"Quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro altrettanto comodo e pratico e comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio" (W.Churchill, febbraio 1944)
A volte il pensiero politico non deve fare sforzi di profondità; la frase di Churchill - se non vado errato pronunciata con riferimento al problema se mantenere o meno la monarchia in Italia - dice tutto di quella che è la regola aurea della politica estera: non deve prevalere la "giustizia" a tutti costi, ma l'ordine e la stabilità il più possibile. Certo, con questa motivazione, si richia di giustificare l'ingiustificabile, ma è un dato di fatto che il pericolo più grave, il danno più pesante, per la politica non è una dittatura feroce, ma la guerra civile, l'implosione di una collettività.
In Libia - lo si è già detto troppe volte, da queste e da altre parti - si è sottovalutata la complessità di una scenario che non poteva che peggiorare, tolto Gheddafi. Quindi nessuna meraviglia su quanto successo nei giorni scorsi, con il sequestro-lampo del primo ministro.
Piuttosto, è il caso di ricordare che l'Italia - oltre che per gli ovvi problemi di vicinanza e di immigrazione - deve preoccuparsi di questa vicenda perché è chiamata a curare in primissima linea il disarmo delle fazioni libiche: per continuare a usare i termini di Churchill, siamo chiamati in un certo senso a essere lo "strofinaccio" della situazione. Ancora troppo poco si sa dei dettagli di questo impegno, ma certo sarebbe il caso di valutarne pienamente costi e benefici, e capire quanto potrebbe durare.
La speranza è che comunque da questo immenso male possa nascerne del bene, anche per noi: chissà, magari gli "accenni nazionali" che alcune milizie stanno utilizzando per giustificare il loro operato - vd. articolo de Linkiesta - può essere un seme di coesione da sfruttare per cercare di ricostruire una comunità statuale. E forse il nostro impegno - se saremo capaci di sfruttarlo al meglio - potrà diventare un punto importante di forza e di nuova penetrazione del nostro paese nel continente africano. Ne avremmo di che guadagnarci.
Un pensiero a tutte le donne e tutti gli uomini che già ora - segretamente o pubblicamente - stanno operando in quel paese, per il nostro interesse.
Francesco Maria Mariotti
Non si può negare che le milizie abbiano giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro Muammar Gheddafi. Queste brigate sono state protagoniste della presa di Tripoli nel 2011 e mantengono ancora un vasto controllo territoriale. Ufficialmente la Libia ha un corpo di polizia nazionale e un esercito. Ciò nonostante, a seguito della disintegrazione dell’apparato di sicurezza messo in piedi dal colonnello, le brigate armate sono emerse come unico sistema di polizia e di esercito funzionante all’interno del paese. In alcune zone del Paese le qataib pattugliano le strade, arrestano (e a volte detengono) presunti criminali, organizzano posti di blocco per il controllo dei documenti, e spesso dirigono persino il traffico. Un ufficiale di polizia da noi intervistato nel corso della nostra ultima visita in Libia ci rivelò di non lavorare da mesi, di avere un’uniforme piegata nel cassetto: le milizie erano ormai la nuova polizia.
Le brigate costituiscono un panorama differenziato e complesso. Alcune qataib professano un’agenda religiosa e auspicano una stretta applicazione della legge islamica nella Libia del futuro, mentre altre si presentano solo come corpi di protezione nazionale senza connotazioni politiche o religiose. Alcune milizie hanno giurato fedeltà al governo libico e si descrivono come una «polizia provvisoria», in attesa che il Paese possa tornare ad avere delle forze dell’ordine regolari e operative. Le milizie hanno una gerarchia interna che spesso rispecchia quella dell’esercito regolare, ma nella maggior parte dei casi le brigate non hanno centri di addestramento o dinamiche di appartenenza ben precise. Molte qataib appaiono come organizzazioni informali. Le loro sedi sembrano spesso dei «centri sociali» armati: baracche o case dove i ragazzi vanno a passare il tempo. Ciò nonostante le recenti vicende di Bengasi testimoniano la pericolosità di alcune di queste organizzazioni. Il governo libico sta valutando diverse soluzioni al problema delle milizie. Tra le proposte un tentativo di regolarizzare alcune delle brigate offrendo addestramento per coloro che vogliono unirsi alla polizia o all’esercito.
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/milizie-armate-libia#ixzz2hbYQDS31
Ma in tutti questi paesi non abbiamo assistito a rivoluzioni, cioè a un avvicendamento, traumatico, ma per certi versi fisiologico, dei detentori del potere, in forme modellate da una maturazione di principi democratici: quanto è avvenuto, a mio parere, si può più semplicemente ricondurre alla categoria della rivolta, come quella di Masaniello, che si esaurisce in una fiammata di indignazione popolare per poi ricadere in forme già note di vario dispotismo, così come è accaduto e sta accadendo in Egitto, dove i Fratelli Musulmani, che avevano con grande abilità raccolto i frutti della cacciata di Mubarak, hanno dato palese evidenza della loro incapacità di governo e del loro concetto strumentale di democrazia, facendo ripiombare il paese in una situazione pre rivolta, con il problema addizionale che gli orologi della storia non si possono mai riportare indietro e che ai problemi del passato si sommano le instabilità del presente.
Stamane è stata diffusa una foto del premier in maniche di camicia sotto custodia di due uomini in borghese, esponenti con ogni probabilità di qualche milizia. Vedremo se nelle prossime ore seguiranno altri eventi che potrebbero portare a una sorta di golpe o se si tratta di un'azione intimidatoria di breve durata. Il Governo libico aveva formalmente protestato con Washington, ma l'opinione della maggioranza del Parlamento e delle fazioni armate è che Zeidan sapesse del sequestro Al Libbi e non avesse fatto nulla per impedire l'operazione
di Alberto Negri con un'analisi di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/TrFJD
Questo era il fronte politico, a cui tuttavia si pensava fosse possibile porre rimedio distribuendo la grande ricchezza energetica di cui dispone la Libia, il paese che vanta le maggiori riserve di greggio dell'Africa. Ma da alcuni mesi anche l'industria petrolifera è stata inghiottita dal caos. Travolta da una valanga di scioperi che ha investito la Cirenaica, dove si trovano i maggiori giacimenti di greggio e gas, la produzione petrolifera ha accusato un crollo verticale: in pochi mesi è scesa da punte di 1,5 milioni di barili al giorno (mbg), vale a dire ai livelli precedenti la rivoluzione, a meno di 150mila barili. Da tre settimane la produzione si è ripresa, ma non ha ancora raggiunto il 50% dei livelli di inizio anno. Una pessima notizia per l'Italia, che acquista dalla Libia quasi un quarto delle sue importazioni di greggio. Alla lunga il danno economico per le compagnie energetiche internazionali è ingente.
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8huc2
Meno evidenti sono le infiltrazioni dei radicali islamici e delle formazioni terroristiche legate ad Al Qaeda nella galassia di queste milizie, alcune delle quali sono entrate addirittura a far parte delle formazioni regolari e delle forze di sicurezza governative. Alcune truppe della Cirenaica (per e-sempio la milizia dei “martiri di Derna”) sono state inglobate nell’esercito libico senza che abban-donassero una visione islamista della società. Il network di Al Qaeda è stato più attento degli occi-dentali e delle forze della Nato: ha atteso il momento giusto, dettato dalle fragili condizioni di sicu-rezza e ora sta investendo sul paese con lo scopo di trasformare in un nuovo Af-Pak la vasta area cha va dalla Cirenaica al Fezzan sino al Sahel. Il governo centrale è accusato dai jihadisti locali e internazionali di aver tradito la rivoluzione e di aver svenduto il paese all’occidente. Alcuni video-proclami degli ultimi anni di Al-Zawahiri e Abu Yahya al Libi già facevano precludere all’interesse per la Libia, soprattutto, come preventivato e purtroppo verificatosi, all’impegno militare occidentale non fosse corrisposto un altrettanto impegno civile e politico nella ricostruzione del paese.
Il problema è semplice: la ribellione contro Gheddafi fu condotta da una miriade di milizie e gruppi armati, rispecchiante il complesso mosaico tribale della Libia. Collassata laJamahiriyya, ossia il regime costruito da Gheddafi (e non a caso basato su forti autonomie locali), le nuove autorità libiche non sono riuscite a riportare sotto il proprio controllo questi numerosi gruppi, rimasti in vita e in armi. I piani per il reinserimento dei miliziani, che prevedono tra l'altro il loro impiego al servizio dello Stato, non si sono rivelati un successo, come dimostrato dal caso Zeidan, soprattutto perché non si è stati in grado di sciogliere i gruppi pre-esistenti.
Di fatto, la Libia pullula ora di tante "compagnie di ventura", costituite per lo più su base tribale, che agiscono per conto proprio o vendono i propri servizi a enti e uffici dello Stato. I sequestratori del Primo ministro sono alle dipendenze del ministero dell'Interno per garantire la sicurezza a Tripoli.
Tutto ciò impone una riflessione su come le grandi potenze gestirono la crisi libica nel 2011.
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