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domenica 23 giugno 2019

"Andrà tutto bene"? (Le elezioni a Istanbul)

"A Istanbul l’opposizione vola: è iniziata la lunga notte che porterà alla proclamazione del nuovo sindaco della megalopoli sul Bosforo dopo che le elezioni dello scorso 31 marzo sono state annullate per presunte irregolarità. Particolarmente alta l’affluenza alle urne, che ha superato l’80%.
Secondo le prime proiezioni diffuse dall’agenzia di stato, Anadolu Haber Ajansi, con il 95% delle urne aperte, il candidato dell’opposizione, Ekrem Imamoglu è in testa con il 53,6% dei voti rispetto al 45,4% di Binali Yildirim, ex primo ministro e uomo di fiducia del Presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan. L’ex premier ha ammesso la sconfitta ancora prima che uscissero i risultati. Poco dopo il nuovo sindaco ha esultato: «Oggi ha vinto la democrazia. Hanno vinto i 16 milioni di abitanti di Istanbul» (...)"


"Imamoglu, 49enne candidato del Partito repubblicano del popolo (CHP), fino a pochi mesi fa era un politico semisconosciuto:  era infatti sindaco di Beylikduzu, una circoscrizione di Istanbul abitata da classi medio-borghesi. Originario di Trabzon, città sulla costa turca del Mar Nero, caratterizzato da componenti nazionaliste e religiose, Imamoglu, fin dall'inizio della sua campagna ha tracciato un profilo di uomo moderato, deciso a dialogare con tutti i settori della composita società turca. l risultato delle amministrative del 31 marzo scorso, che aveva consegnato la poltrona di primo cittadino a Imamoglu, era  stato annullato lo scorso 6 maggio dal Consiglio elettorale superiore (Ysk) per presunte irregolarità. Yildirim, candidato dell'Akp, il partito di governo, e del nazionalista Mhp, alleato di Erdogan, era stato sconfitto da Imamoglu, che aveva ottenuto il 48,80% dei voti a fronte del 48,55% raccolto dal suo oppositore. Imamoglu aveva ricevuto il suo mandato di sindaco lo scorso 17 aprile, ma l'incarico era durato appena due settimane perché l'Akp aveva presentato ricorso al Consiglio, chiedendo di annullare il risultato. Il Consiglio ha quindi ritirato il mandato di Imamoglu, stabilendo che i residenti di Istanbul sarebbero tornati a votare per eleggere - una seconda volta - il sindaco della metropoli. Imamoglu: "Si apra una nuova pagina" "E' il momento di aprire una nuova pagina". Sono queste le prime parole di Ekrem Imamoglu, rieletto con il 54% dei voti sindaco di Istanbul. Un'affermazione senza discussioni, dopo la risicata, contestata e poi annullata elezione dello scorso 31 marzo. "E' finito il tempo delle divisioni, di questo risultato voglio che siano tutti felici", ha dichiarato un esausto Imamoglu, dopo aver snocciolato una lista chilometrica di ringraziamenti, in primis ai volontari che hanno prestato servizio ai seggi, controllando le operazioni di scrutinio."Questa non è la mia vittoria, ma la vittoria della democrazia. Voi siete stati protagonisti di un momento di una delle pagine più belle della storia di questo Paese", ha detto Imamoglu, che ha prevalso con 4.698.782 voti sullo sfidante Binali Yildirim, che di voti 777.581 in meno. "Sarò il sindaco di 16 milioni di persone, nessuno sarà escluso, è finito il tempo di pregiudizi, divisioni, conflitti, voglio una città in cui tutti, nelle loro diversità, si abbraccino", ha aggiunto Imamoglu.Il neo sindaco repubblicano, riporta al Chp il governo della più grande città della Turchia dopo 25 anni, quando a sottrarla ai repubblicani fu l'attuale presidente, Recep Tayyip Erdogan, cui Imamoglu lancia anche messaggio."Chiedo al presidente di lavorare insieme a noi. Questo e' il nostro desiderio. C'e' tanto da fare e siamo stanchi delle faide politiche". Appena prima del neo sindaco aveva parlato Binali Yilieim, che si e' limitato a riconoscere la sconfitta."Ekrem Imamoglu e' nettamente avanti, gli auguro di lavorare con successo per il bene della citta'. Noi siamo sempre pronti a collaborare", ha dichiarato Yildirim. (...)"


"(...) Imamoglu, politico semisconosciuto fino a qualche mese prima, è stato capace di strappare la metropoli turca ai conservatori-islamisti che la amministrano da 25 anni. Una sorpresa per molti, incluso lo stesso Akp. Quarantanove anni, laureato in Economia, il candidato del Partito repubblicano del popolo (Chp) era infatti noto solo come sindaco di Beylikduzu, una circoscrizione di Istanbul abitata da classi medio-borghesi. Originario di Trabzon, città sulla costa turca del Mar Nero, caratterizzata da componenti nazionaliste e fondamentaliste, Imamoglu, fin dall`inizio della sua candidatura a sindaco di Istanbul, si è presentato come moderato, deciso a dialogare con tutti i settori della composita società turca, anche con le minoranze religiose non musulmane.

In tanti già lo indicano come futuro candidato al governo della Turchia in funzione anti-Erdogan. Il presidente turco aveva iniziato la sua ascesa politica proprio come sindaco di Istanbul, nel lontano 1994. Il motto del candidato Chp "Andrà tutto bene", è diventato virale sui social media (hashtag #HerSeyCokGuzelOlacak)."

giovedì 19 marzo 2015

Tunisi, Italia. I ricordi dell'Ammiraglio Fulvio Martini

"(...) Nel 1986-1987, in Nord Africa si era creata una situazione politico-diplomatica abbastanza complessa. La stampa non se ne occupò molto. Diede più spazio alle intemperanze di Gheddafi o ai tentativi di penetrazione sovietici nell'area.
Nel caso specifico, si era aperta una questione di successione al vertice della repubblica tunisina. 
La questione non era facilmente risolvibile: si trattava di procedere alla sostituzione del presidente Bourghiba. Bourghiba era stato il simbolo della resistenza contro i francesi, ma era un uomo di età molto avanzata e non era più nelle condizioni fisiche e mentali di guidare il suo paese. Ci furono dei disordini causati dai primi movimenti integralisti islamici, e la reazione di Bourghiba fu un po' troppo energica. Minacciò infatti di fucilare un certo numero di persone, e fu subito chiaro che una reazione del genere avrebbe portato a sovvertimenti suscettibili di pesanti riflessi negativi anche nei paesi vicini.
Al problema tunisino erano interessati non solo i due stati confinanti, ossia la Libia e l'Algeria, ma anche l'intera zona maghrebina e alcuni stati europei tra cui l'Italia. 
In quella pericolosa situazione Craxi e Andreotti, rispettivamente presidente del consiglio e ministro degli Esteri, si comportarono, a mio avviso, con grande abilità.
Su loro direttive, noi del Servizio facemmo la nostra parte, la più importante. Con la Tunisia - come con tutto il resto del Maghreb, a esclusione della Libia - avevamo eccellenti rapporti. Riuscimmo a concludere una prima transizione sui principali punti di contrasto, poi proponemmo una soluzione soddisfacente per tutti che fu accettata, e la successione di Bourghiba avvenne con un trasferimento di poteri tranquillo e pacifico.
Non ci fu una goccia di sangue; la pace nella regione fu assicurata. L'unica vittima fu un capo Servizio europeo che ci rimise la poltrona perché al suo governo non piacque la nostra soluzione. I contatti che il Sismi aveva avuto con elementi di tutto il Maghreb permisero un rafforzamento dei rapporti bilaterali. Ci furono accordi tra le varie intelligence, e il nostro Servizio portò avanti nella regione alcune iniziative per evitare un proliferare del terrorismo.
In quel periodo - parlo della metà degli anni '80 - era il terrorismo palestinese quello che ci dava le maggiori preoccupazioni. (...)
Nell'area avevo alcuni amici e non mi fu difficile consolidare vecchi rapporti e stabilirne di nuovi. Alcune mie mosse non furono sempre di generale gradimento, perché falciavano erba in giardini altrui (leggi: francesi), ma nel complesso il Maghreb ci accettò con simpatia e collaborò grandemente alla nostra sicurezza. 
Ciò mi permise, ad esempio, di allertare in anticipo i nostri organi di Polizia sull'operazione che Abu NIdal stava preparando in Libano contro l'Italia e che dette origine al massacro di Fiumicino (...)"

Ammiragio Fulvio Martini, Nome in codice Ulisse, Trent'anni di storia italiana nelle memorie di un protagonista dei Servizi segreti, edizioni BUR, pp.141-143

"(...) Da capo del Sismi, gliene capitarono un paio niente male. Quando gli fu affidato il compito di riportare gli algerini nel Club Med dei servizi segreti, ad esempio. «Andai a Parigi, per convincere i francesi che erano i più ostici. E mi trovai davanti un generale della Legione che aveva combattuto la campagna d' Algeria facendo saltare un braccio a uno dei capi della resistenza. Poi andai ad Algeri, e nella loro delegazione trovai quello senza il braccio. Quando vennero a Roma per il primo incontro e li vidi entrare nella sala, per un momento pensai che sarebbe finita a revolverate». Fu sempre lui, nel 1987, a organizzare il cambio della guardia a Tunisi: via Burghiba, presidente Ben Alì. «C' era una situazione incontrollabile, per via dei colpi di testa di Burghiba che voleva giustiziare un gruppo di fondamentalisti. Ne parlai col mio collega francese della Dgse, il generale Imbot. Troviamo una soluzione insieme, dissi. E quello: "Sono affari nostri, l' Impero non vi riguarda". Ah, sì? Beh, da italiano non la mandai giù. Misi al corrente Craxi, lui diede via libera e sostituimmo Burghiba. La mattina dopo Chirac si mangiò il fegato e Imbot pure. Per fare l' operazione avevamo utilizzato il piano francese, con ventiquattro ore d' anticipo e con un nostro candidato alla presidenza: Ben Alì»(...)"

giovedì 8 gennaio 2015

La Guerra Strana Che Non Deve Travolgerci

Quanto è cambiata la società israeliana col terrorismo? «Siamo diventati più forti ed elastici e uniti». Zeruya Shalev, scrittrice israeliana.(intervista a Repubblica del 23 luglio 2005)

Quando andai in Israele, qualche anno fa, per un viaggio di conoscenza e solidarietà con quella società colpita dal terrorismo, un padre di famiglia (un italiano trasferitosi da qualche anno lì) ci sorprese con una battuta che poi scoprii essere un po' diffusa: "Per la verità, facciamo più morti noi sulle strade - con la nostra imperizia come automobilisti - che non il terrorismo con le stragi".
Era probabilmente il tentativo di esorcizzare la paura e l'angoscia, ma al tempo stesso diceva forse qualcosa di vero.

Naturalmente non si può sottovalutare quanto successo ieri a Parigi, ma è necessario mantenere la calma nel momento in cui si analizzano i fattori dell'evento. Questa è una guerra molto "strana", se proprio vogliamo chiamarla guerra e vedere un unico disegno che unisce tutti i punti. Bisogna fare attenzione, però, perché unendo punti troppo lontani fra loro rischiamo di vedere un Nemico Gigante e terrificante, quando magari sono tanti, piccoli, e non così forti.

Questo possibile errore di prospettiva - uno dei tanti che si rischiano in questa strana guerra "frammentata" e con più "scenari" -  può elevare l'allarme oltre il necessario e - soprattutto - far sbagliare le risposte. Che devono essere dure, sicuramente, ma precise. Il che significa - per esempio - che è sbagliato attaccare genericamente l'Islam, ma è altresì pericoloso - se le indagini confermeranno questa matrice - "rimuovere" la "connotazione" religiosa e fondamentalista, parlando semplicemente di "terrorismo" in modo troppo generico. 

Già in Afghanistan e in Iraq, e per certi aspetti in Libia, stiamo pagando i prezzi di un eccesso di azione e di un'analisi approssimativa; un comprensibile e necessario tentativo di "concretizzare" il nemico (magari facendolo incarnare in uno stato, o collegandolo a potenze considerate nemiche, fu il succo del tentativo "neocon") può portare a sbagliare mira, peso della reazione, azioni seguenti, e via così dicendo.

Ieri non c'è stato un nuovo 11 settembre. Sono state uccise 12 persone. Una tragedia infinita, perché infinita è ogni persona, ma limitata nei numeri. L'attacco simbolico è stato gravissimo, naturalmente, ma oggi lavoriamo e viviamo abbastanza normalmente. Sono stati correttamente attivati tutti i "sensori", e alzati i livelli di allarme; ma - per ora, e spero di non essere smentito - possiamo camminare abbastanza tranquillamente sulle nostre strade. Speriamo continui così. Ma se deve essere diverso, deve esserlo solo se strettamente necessarioe nella misura strettamente indispensabile. Per terroristi sparsi, almeno tali sembrano fino ad ora, non vale la pena - ed è totalmente inutile - attivare troppe difese; rischieremmo di soffocare senza guadagnarci nulla.

Soprattutto, non possiamo far decidere ai terroristi (quanti e quali che siano) come dobbiamo vivere la nostra vita, i nostri piaceri e i nostri affanni quotidiani. Certo, dobbiamo aver presente che non tutto è difendibile, che non tutto è prevedibile (troppo facile dire oggi che bisognava proteggere meglio la sede di quel giornale...). Dobbiamo essere duttili: forti ed elastici al tempo stesso, come diceva la scrittrice israeliana che ho richiamato all'inizio.

Pochi giorni dopo l'11 settembre, Tommaso Padoa Schioppa scrisse un articolo molto bello sul Corriere della Sera in cui invitava ad evitare "l'insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.". Ve lo ripropongo qui sotto, perché mi pare che in questo difficile equilibrio ci sia la traccia giusta di come affrontare questa sfida, e forse tante altre.

"Non abbiate paura", disse un Papa anni fa, affrontando un gigante politico che terrorizzava il suo popolo. Ebbe ragione.

Non dobbiamo avere paura neanche oggi. E avremo ragione.

Francesco Maria Mariotti

Parte della risposta ai tragici fatti dell' 11 settembre dev' essere un intrepido e assorto ritorno al quotidiano operare, alla fiducia a scuola e in Borsa, alle normali conversazioni in casa e in ufficio. La capacità di liberarsi dalla minaccia del terrore che ha improvvisamente colpito il mondo dipenderà anche da come ciascuno, nel mondo, vivrà questo ritorno. Ciascuno nel mondo, perché miliardi di persone di tutte le età hanno visto le immagini del disastro, centinaia di milioni conoscono New York e ne hanno visitato le torri. In quello stesso martedì di settembre, nei minuti e nelle ore che seguirono l' attacco, in innumerevoli sedi pubbliche e private, dentro e fuori gli Stati Uniti, ci si riunì sgomenti, non sapendo che fare. Si decise che «il lavoro continua», business as usual. Per i più non era insensibilità, ma bisogno di una norma sicura, dunque di normalità. Lavoro, abitudini, normalità hanno subìto l' urto di eventi orridi e discriminanti che ognuno ricorderà per sempre. Sappiamo, stiamo poco per volta capendo, che quegli eventi porteranno cambiamenti anche nel vivere quotidiano. Né il prevalere del terrore né la sua sconfitta lascerebbero immutate le nostre abitudini. Tanto meno le lascerà immutate la lotta contro il terrore, di cui ora non conosciamo né i tempi né l' esito. Del vivere quotidiano, della normalità, l' attacco terroristico è stato ferita e tradimento. Normale era la giornata di lavoro cui si accingevano le migliaia di persone che sono morte. Normale era la vita in cui i terroristi si erano mimetizzati per anni in attesa del giorno dell' attacco. «Normali», si disse mesi fa, erano Omar ed Erika prima e dopo l' uccisione di mamma e fratello. Il quotidiano è fatto di abitudini lente a cambiare. In ciò sta il suo valore, perché in-corpora saggezza e civiltà sedimentate a lungo, entrate nelle fibre di ciascuno. Le abitudini sono e danno forza. Ai bambini danno fiducia; agli adulti libertà. Il lavoro è necessità e fatica; ma è anche sicurezza e riflessione. Nel ritorno al quotidiano vi sono consolazione e sostegno, ma anche difesa e riaffermazione della saggezza e della civiltà. Il ritorno al quotidiano diventerà una risposta intrepida se sapremo evitare l' insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.(...)

Un gradino sopra si muovono cellule strutturate e con ramificazioni. Sono però categorie fluide, a volte si mescolano: possiamo avere due individui senza rapporti gerarchici con un movimento ma che sono disciplinati e con alle spalle un training. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a episodi diversi: a Bruxelles un militante ha impiegato un AK nell’assalto al museo ebraico, a Ottawa il terrorista era dotato di un fucile da caccia, stessa cosa nella presa d’ostaggi a Sydney e a New York un uomo affascinato dall’Isis si è lanciato con un’ascia contro la polizia. Ora c’è stata la sparatoria di Parigi, di livello superiore.

Quando nelle prossime ore molti di noi potrebbero essere tentati dall'intolleranza verso i “barbuti col caftano” che sempre di più incontriamo nelle nostre città, cerchiamo di ricordarci che anche il coraggioso Selvedan Baganovic è un “barbuto col caftano”, che però predica un Islam tollerante e pacifico. E chiediamoci quanti del miliardo e trecento milioni di musulmani che popolano il pianeta si sentono rappresentati dai sicari di Parigi o dai tagliagole di al Baghdadi o, meglio ancora, proviamo a chiederlo direttamente a loro: e probabilmente scopriremo che, nella lotta contro il terrorismo islamista, proprio la gran parte dei musulmani sono i nostri migliori e naturali alleati.
di Vittorio Emanuele Parsi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/VRtlEL

Il risultato della strage sarà rendere più o meno frequenti gli episodi di autocensura? Il 7 gennaio è stata data una dimostrazione pratica di quello che può accadere a scherzare sulla religione. È possibile che con un moto d’orgoglio l’opinione pubblica mondiale si scuota di dosso le sue paure e decida di non accettare più limiti alla libertà di espressione. Ma è altrettanto possibile il contrario. Se per me è facile ignorare il timore per la mia incolumità, per altri colleghi – molto più in prima linea di me – non è così semplice. Il mondo non è fatto di eroi, ma di persone normali, con le loro debolezze ed incertezze che forse oggi più che ieri decideranno che è meglio non rischiare la vita per un disegno o per una critica corrosiva. A quel punto non ci vorrà molto (come ha notato Giovanni Fontana, sono bastate poche ore in alcuni casi) perché una grossa fetta di coloro che oggi scrivono #JeSuisCharlie comincino a chiedersi perché quello che non si può fare nei confronti dell’islam lo si può fare nei confronti del cristianesimo. Già oggi esistono molti musulmani e cristiani che condannano la violenza, ma allo stesso tempo sostengono la necessità di mettere limiti alla critica della religione. Non è impossibile immaginare in un futuro prossimo un politico che proponga di introdurre delle leggi contro il vilipendio della religione trovandosi così tra le mani tanto i voti degli estremisti islamici quanto di quelli cristiani. Sarebbe un mondo meno libero, che poi alla fine è esattamente quello che vogliono i terroristi.

martedì 20 maggio 2014

Il Disastro Della Libia, La Non-Politica Italiana, Le Poche Cose da Fare

Il disastro della Libia - che questo minuscolo blog aveva segnalato come probabile fin dai tempi della retorica della "guerra di liberazione" - è ora davanti a noi. 

Di fronte a quanto sta succedendo dobbiamo porre alcune questioni, contingenti e di lungo periodo:

1. la classe dirigente italiana - non solo quella politica, ma in questo caso soprattutto quella politica - sembra totalmente incapace di opporre una qualsiasi "resistenza" alle campagne mediatiche che di volta in volta sorgono e muoiono nel volgere di pochissimo tempo; campagne brevi, forse anche non "intenzionali", ma che sono in grado di provocare gravissime distorsioni negli scenari politici; questa "fragilità culturale" del sistema italiano rischia di essere una tara insopportabile per qualsiasi strategia politica ed economica che voglia vedere una rinascita di questo Paese.

2. La distinzione destra-sinistra, o quella riformisti-conservatori vale poco di fronte a discorsi di strategia nazionale; in questo senso possiamo dismettere tranquillamente molti dei dibattiti che abbiamo fatto in questi anni, e anche negli ultimi tempi. Se si perdono di vista i "fondamentali", se sfuggono le "occasioni di crescita", discutere del numero di contratti da stipulare in un anno serve a ben poco.

3. Sembra fare eccezione allo sconsolante panorama italiano, l'ex premier Romano Prodi, che ha almeno la libertà e la spregiudicatezza di vedere la centralità della questione energetica, messa a rischio da questa situazione come da quella ucraina (vd. il post dedicato alla proposta)

4. Per arrivare al caso concreto Libia: purtroppo il tempo è poco e le cose da fare non sono molte; da quel che si percepisce in maniera confusa forse è impossibile "guidare" le cose, conviene "accompagnarle", tentando di sfruttare al meglio i cambiamenti in atto, contrattando duramente con i nostri alleati. Provo ad azzardare alcune questioni, anche se non ho competenze strategiche:

4.1. Si tenti di capire se nell'azione paramilitare ora in atto c'è l'appoggio degli americani e dei francesi, e ci si accordi con loro sul cosa fare; sia detto con poca ipocrisia: meglio un golpe ben fatto che il disordine, c'è poco da discutere di fronte all'ipotesi di una guerra civile, che ormai è già in corso. 

4.2. Per essere più chiari, qualsiasi scelta deve avere per noi un "ritorno"; se un governo non-fondamentalista - anche se di stampo militare - può portare una stabilità a noi utile, allora si appoggi con tutte le forze questa sorta di "colpo di stato".

4.3. La scelta deve essere chiara e condivisa dalle forze occidentali che operano nell'area; gli Stati Uniti ci chiesero di operare per la sicurezza di quel Paese e noi dobbiamo imporre che qualsiasi passaggio venga condiviso. L'Afghanistan non è per noi vitale come il Mediterraneo: anche se sarebbe giusto teoricamente continuare ancora la missione a Kabul, facciamo capire quali sono le nostre priorità.

4.4. Da parte della Francia dobbiamo essere in grado di avere lealtà e cooperazione: la possibile "bomba migratoria" che potrebbe nascere da un peggioramento della situazione non può che riguardare anche loro: è il caso di dirlo apertamente; se non ci aiutano in modo chiaro, la situazione sfuggirà di mano e il "disastro" colpirà anche loro.

4.5. Si ponga il problema libico anche in sede ONU, e con le nuove superpotenze come la Cina, che ha fortissimi interessi in Africa: se la situazione non si risolve in breve tempo, avremo - lo abbiamo già, in realtà - uno stato fallito. Deve essere chiaro che tutta la comunità internazionale deve aiutarci a garantire una qualche forma di stabilità, anche nel caso si dovesse accettare una sorta di spartizione di fatto della Libia. Se ci deve essere una qualche forma di "amministrazione controllata" di questi territori, noi dobbiamo poter essere protagonisti di qualsiasi passaggio.

4.6. Abbiamo portato in Italia personale militare libico per addestramento; a quale parte dell'esercito appartenevano? Siamo in grado di capire con chi abbiamo condiviso la nostra esperienza militare? abbiamo mantenuto contatti? questi contatti possono aiutarci?

4.7. Massima allerta sul fronte delle investigazioni, anche interne: quali sono i rischi effettivi di immigrazione di fanatici con intenzioni violente? Anche questa minaccia va condivisa con tutti gli alleati, chiarendo che se non ci danno una mano a gestire la situazione, i rischi non saranno solo dell'Italia.

Il tempo è pochissimo, e queste sembrano le poche cose da fare. E forse non solo queste, visto che è sempre necessario giocare su più tavoli. In questo momento è necessario essere realisti e spregiudicati.

Francesco Maria Mariotti

In Libia le forze armate comandate dal generale deposto Khalifa Hiftar hanno dichiarato guerra al terrorismo jihadista mettendo in dubbio l'autorità del governo di Tripoli. Venerdì scorso, il generale 71enne ha lanciato un'offensiva bombardando alcuni quartieri della città orientale di Bengasi. A Tripoli, i gruppi armati messi insieme dal "generale", hanno assaltato il parlamento. La sede dell'assemblea nazionale è stata evacuata dopo essere stata circondata da diversi veicoli corazzati entrati nella capitale dalla strada che la collega all'aeroporto di Tripoli. 



La volontà del generale Hiftar è quella di riuscire laddove il governo centrale di Tripoli ha fallito sin dal rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi: ristabilire la sicurezza nel paese riunendo in un unico esercito le diverse milizie che detengono il controllo della Libia sul terreno. L'offensiva dell'esercito parallelo di Hiftar ha generato un'escalation nei combattimenti contro le brigate degli integralisti islamici con un'intensità di sparatorie e bombardamenti che ricorda quella del 2011. Il governo libico, dopo il weekend, ha imposto una no-fly zone sui cieli di Bengasi, dove si contano al momento 70 morti e circa 140 feriti in seguito all'offensiva militare.


Dopo l'occupazione del parlamento, il generale Mokhtar Farnana, membro delle forze di Hiftar, si è rivolto alla televisione nazionale annunciando la formazione di un'assemblea costituente composta da 60 membri che dovrebbe prendere il posto dell'attuale parlamento. Rivendicando l'assalto, Farnana ha affermato di avere l'appoggio del popolo libico e di aver dichiarato guerra al terrorismo islamico.


Hifter è un personaggio un po' misterioso: schierato contro Gheddafi durante la rivolta di tre anni fa, originariamente vicino agli islamisti, fondatore di un partitino che non ha ottenuto neppure un seggio al Parlamento, se ne è andato in esilio volontario in America dove- secondo voci non confermate - avrebbe preso domicilio a pochi chilometri dalla sede della Cia a Langley. Rientrato in Libia all'inizio di quest'anno, è già stato coinvolto in una rivolta contro il potere costituito in febbraio, risoltasi in nulla. Adesso ci sta riprovando, assicurando di non cercare il potere ma di puntare solo a riportare l'ordine in un Paese in cui i poteri del governo si fermano a pochi metri dal Palazzo e, a causa del caos provocato dall'esistenza di 170 diverse milizie l'una contro l'altra armate, la produzione petrolifera, unica fonte di entrate, è precipitata da 1,5 milioni a 250-300 mila barili l'anno. In questo quadro, appare assai significativo che il generale, rifiutando l'etichetta di golpista, abbia chiesto l'aiuto internazionale per «rimuovere il cancro del terrorismo dalla Libia».


Potrebbe diventare, Haftar, l'uomo forte che riprende il controllo di una situazione sfuggita di mano a tutti, come dimostrano non solo il crollo dell'estrazione degli idrocarburi, la fuga delle imprese straniere (negli ultimi mesi ci sono stati anche i rapimenti di tre lavoratori italiani) ma anche le incontrollate partenze di massa dai suoi porti di profughi africani diretti in Italia? Nelle cancellerie occidentali, e nelle grandi compagnie petrolifere, molti sicuramente se lo augurano, anche perché in seguito alla crisi ucraina le forniture di gas e di greggio dalla Libia sono tornate ad essere più importanti.



Il nome di Khalifa Haftar non è nuovo nella storia recente della Libia. Daniele Raineri, giornalista italiano del Foglio che si occupa soprattutto di paesi arabi e Medio Oriente, aveva raccontato di Haftar già lo scorso febbraio, dopo che l’ex generale aveva fatto circolare un messaggio video in uniforme in cui chiedeva alle forze armate di «salvare» il paese. In quell’occasione, Raineri aveva raccontato la storia di Haftar:

"Nel 1983 era il comandante delle truppe di terra libiche quando Muammar Gheddafi ordinò l’invasione del confinante Ciad, poi disertò e andò a vivere in America (Virginia), per tornare in Libia quando scoppiò la rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a cercare un ruolo di primo piano. Nel luglio dell’anno scorso il generale della rivoluzione contro Gheddafi (secondo lui) oppure ora semplice colonnello (secondo altre fonti) ha fatto circolare un piano in dieci punti per tirare fuori il paese dallo stallo politico. Due punti importanti: uno è il congelamento del Congresso nazionale e l’instaurazione di un governo provvisorio, pronto a dichiarare lo stato d’emergenza per – è l’altro punto – combattere contro le milizie e sbarazzarsi finalmente di loro. Il proposito di combattere contro le milizie ribelli che a più di due anni dalla morte di Gheddafi non si sono ancora rassegnate al dopoguerra, non si fanno domare e rendono la Libia uno stato spezzettato in tante signorie guardate da jeep con mitragliatrici è l’unico punto che consegna a Haftar tanti consensi fra i libici, stanchi dell’instabilità."


lunedì 5 maggio 2014

E le ragazze rapite in Nigeria? (da ilPost)

Nella notte tra lunedì 14 e martedì 15 aprile decine di militanti armati hanno fatto irruzione in un dormitorio di Chibok, nel nord-est della Nigeria, catturando e facendo sparire centinaia di ragazze tra i 15 e i 18 anni. I sequestratori sono arrivati sul posto con dei camion e si sono spacciati per soldati, dicendo di dover spostare le ragazze per motivi di sicurezza. Poi hanno ucciso un soldato e un agente di polizia, bruciato decine di case, rubato alcune scorte alimentari e caricato le donne sui camion scoperti. Alcune di loro sono riuscite a saltare dai veicoli in corsa e a tornare a casa, altre sono scappate nei giorni seguenti: in totale, una quarantina di loro è riuscita a salvarsi. Le ragazze ancora in mano ai sequestratori dovrebbero essere circa 190.
Si pensa che le ragazze siano tenute prigioniere nella foresta di Sambisa, nascondiglio dei militanti di Boko Haram, gruppo estremista islamico molto violento responsabile di tantissimi attentati in Nigeria. (...)

Boko Haram significa “L’educazione occidentale è proibita” (anche se il significato reale di “boko” è “falso”). Il vero nome del gruppo è Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad, che in arabo sta per “Popolo impegnato nella diffusione degli insegnamenti del Profeta e della Guerra santa”. L’organizzazione è stata fondata nel 2002 dal leader Ustaz Mohammed Yusuf nello stato del Borno, dove l’islamismo è molto radicato sin dalla presa britannica del Califfato di Sokoto nel 1903, nel nord povero della Nigeria ancora oggi a maggioranza musulmana – a differenza del sud cristiano e più agiato. Ustaz Mohammed Yusuf fu ucciso il 30 luglio 2009 in un carcere di Maiduguri dopo esser stato arrestato dalle forze di sicurezza nigeriane. Secondo la versione ufficiale sarebbe morto in un tentativo di fuga, ma successive indagini hanno smentito questa ricostruzione e diversi agenti sono stati incriminati per omicidio volontario.

Boko Haram ha ucciso almeno 2.300 persone dal 2010, secondo le stime giornalistiche e i rapporti di Amnesty International. Il suo obiettivo principale è l’applicazione della sharia nell’intera Nigeria, dove in realtà già vige dal 1999 in vari stati del nord del paese. L’organizzazione vieta ogni commistione con lo stile di vita occidentale, dalla cultura all’istruzione, fino ai jeans e alle t-shirt. Mohammed Yusuf diceva addirittura che la forma sferica della Terra era un falso assunto così come il darwinismo, perché tutto questo era contrario agli insegnamenti del Corano. Il gruppo esecra ogni interpretazione considerata “deviante” del Corano e infatti, come avvenuto in diversi attentati, non si limita ad attaccare le chiese ma anche moschee “troppo moderne”. Dopo la morte di Yusuf il gruppo si è diviso in tre diverse fazioni (una di queste pare avere profondi legami con al Qaida nel Maghreb islamico) e ha aumentato decisamente la portata dei suoi attacchi, nonostante il governo nigeriano dichiari regolarmente di “avere la situazione sotto controllo”.(...)

Diversi giornali internazionali si sono occupati della vicenda del rapimento delle studentesse. In molti hanno da subito criticato l’atteggiamento e le operazioni del governo nell’affrontare le ricerche. L’inviato della BBC Will Ross a Abuja, per esempio, dice che è davvero «sorprendente» che le ragazze non possano essere trovate dato che ci sono rapporti che testimoniano il loro spostamento, molto lento, in convogli di veicoli. Questo viene dunque interpretato come il segnale che ci sono parti nel nord-est della Nigeria completamente off limits per le forze armate nigeriane.

Charlotte Alter, giornalista del Time, si spinge oltre. Non solo rivolge delle critiche al governo ma anche ai media statunitensi e internazionali in genere, dicendo che hanno in qualche modo consentito al governo di «nascondere tutto sotto il tappeto ignorando la storia per settimane». Negli ultimi tempi i giornalisti e i lettori si sono appassionati alla ricerca del volo MH370, a quella dei superstiti della Sewol naufragata in Corea del Sud, addirittura alla ricerca dei candidati alla presidenza americana per il 2016, ma non a quella delle ragazze scomparse in Nigeria.

lunedì 3 febbraio 2014

Olimpiadi E Terrorismo (da AffarInternazionali.it)

(...) Sochi è blindata. Per la sua sicurezza, Mosca ha speso 2,5 miliardi di euro, i servizi segreti hanno avuto carta bianca su intercettazioni, raccolta dati, fermi, arresti. “ Se volete eliminare qualcuno, uccidetelo”, così il ministro degli Interni ceceno Apti Alaudinov ha esortato i suoi uomini a usare ogni metodo per sventare gli attacchi terroristici.


Tuttavia nel mirino dei terroristi non c’è stata fino ad ora Sochi. Le località più colpite sono state Volgograd, ex Stalingrado, testimone di tre attentati in tre mesi, Pjatigorsk, il Dagestan e Kabardino-Blakaria, scenario di una guerra che uccide circa 700 persone all’anno e che l’International Crisis Group non ha esitato a definire “il più sanguinoso conflitto esistente in Europa”.

Nel silenzio della stampa il Bin Laden russo, Doku Umarov, lancia i suoi appelli alla solidarietà islamica internazionale, facendo leva sull’incredibile caleidoscopio di etnie che abitano quelle terre come ceceni, cabardini, abkhazi, circassi (di cui quest’anno ricorre il 150esimo anniversario della cacciata dal Caucaso e del “genocidio circasso”) e tanti altri.

Tra gli irriducibili di Umarov, quello che colpisce è il numero di donne, le cosiddette vedove nere o shahidki, donne martire. Sono per la maggior parte giovani e acculturate che hanno visto morire nella guerriglia padri, fratelli amici e per le quali il terrorismo a volte è un modo per calmare la sete di vendetta, altre volte è invece l’unica strada per riguadagnare il proprio onore dopo uno stupro, in una società chiusa e conservatrice come quella cecena. (...)

La questione è tuttavia più complicata e lega la Russia agli affari economici di Arabia Saudita e Qatar. Questi ultimi paesi avevano precedentemente offerto a Damasco non solo l’equivalente di tre anni di bilancio, ma anche la propria disponibilità a domare la rivolta se Assad si fosse allontanato dall’Iran, arci-nemico dei sunniti. Così non è stato e pertanto il principe Bandare Bin Sultan, capo dei servizi sauditi, si è visto con il presidente russo lo scorso luglio ed è tornato a incontrarlo il mese scorso.

Vladimir Putin avrebbe chiesto ai sauditi un sostanziale via libera sui loro gasdotti e un aiuto nel controllare i terroristi ceceni che minacciano i giochi. In cambio, il principe avrebbe domandato la cessazione del sostegno russo al regime di Assad e il rinvio della conferenza di pace sulla Siria, Ginevra 2. (...)


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venerdì 17 gennaio 2014

Vendere Lingerie A Riyadh (ThePostInternazionale)

Attualmente, in Arabia Saudita vivono più di 27 milioni di persone, di cui il 52 per cento sono donne che vivono sotto tutela. Non possono nemmeno studiare se non hanno il consenso dei “mahrams” (padri, fratelli o parenti uomini che hanno il compito di vigilare sulle donne): la sharia, la legge islamica che ispira la giurisprudenza, impone alle donne la segregazione in casa. Molte famiglie ritengono inopportuna l'emancipazione delle donne e non permettono loro di lavorare. Da quelle parti, la grande paura è quella dell’ “ikhtilat”: la mescolanza dei sessi in pubblico.
Di prassi, la vita delle donne saudite è divisa da quella degli uomini: scuole, cure mediche e persino le file nelle banche sono rigorosamente separate. Il risultato di questa convenzione sociale è l'inettitudine delle donne alle interazioni con gli estranei, soprattutto se uomini.
Così, per avviare il processo di “femminilizzazione” della società saudita, le donne hanno avuto bisogno di frequentare dei corsi per abituarsi ai più semplici contatti. Hanno dovuto apprendere persino come sorridere: sorriso ampio alle donne, discreto agli uomini.(...)
Il processo di “femminilizzazione” della società saudita è partito da una serie di proteste di donne stanche dell'imbarazzo di comprare oggetti così legati alla sfera intima da commessi uomini poco sensibili e a volte scortesi. Così, mentre altrove fiorivano le rivoluzioni arabe, nel giugno 2011 il re Abdullah firmò una legge ad hoc. Da quel momento l'intimo, i trucchi e gli abiti da donna potevano esser venduti solo da commesse donne.
Da subito questo cambiamento è stato giudicato un «crimine» dalla somma autorità religiosa saudita, il Gran Mufti Abdul Aziz Aal ash-Shaikh. Lo scorso settembre, il ministro del lavoro saudita Adel Fakeih ha accusato l'Haia, la polizia religiosa incaricata di vigilare sull'attuazione della sharia, di non rispettare quanto stabilito dalla legge sulla “femminilizzazione”.(...)
(...) Con quanto previsto dal decreto sulla “femminilizzazione”, nonostante le difficoltà, molte donne hanno potuto sentirsi più libere. Anche tra le mura domestiche. Molte hanno raccontato di esser trattate meglio dai mariti e, spesso, durante le litiquotidiane, l'indipendenza economica è stata un'arma che le ha aiutate a rivendicare i propri diritti.

sabato 23 novembre 2013

La frattura che si allarga nell’Islam (laStampa.it)

(...) La realtà è ben diversa, non solo perché – dal Marocco alle Filippine – vediamo una grande varietà di modi di essere musulmani (a seconda della storia di ciascun popolo, delle particolarità culturali, delle appartenenze etniche) ma anche perché esistono, oltre alle differenze, vere e proprie fratture, di cui la più importante è la contrapposizione sunniti-sciiti. 

E’ una contrapposizione che ricorda, nella sua radicalità e ricorrente carica di violenza, quella che è esistita per secoli fra il ramo cattolico e quello protestante della cristianità. Lo scontro fra queste due diverse interpretazioni del messaggio cristiano aveva in origine radici dottrinali, teologiche, anche se ben presto si intrecciò con dimensioni politiche, dinastiche, territoriali. Nel caso dell’Islam, una religione della «ortoprassi» piuttosto che della «ortodossia», la spaccatura fu fin dall’inizio determinata non da divergenze teologiche, ma da una questione di potere: quella della successione a Maometto, che gli sciiti volevano per discendenza familiare e i sunniti secondo i tradizionali meccanismi tribali di selezione dei capi. (...)

mercoledì 6 novembre 2013

Libia - Cosa stiamo facendo?

Come scrivevo qualche giorno fa, in LIbia stiamo facendo lo strofinaccio​; al di là dell'immagine colorita, in realtà si conoscono poco i dettagli del nostro impegno post-bellico. Qualche notiza sembra "sfuggire", senza ufficialità, come viene raccontato in questo articolo de ilFoglio. 

Il patto di riservatezza fra Letta e Obama - si dice nell'articolo - tiene, e forse è bene così. Non c'è da stupirsi né scandalizzarci se non tutti i dettagli vengono raccontati

Ma fra tutto (impossibile) e il "quasi nulla" che sembra segnare questo momento, forse potrebbe esserci una via di mezzo: la possibilità di capire meglio quanto ci costa questo impegno e quali sono le possibili ricadute. 

L'impegno sarà lungo, e sicuramente anche rischioso. Sarebbe importante preparare l'opinione pubblica italiana a tutti gli scenari possibili, per non meravigliarci o spaventarci se lo scenario dovesse avere risvolti critici, e soprattutto allenarci ad avere pazienza, dote indispensabile per una situazione di questo genere.

Francesco Maria Mariotti
Una notizia festosa da Tripoli – sorveglianza elettronica e aerea dei confini libici grazie all’Italia – per ora cade nel silenzio del governo italiano. Mercoledì il primo ministro libico Ali Zeidan annuncia in conferenza stampa che “l’Italia comincerà la sorveglianza aerea ed elettronica dei confini libici. L’area sorvegliata coprirà il tratto tra al Aywanat, vicino alla frontiera con Egitto e Sudan, fino alla congiunzione tra il confine libico e quelli di Algeria e Tunisia”. Domenica la notizia è ripresa dal sito di notizie libiche in lingua inglese Lybia Herald. I giornalisti del sito scrivono che il primo ministro Zeidan non ha dato altri dettagli sulla missione durante la conferenza stampa: quando inizierà, quanto durerà e chi pagherà i costi. Contattano l’ambasciata italiana a Tripoli, che però non aggiunge nulla. (...)
Per ora non ci sono ancora commenti da parte del governo italiano, forse per quel patto di riservatezza stretto tra il premier Enrico Letta e il presidente americano Barack Obama durante l’incontro a Washington di metà ottobre. “Albania e Libia: sono due questioni che l’Amministrazione americana, e non da adesso, considera automaticamente di competenza italiana. A maggior ragione ora che il paese è un disastro, con tutti i problemi aperti dal dopo Gheddafi e senza che Washington abbia alcun interesse a occuparsene – e questo non vale solo per la Libia”, dicono fonti diplomatiche italiane al Foglio che preferiscono restare senza nome. Alla Farnesina rispondono al Foglio di “essere ovviamente felici che la Libia stia lavorando sulla sicurezza dei confini, ma non ci sono altri dettagli da aggiungere a quelli che si conoscono già”. A metà ottobre delegazioni italiane dei ministeri di Difesa e Interno sono andate a Tripoli per parlare con il governo libico prima dell’inizio dell’operazione “Mare nostrum” per il controllo e il soccorso dell’immigrazione clandestina. Il discorso potrebbe essere stato più ampio.

Il primo ministro libico Zeidan ha parlato di sorveglianza elettronica e aerea. Per quanto riguarda la prima, il riferimento è a un contratto da 300 milioni di euro firmato quattro anni fa, il 7 ottobre 2009, tra Selex, società di Finmeccanica, e il governo di Tripoli, come conseguenza del trattato di amicizia stretto nel 2008 tra Italia e Libia. Da allora tutto è cambiato, c’era Gheddafi e adesso c’è un governo fragile – nato da una ribellione aiutata dalla Nato ma poi caduta ostaggio delle sue stesse milizie. La necessità di controllare i confini però resta, e Selex è specializzata in radar e sensori di sorveglianza; è verosimile che siano ancora considerati utili.(...)

giovedì 31 ottobre 2013

Milizie all’assalto del petrolio L’Italia teme la “fine” della Libia (da laStampa.it)

(...) Il governo italiano segue la situazione, e proprio la Libia è stata uno dei principali argomenti di cui hanno parlato Enrico Letta e Barack Obama nel chiuso dell’ultimo, recente incontro alla Casa Bianca: hanno concordato, data la delicatezza della situazione, di non dare «pubblicità» all’argomento, ma qualcosa è filtrato. L’Italia, per gli Stati Uniti, per la comunità internazionale, e per il retaggio di una storica influenza oltre che per la presenza di forti interessi nazionali, è in prima linea nella stabilizzazione della Libia. 

Operazione complessa e che passerà, si è deciso in quell’incontro nella Sala Ovale, per una Conferenza di pacificazione che si terrà a Roma nei primi mesi del 2014 (anche se non è chiaro se prima o dopo le elezioni per l’Assemblea in Libia). Ma Enrico Letta ha chiesto a Obama che l’Italia non sia lasciata sola nel difficile compito: quella Conferenza dovrebbe tenersi sotto l’egida della comunità internazionale, attraverso l’Onu. 
È l’unica via possibile, tentando di portare a uno stesso tavolo, in territorio amico, tutti i rappresentanti delle varie fazioni: tuareg, berberi, islamisti, divisi (e moltiplicati) per tribù e per le tre principali regioni, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.  

Uno degli ostacoli, è proprio nell’attuale premier provvisorio Ali Zidan: un governo troppo fragile per controllare il Paese, e fragile al punto che lo stesso premier è stato oggetto di un sequestro-lampo poche settimane orsono, e indebolito anche dall’esser diviso in due fazioni: i liberal-tecnocrati (come lo stesso Zidan) e gli islamisti della locale Fratellanza musulmana. Una Conferenza, quella di Roma che dovrà rovesciare i principi di quella precedente, di Parigi, che puntò tutto su «institution building» e giustizia: non ci si era accorti, evidentemente, che prima al Paese occorre un patto sociale e politico. Che fermi, anche, la possibile tripartizione del Paese, visto che la Cirenaica mira ad un’autonomia «federalista». (...)

http://www.lastampa.it/2013/10/31/esteri/milizie-allassalto-del-petrolio-litalia-teme-la-fine-della-libia-ejS9atsi3bM8VJNDqSst9K/pagina.html

domenica 13 ottobre 2013

Caos Libico: Il Manico Rotto E Lo Strofinaccio

"Quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro altrettanto comodo e pratico e comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio" (W.Churchill, febbraio 1944)
A volte il pensiero politico non deve fare sforzi di profondità; la frase di Churchill - se non vado errato pronunciata con riferimento al problema se mantenere o meno la monarchia in Italia - dice tutto di quella che è la regola aurea della politica estera: non deve prevalere la "giustizia" a tutti costi, ma l'ordine e la stabilità il più possibile. Certo, con questa motivazione, si richia di giustificare l'ingiustificabile, ma è un dato di fatto che il pericolo più grave, il danno più pesante, per la politica non è una dittatura feroce, ma la guerra civile, l'implosione di una collettività
In Libia - lo si è già detto troppe volte, da queste e da altre parti - si è sottovalutata la complessità di una scenario che non poteva che peggiorare, tolto Gheddafi. Quindi nessuna meraviglia su quanto successo nei giorni scorsi, con il sequestro-lampo del primo ministro. 
Piuttosto, è il caso di ricordare che l'Italia - oltre che per gli ovvi problemi di vicinanza e di immigrazione - deve preoccuparsi di questa vicenda perché è chiamata a curare in primissima linea il disarmo delle fazioni libiche: per continuare a usare i termini di Churchill, siamo chiamati in un certo senso a essere lo "strofinaccio" della situazione. Ancora troppo poco si sa dei dettagli di questo impegno, ma certo sarebbe il caso di valutarne pienamente costi e benefici, e capire quanto potrebbe durare. 
La speranza è che comunque da questo immenso male possa nascerne del bene, anche per noi: chissà, magari gli "accenni nazionali" che alcune milizie stanno utilizzando per giustificare il loro operato - vd. articolo de Linkiesta - può essere un seme di coesione da sfruttare per cercare di ricostruire una comunità statuale. E forse il nostro impegno - se saremo capaci di sfruttarlo al meglio - potrà diventare un punto importante di forza e di nuova penetrazione del nostro paese nel continente africano. Ne avremmo di che guadagnarci. 
Un pensiero a tutte le donne e tutti gli uomini che già ora - segretamente o pubblicamente  - stanno operando in quel paese, per il nostro interesse.
Francesco Maria Mariotti
Non si può negare che le milizie abbiano giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro Muammar Gheddafi. Queste brigate sono state protagoniste della presa di Tripoli nel 2011 e mantengono ancora un vasto controllo territoriale. Ufficialmente la Libia ha un corpo di polizia nazionale e un esercito. Ciò nonostante, a seguito della disintegrazione dell’apparato di sicurezza messo in piedi dal colonnello, le brigate armate sono emerse come unico sistema di polizia e di esercito funzionante all’interno del paese. In alcune zone del Paese le qataib pattugliano le strade, arrestano (e a volte detengono) presunti criminali, organizzano posti di blocco per il controllo dei documenti, e spesso dirigono persino il traffico. Un ufficiale di polizia da noi intervistato nel corso della nostra ultima visita in Libia ci rivelò di non lavorare da mesi, di avere un’uniforme piegata nel cassetto: le milizie erano ormai la nuova polizia.
Le brigate costituiscono un panorama differenziato e complesso. Alcune qataib professano un’agenda religiosa e auspicano una stretta applicazione della legge islamica nella Libia del futuro, mentre altre si presentano solo come corpi di protezione nazionale senza connotazioni politiche o religiose. Alcune milizie hanno giurato fedeltà al governo libico e si descrivono come una «polizia provvisoria», in attesa che il Paese possa tornare ad avere delle forze dell’ordine regolari e operative. Le milizie hanno una gerarchia interna che spesso rispecchia quella dell’esercito regolare, ma nella maggior parte dei casi le brigate non hanno centri di addestramento o dinamiche di appartenenza ben precise. Molte qataib appaiono come organizzazioni informali. Le loro sedi sembrano spesso dei «centri sociali» armati: baracche o case dove i ragazzi vanno a passare il tempo. Ciò nonostante le recenti vicende di Bengasi testimoniano la pericolosità di alcune di queste organizzazioni. Il governo libico sta valutando diverse soluzioni al problema delle milizie. Tra le proposte un tentativo di regolarizzare alcune delle brigate offrendo addestramento per coloro che vogliono unirsi alla polizia o all’esercito.

Ma in tutti questi paesi non abbiamo assistito a rivoluzioni, cioè a un avvicendamento, traumatico, ma per certi versi fisiologico, dei detentori del potere, in forme modellate da una maturazione di principi democratici: quanto è avvenuto, a mio parere, si può più semplicemente ricondurre alla categoria della rivolta, come quella di Masaniello, che si esaurisce in una fiammata di indignazione popolare per poi ricadere in forme già note di vario dispotismo, così come è accaduto e sta accadendo in Egitto, dove i Fratelli Musulmani, che avevano con grande abilità raccolto i frutti della cacciata di Mubarak, hanno dato palese evidenza della loro incapacità di governo e del loro concetto strumentale di democrazia, facendo ripiombare il paese in una situazione pre rivolta, con il problema addizionale che gli orologi della storia non si possono mai riportare indietro e che ai problemi del passato si sommano le instabilità del presente.
Stamane è stata diffusa una foto del premier in maniche di camicia sotto custodia di due uomini in borghese, esponenti con ogni probabilità di qualche milizia. Vedremo se nelle prossime ore seguiranno altri eventi che potrebbero portare a una sorta di golpe o se si tratta di un'azione intimidatoria di breve durata. Il Governo libico aveva formalmente protestato con Washington, ma l'opinione della maggioranza del Parlamento e delle fazioni armate è che Zeidan sapesse del sequestro Al Libbi e non avesse fatto nulla per impedire l'operazione
di Alberto Negri con un'analisi di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/TrFJD

Questo era il fronte politico, a cui tuttavia si pensava fosse possibile porre rimedio distribuendo la grande ricchezza energetica di cui dispone la Libia, il paese che vanta le maggiori riserve di greggio dell'Africa. Ma da alcuni mesi anche l'industria petrolifera è stata inghiottita dal caos. Travolta da una valanga di scioperi che ha investito la Cirenaica, dove si trovano i maggiori giacimenti di greggio e gas, la produzione petrolifera ha accusato un crollo verticale: in pochi mesi è scesa da punte di 1,5 milioni di barili al giorno (mbg), vale a dire ai livelli precedenti la rivoluzione, a meno di 150mila barili. Da tre settimane la produzione si è ripresa, ma non ha ancora raggiunto il 50% dei livelli di inizio anno. Una pessima notizia per l'Italia, che acquista dalla Libia quasi un quarto delle sue importazioni di greggio. Alla lunga il danno economico per le compagnie energetiche internazionali è ingente.
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8huc2​

Meno evidenti sono le infiltrazioni dei radicali islamici e delle formazioni terroristiche legate ad Al Qaeda nella galassia di queste milizie, alcune delle quali sono entrate addirittura a far parte delle formazioni regolari e delle forze di sicurezza governative. Alcune truppe della Cirenaica (per e-sempio la milizia dei “martiri di Derna”) sono state inglobate nell’esercito libico senza che abban-donassero una visione islamista della società. Il network di Al Qaeda è stato più attento degli occi-dentali e delle forze della Nato: ha atteso il momento giusto, dettato dalle fragili condizioni di sicu-rezza e ora sta investendo sul paese con lo scopo di trasformare in un nuovo Af-Pak la vasta area cha va dalla Cirenaica al Fezzan sino al Sahel. Il governo centrale è accusato dai jihadisti locali e internazionali di aver tradito la rivoluzione e di aver svenduto il paese all’occidente. Alcuni video-proclami degli ultimi anni di Al-Zawahiri e Abu Yahya al Libi già facevano precludere all’interesse per la Libia, soprattutto, come preventivato e purtroppo verificatosi, all’impegno militare occidentale non fosse corrisposto un altrettanto impegno civile e politico nella ricostruzione del paese.
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Il problema è semplice: la ribellione contro Gheddafi fu condotta da una miriade di milizie e gruppi armati, rispecchiante il complesso mosaico tribale della Libia. Collassata laJamahiriyya, ossia il regime costruito da Gheddafi (e non a caso basato su forti autonomie locali), le nuove autorità libiche non sono riuscite a riportare sotto il proprio controllo questi numerosi gruppi, rimasti in vita e in armi. I piani per il reinserimento dei miliziani, che prevedono tra l'altro il loro impiego al servizio dello Stato, non si sono rivelati un successo, come dimostrato dal caso Zeidan, soprattutto perché non si è stati in grado di sciogliere i gruppi pre-esistenti.
Di fatto, la Libia pullula ora di tante "compagnie di ventura", costituite per lo più su base tribale, che agiscono per conto proprio o vendono i propri servizi a enti e uffici dello Stato. I sequestratori del Primo ministro sono alle dipendenze del ministero dell'Interno per garantire la sicurezza a Tripoli.
Tutto ciò impone una riflessione su come le grandi potenze gestirono la crisi libica nel 2011.

sabato 21 settembre 2013

Operazioni militari e farina di Putin. E’ il piatto del Cairo (da ilFoglio)

La giunta militare in Egitto è impegnata a fondo su due priorità: la guerra aperta all’opposizione musulmana e le importazioni vitali di farina. Ieri mattina le forze di sicurezza sono entrate a Kerdasah, area periferica del Cairo, per un’operazione contro gli islamisti. Nella topografia sterminata della capitale Kerdasah è insignificante, è soltanto un angolo povero della zona di Giza, ma nella lotta tra il nuovo governo militare retto dal generale Abdel Fattah al Sisi e i rivoltosi decisi a vendicare la soppressione – politica e fisica – dei Fratelli musulmani ha un significato speciale. Il 14 agosto, mentre al Cairo le forze di sicurezza irrompevano nei sit-in dei sostenitori dell’ex presidente nominato dalla Fratellanza, Mohammed Morsi, facendo centinaia di morti, un gruppo numeroso di abitanti di Kerdasah attaccò per rappresaglia la stazione di polizia locale. Gli islamisti avevano mitragliatrici e lanciarazzi e in poche ore costrinsero i poliziotti a uscire dall’edificio in fiamme e li trucidarono, spogliandone alcuni, trascinando altri sull’asfalto legati con corde alle macchine (di quel giorno restano immagini girate con i telefonini in mezzo alla folla di aggressori). Dopo Delga, la piccola città a sud della capitale che già da luglio era fuori dal controllo della polizia ed è stata occupata la settimana scorsa, Kerdasah era il secondo obiettivo naturale della campagna delle forze di sicurezza per sfidare gli islamisti egiziani dove sono più forti.(...)


Ci sono molti elementi che fanno credere che questa rivolta sarà peggio di quella degli anni Novanta, quando militari e islamisti si combattevano a colpi di attentati e ondate di repressione; per esempio la vicinanza con la Libia diventata dopo Gheddafi un grande mercato clandestino di armi. 
Secondo il Wall Street Journal, il governo dei militari da quando si è insediato a luglio è concentrato sul problema delle importazioni di farina. L’Egitto è il primo importatore di farina al mondo, e su questo dato precario si regge una popolazione di 80 milioni di persone che alla politica chiede soltanto e a stragrande maggioranza – scrive ancora Reem Abdellatif per il Wsj – “pane a un prezzo minore”. (...)
 

mercoledì 11 settembre 2013

11 settembre (1973, 2001, 2012)


11 settembre 1973: golpe in Cile

Alle sette del mattino dell’11 settembre alcune navi della Marina militare cilena occuparono il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico. L’ammiraglio Raúl Montero Cornejo, comandante della Marina e fedele al presidente Allende, venne imprigionato e sostituito da José Toribio Merino Castro, uno degli ideatori del colpo di stato. Il Prefetto della Provincia di Valparaíso informò subito delle manovre della Marina il presidente Allende, che diede ordine alla scorta, il Gap (Gruppo di Amici Personali), di lasciare la sua residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo presidenziale, La Moneda, nella capitale Santiago. Erano circa le otto e a Santiago le forze aeree e i carri armati dell’esercito avevano già condotto la cosiddetta “Operazione silenzio”: chiudere e bombardare le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio e tv. L’unica che quel giorno riuscì a non interrompere le trasmissioni (nonostante il bombardamento) fu la radio Magallanes del Partito comunista cileno da cui, poco dopo, Allende avrebbe parlato alla nazione per l’ultima volta.


11 settembre 2001: Attacco alle Torri gemelle e al Pentagono

L'attacco al Pentagono è uno degli aspetti dell'11/9 che maggiormente ha stimolato la fantasia dei complottisti. Dapprima hanno sostenuto che l'edificio fosse stato colpito da un missile o da un caccia;  negli ultimi anni alcuni hanno cambiato parere e ora sostengono che un aereo di linea abbia effettivamente colpito il Pentagono ma percorrendo una rotta diversa rispetto a quella comunemente accettata. Tralasciando la disinvoltura con cui i complottisti cambiano parere, allo scopo di confermare nuovamente che le versioni complottiste sono solo frutto di menti troppi fervide Undicisettembre ha raccolto la testimonianza diretta di Steven Mondul, che al tempo degli attacchi ricopriva il ruolo di State Emergency Manager (responsabile statale per le emergenze) per il Virginia Department of Transportation (Dipartimento dei Trasporti della Virginia) e che ci ha fornito una nuova smentita di queste assurde teorie.

Ringraziamo Steven Mondul (citato con il suo permesso) per la sua cortesia e disponibilità.


11 settembre 2012: Chris Stevens muore in un attentato a Bengasi

Era il Primo maggio. E quello è stato il giorno in cui ho visto per l'ultima volta Chris Stevens, un diplomatico esperto e un amico. Abbiamo parlato a lungo della sua nomina ad ambasciatore in Libia, Paese che conosceva e amava. E con il suo stile per nulla formale, da californiano vero, aveva toccato un tema rimasto un po' sotto traccia ma sentito. Quello dell'infiltrazione dei militanti islamisti. «Dicono che arrivino anche dall'estero», aveva affermato. Non era la violazione di un segreto bensì la conferma di notizie pubbliche che rimbalzavano dal Nord Africa. Ma Chris Stevens, pur consapevole dei rischi, non sembrava preoccupato più di tanto. Era abituato ai posti difficili, sapeva cosa fosse il Medio Oriente, conosceva la terribile favola della rana e dello scorpione. Quella dove quest'ultimo uccide la prima dopo che lo ha aiutato ad attraversare il fiume.(...)