Nuri al-Maliki – il premier sciita alla guida del Paese dal 2006 – impresse una svolta significativa alla propria linea politica, dando il via ad una lotta senza esclusione di colpi contro le forze di opposizione, soprattutto quelle in quota arabo-sunnita. A farne le spese fu, nel dicembre del 2011, l’ex vice-presidente iracheno Tariq al-Hashimi, accusato di essere il mandante di una serie di attentati terroristici e condannato in contumacia, in seguito alla sua fuga in Kurdistan e da lì in Turchia e Arabia Saudita. Esattamente un anno più tardi, a cadere nella tela del primo ministro fu Rafi al-Issawi, allora ministro delle Finanze, che – a differenza di al-Hashimi – non sembrava altrettanto coinvolto nel bagno di sangue che aveva travolto il Paese tra il 2005 e il 2008. L’arresto di al-Issawi rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso. (...)

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