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domenica 19 maggio 2019

Primo Ministro Al-Thani: “Il tempo per i dittatori è passato, Haftar sta unificando il Paese” (SpecialeLibia, Vanessa Tomassini)

Ovviamente una intervista del genere va letta con prudenza, comprendendola nella complessità dello scenario libico; ma appare comunque interessante; al di là dei messaggi inviati all'Italia, interessante l'accenno al figlio di Gheddafi, che forse potrebbe essere il terzo nome che risolverà la dialettica Sarraj - Haftar che oggi rischia di portare a un conflitto civile conclamato, e pericoloso

FMM

"(...) Media riconducibili ai fratelli musulmani hanno innescato molte paure nei cittadini di Tripoli, parlando di offensiva del maresciallo Haftar e del pericolo di una nuova dittatura. C’è una dittatura qui nell’est del Paese?
“Il tempo per i dittatori è passato e chiunque voglia diventare il presidente della Libia dovrà passare attraverso l’approvazione dei libici. Nessuno salirà al potere senza passare dalle elezioni. Il feldmaresciallo Khalifa Haftar ora sta lavorando per unificare la Libia, dopo di che chi guiderà il paese lo stabilirà le elezioni. Chiunque sia, anche se i libici sceglieranno il figlio di Gheddafi attraverso il voto sarà il benvenuto [grassetto mio, FMM]. Questa è la democrazia”. 
-Che rapporti ha con il Libyan National Army? Il feldmaresciallo Khalifa Haftar riconosce l’autorità del Suo Governo?
“Certamente le relazioni sono buone, perché il maresciallo Khalifa Haftar faceva parte dell’esercito e lavoravamo nello stesso posto. Conosco il maresciallo dal 1996. Nello stesso periodo in cui Haftar era un alto ufficiale io ero ad un livello più basso. Il Governo ad interim ha fatto un grande sforzo per ricostruire un esercito, non ci sono altre entrate destinate alle forze armate. Dal 2014 il nostro Governo ha speso molto per costituire un esercito e pagare i salari dei soldati. Tutto il supporto arriva dal Governo ad interim. Anche il ministro della Difesa, a cui risponde il Libyan National Army, fa parte del nostro Governo”.
-Quindi il maresciallo Khalifa Haftar prima di attaccare Tripoli si è consultato con voi?
“Sì, si è consultato con me e questo non è un attacco, ma un’operazione per unificare il paese. Ognuno descrive questa operazione come vuole, ma noi non stiamo entrando a Tripoli per combattere la nostra gente, ma per eliminare le milizie. Certamente lei ha visto Tripoli e può fare un confronto con la regione orientale. Non abbiamo prigioni per gli avversari politici, milizie per le strade o nulla di illegale. Ciò che incontrerà è la polizia, la polizia giudiziaria e l’esercito ufficiale. La situazione è differente. Tripoli non può essere la capitale della Libia se controllata dalle milizie, come Kara e Gnewa. Questo è impossibile! Anche per il Governo di Accordo Nazionale supportato dall’Italia, nell’accordo di Skhirat che stabilisce la sua formazione, la prima condizione è quella di eliminare le milizie. Dal 2016 ad oggi, in tre anni, le milizie sono diventate più forti. Questo significa che il GNA non ha raggiunto il suo obiettivo in tempo. Vorrei farle una domanda, se in Italia il presidente del Consiglio perde la fiducia del parlamento può continuare a fare il presidente?”(...)"

sabato 13 aprile 2019

Libia: Cosa Fa Il Figlio Di Gheddafi?

"(...) Secondogenito di Muhammar, erede designato o quasi del padre, più volte Saif viene indicato come colui che appare destinato a continuare a portare avanti il nome dei Gheddafi nel mondo politico libico. Non si vede in pubblico dal giorno della cattura nel sud della Libia nel 2011, condannato a morte e poi graziato, Saif negli ultimi mesi fa sentire la sua voce solo tramite emissari. Da quando è però iniziata la battaglia per la presa di Tripoli, il suo silenzio è diventato ancora più forte e, per questo, anche più rumoroso. (...) "

giovedì 22 maggio 2014

La Libia Verso Il Baratro

Un generale anti-islamico, l’ombra dell’Egitto e lo spettro di un’altra guerra per procura fra le nazioni arabe: questa è la Libia teatro del blitz militare di Khalifa Haftar, già oppositore di Gheddafi, contro le milizie di Bengasi. Haftar viene dai ranghi dell’esercito del colonnello Muammar Gheddafi, circa 25 anni fa guidò in Ciad una fallita insurrezione contro Tripoli e negli ultimi anni ha vissuto da esule in Virginia, tornando in patria solo dopo il cambio di regime. Haftar viene dalla Cirenaica ed è questa origine che lo trasforma in un leader militare credibile perché sono i legami, personali e di clan, con tribù e caserme di Bengasi, che gli hanno consentito di prendere l’iniziativa e dare l’assalto - venerdì scorso - alla città-roccaforte degli islamici.
 La sfida di Haftar alle milizie jihadiste è netta, dichiarata, a viso aperto evocando quanto avvenuto in Egitto da parte dei militari di Abdel Fattah Al-Sisi contro i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi. Più volte, nelle ultime 72 ore, i colonnelli di Haftar hanno paragonato i jihadisti della Cirenaica ai Fratelli Musulmani e ciò rafforza l’impressione di una riedizione libica della svolta anti-islamica avvenuta in Egitto nel 2013. Sul fronte opposto ad Haftar c’è il traballante governo di Tripoli che si è trovato obbligato a fare appello alle milizie islamiche per difendersi dal generale ribelle. La contrapposizione fra Tripoli e Haftar sta producendo conseguenze a pioggia: quella più recente è nell’annuncio del governo di indire elezioni parlamentari il 25 giugno - le prime dal rovesciamento di Gheddafi - ma ciò che più conta sono le reazioni in atto nelle capitali arabe, ognuna delle quali segue un cammino differente.

L’ex colonnello libico che ha provocato il caos a Bengasi si chiama Khalifa Haftar. Il suo potere e la sua influenza in quella zona sono così forti che l’esercito libico – che in parte gli si oppone, anche se alcuni generali sono passati dalla sua parte – ha dovuto imporre una no-fly zone sopra la città, per evitare che le sue forze paramilitari usassero mezzi aerei per colpire i miliziani islamisti. Domenica Haftar ha anche annunciato di avere attaccato il Parlamento di Tripoli e di averne sospeso le attività. Haftar si è detto interessato a competere per la presidenza: un ruolo rimasto vacante dalla fine della rivoluzione libica, in attesa dell’approvazione di una nuova Costituzione.
La situazione in Libia è per certi versi incredibile e unica. Per dare un’idea: prima dell’annuncio della data delle prossime elezioni, i parlamentari libici si sono incontrati in un hotel il cui indirizzo avrebbe dovuto rimanere segreto. Sull’hotel poco dopo sono caduti dei missili (non ci sono stati feriti). Intanto la situazione sul campo rimane molto caotica. Le milizie alleate all’ex colonnello Hafter si sono posizionate sulla strada che porta verso l’aeroporto di Tripoli, che si trova poco più a sud della capitale; le milizie islamiste provenienti da Misurata, altra città libica nella quale in passato ci sono stati diversi incidenti e violenze, si sono posizionate invece nei pressi di Tripoli, e secondo il Wall Street Journal sarebbero intenzionate a entrare in città. La situazione a Bengasi rimane invece molto confusa, e non è chiaro chi comanda cosa.

Nato in Kuwait da genitori indiani poi immigrati negli Stati Uniti, Currun ha ottenuto due anni fa un Master alla Erasmus University di Rotterdam con una tesi sulla pirateria somala, tema di cui non ha mai smesso di occuparsi (di recente un suo articolo è apparso sul New York Times). La vita accademica, però, non fa per lui. Agile, alto, con un fisico da atleta e capelli corti scurissimi, Curran ha lo spirito del ribelle e i modi impeccabili di un signore d’altri tempi. Dopo un periodo in India e a Chicago, ha deciso di tornare alla sua passione per i diritti umani in Africa e ora guida un team di quattro persone e una ventina di volontari nel cuore di Tripoli. Il suo gruppo documenta gli abusi commessi nel passato e nel presente, e offre assistenza alle vittime. Almeno diecimila persone sono scomparse dopo la rivoluzione, e il compito di questi volontari è scoprire che ne è stato di loro: un lavoro talmente delicato, che la sede dell’Organizzazione è segreta.
 «La cosa più complessa in queste ore è distinguere i fatti dalla finzione», mi dice Currun al telefono da Tripoli in una delle nostre recenti conversazioni. «La situazione è tesa. Ci sono stati un’ottantina di morti nel fine settimana, e diverse centinaia di feriti. Gli analisti fanno scenari, ma è impossibile capire fino in fondo quali siano le motivazioni di questi eserciti e le loro alleanze future». Il nuovo uomo forte, il generale Haftar, ha promesso al Paese di metter fine all’insicurezza, soprattutto nell’Est del Paese. «La situazione a Bengasi è fuori controllo. Avvocati, medici, professionisti vengono trucidati con la scusa del collaborazionismo col passato regime, ma sono vendette private». La Libia di oggi è un Paese allo stremo, in preda al terrore. Non stupisce che Haftar abbia un certo sostegno nella popolazione.

martedì 20 maggio 2014

Il Disastro Della Libia, La Non-Politica Italiana, Le Poche Cose da Fare

Il disastro della Libia - che questo minuscolo blog aveva segnalato come probabile fin dai tempi della retorica della "guerra di liberazione" - è ora davanti a noi. 

Di fronte a quanto sta succedendo dobbiamo porre alcune questioni, contingenti e di lungo periodo:

1. la classe dirigente italiana - non solo quella politica, ma in questo caso soprattutto quella politica - sembra totalmente incapace di opporre una qualsiasi "resistenza" alle campagne mediatiche che di volta in volta sorgono e muoiono nel volgere di pochissimo tempo; campagne brevi, forse anche non "intenzionali", ma che sono in grado di provocare gravissime distorsioni negli scenari politici; questa "fragilità culturale" del sistema italiano rischia di essere una tara insopportabile per qualsiasi strategia politica ed economica che voglia vedere una rinascita di questo Paese.

2. La distinzione destra-sinistra, o quella riformisti-conservatori vale poco di fronte a discorsi di strategia nazionale; in questo senso possiamo dismettere tranquillamente molti dei dibattiti che abbiamo fatto in questi anni, e anche negli ultimi tempi. Se si perdono di vista i "fondamentali", se sfuggono le "occasioni di crescita", discutere del numero di contratti da stipulare in un anno serve a ben poco.

3. Sembra fare eccezione allo sconsolante panorama italiano, l'ex premier Romano Prodi, che ha almeno la libertà e la spregiudicatezza di vedere la centralità della questione energetica, messa a rischio da questa situazione come da quella ucraina (vd. il post dedicato alla proposta)

4. Per arrivare al caso concreto Libia: purtroppo il tempo è poco e le cose da fare non sono molte; da quel che si percepisce in maniera confusa forse è impossibile "guidare" le cose, conviene "accompagnarle", tentando di sfruttare al meglio i cambiamenti in atto, contrattando duramente con i nostri alleati. Provo ad azzardare alcune questioni, anche se non ho competenze strategiche:

4.1. Si tenti di capire se nell'azione paramilitare ora in atto c'è l'appoggio degli americani e dei francesi, e ci si accordi con loro sul cosa fare; sia detto con poca ipocrisia: meglio un golpe ben fatto che il disordine, c'è poco da discutere di fronte all'ipotesi di una guerra civile, che ormai è già in corso. 

4.2. Per essere più chiari, qualsiasi scelta deve avere per noi un "ritorno"; se un governo non-fondamentalista - anche se di stampo militare - può portare una stabilità a noi utile, allora si appoggi con tutte le forze questa sorta di "colpo di stato".

4.3. La scelta deve essere chiara e condivisa dalle forze occidentali che operano nell'area; gli Stati Uniti ci chiesero di operare per la sicurezza di quel Paese e noi dobbiamo imporre che qualsiasi passaggio venga condiviso. L'Afghanistan non è per noi vitale come il Mediterraneo: anche se sarebbe giusto teoricamente continuare ancora la missione a Kabul, facciamo capire quali sono le nostre priorità.

4.4. Da parte della Francia dobbiamo essere in grado di avere lealtà e cooperazione: la possibile "bomba migratoria" che potrebbe nascere da un peggioramento della situazione non può che riguardare anche loro: è il caso di dirlo apertamente; se non ci aiutano in modo chiaro, la situazione sfuggirà di mano e il "disastro" colpirà anche loro.

4.5. Si ponga il problema libico anche in sede ONU, e con le nuove superpotenze come la Cina, che ha fortissimi interessi in Africa: se la situazione non si risolve in breve tempo, avremo - lo abbiamo già, in realtà - uno stato fallito. Deve essere chiaro che tutta la comunità internazionale deve aiutarci a garantire una qualche forma di stabilità, anche nel caso si dovesse accettare una sorta di spartizione di fatto della Libia. Se ci deve essere una qualche forma di "amministrazione controllata" di questi territori, noi dobbiamo poter essere protagonisti di qualsiasi passaggio.

4.6. Abbiamo portato in Italia personale militare libico per addestramento; a quale parte dell'esercito appartenevano? Siamo in grado di capire con chi abbiamo condiviso la nostra esperienza militare? abbiamo mantenuto contatti? questi contatti possono aiutarci?

4.7. Massima allerta sul fronte delle investigazioni, anche interne: quali sono i rischi effettivi di immigrazione di fanatici con intenzioni violente? Anche questa minaccia va condivisa con tutti gli alleati, chiarendo che se non ci danno una mano a gestire la situazione, i rischi non saranno solo dell'Italia.

Il tempo è pochissimo, e queste sembrano le poche cose da fare. E forse non solo queste, visto che è sempre necessario giocare su più tavoli. In questo momento è necessario essere realisti e spregiudicati.

Francesco Maria Mariotti

In Libia le forze armate comandate dal generale deposto Khalifa Hiftar hanno dichiarato guerra al terrorismo jihadista mettendo in dubbio l'autorità del governo di Tripoli. Venerdì scorso, il generale 71enne ha lanciato un'offensiva bombardando alcuni quartieri della città orientale di Bengasi. A Tripoli, i gruppi armati messi insieme dal "generale", hanno assaltato il parlamento. La sede dell'assemblea nazionale è stata evacuata dopo essere stata circondata da diversi veicoli corazzati entrati nella capitale dalla strada che la collega all'aeroporto di Tripoli. 



La volontà del generale Hiftar è quella di riuscire laddove il governo centrale di Tripoli ha fallito sin dal rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi: ristabilire la sicurezza nel paese riunendo in un unico esercito le diverse milizie che detengono il controllo della Libia sul terreno. L'offensiva dell'esercito parallelo di Hiftar ha generato un'escalation nei combattimenti contro le brigate degli integralisti islamici con un'intensità di sparatorie e bombardamenti che ricorda quella del 2011. Il governo libico, dopo il weekend, ha imposto una no-fly zone sui cieli di Bengasi, dove si contano al momento 70 morti e circa 140 feriti in seguito all'offensiva militare.


Dopo l'occupazione del parlamento, il generale Mokhtar Farnana, membro delle forze di Hiftar, si è rivolto alla televisione nazionale annunciando la formazione di un'assemblea costituente composta da 60 membri che dovrebbe prendere il posto dell'attuale parlamento. Rivendicando l'assalto, Farnana ha affermato di avere l'appoggio del popolo libico e di aver dichiarato guerra al terrorismo islamico.


Hifter è un personaggio un po' misterioso: schierato contro Gheddafi durante la rivolta di tre anni fa, originariamente vicino agli islamisti, fondatore di un partitino che non ha ottenuto neppure un seggio al Parlamento, se ne è andato in esilio volontario in America dove- secondo voci non confermate - avrebbe preso domicilio a pochi chilometri dalla sede della Cia a Langley. Rientrato in Libia all'inizio di quest'anno, è già stato coinvolto in una rivolta contro il potere costituito in febbraio, risoltasi in nulla. Adesso ci sta riprovando, assicurando di non cercare il potere ma di puntare solo a riportare l'ordine in un Paese in cui i poteri del governo si fermano a pochi metri dal Palazzo e, a causa del caos provocato dall'esistenza di 170 diverse milizie l'una contro l'altra armate, la produzione petrolifera, unica fonte di entrate, è precipitata da 1,5 milioni a 250-300 mila barili l'anno. In questo quadro, appare assai significativo che il generale, rifiutando l'etichetta di golpista, abbia chiesto l'aiuto internazionale per «rimuovere il cancro del terrorismo dalla Libia».


Potrebbe diventare, Haftar, l'uomo forte che riprende il controllo di una situazione sfuggita di mano a tutti, come dimostrano non solo il crollo dell'estrazione degli idrocarburi, la fuga delle imprese straniere (negli ultimi mesi ci sono stati anche i rapimenti di tre lavoratori italiani) ma anche le incontrollate partenze di massa dai suoi porti di profughi africani diretti in Italia? Nelle cancellerie occidentali, e nelle grandi compagnie petrolifere, molti sicuramente se lo augurano, anche perché in seguito alla crisi ucraina le forniture di gas e di greggio dalla Libia sono tornate ad essere più importanti.



Il nome di Khalifa Haftar non è nuovo nella storia recente della Libia. Daniele Raineri, giornalista italiano del Foglio che si occupa soprattutto di paesi arabi e Medio Oriente, aveva raccontato di Haftar già lo scorso febbraio, dopo che l’ex generale aveva fatto circolare un messaggio video in uniforme in cui chiedeva alle forze armate di «salvare» il paese. In quell’occasione, Raineri aveva raccontato la storia di Haftar:

"Nel 1983 era il comandante delle truppe di terra libiche quando Muammar Gheddafi ordinò l’invasione del confinante Ciad, poi disertò e andò a vivere in America (Virginia), per tornare in Libia quando scoppiò la rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a cercare un ruolo di primo piano. Nel luglio dell’anno scorso il generale della rivoluzione contro Gheddafi (secondo lui) oppure ora semplice colonnello (secondo altre fonti) ha fatto circolare un piano in dieci punti per tirare fuori il paese dallo stallo politico. Due punti importanti: uno è il congelamento del Congresso nazionale e l’instaurazione di un governo provvisorio, pronto a dichiarare lo stato d’emergenza per – è l’altro punto – combattere contro le milizie e sbarazzarsi finalmente di loro. Il proposito di combattere contro le milizie ribelli che a più di due anni dalla morte di Gheddafi non si sono ancora rassegnate al dopoguerra, non si fanno domare e rendono la Libia uno stato spezzettato in tante signorie guardate da jeep con mitragliatrici è l’unico punto che consegna a Haftar tanti consensi fra i libici, stanchi dell’instabilità."


venerdì 9 maggio 2014

Nella Woodstock del jihad c'è pure chi rimpiange un re (da ilFoglio)

"Il ritorno della famiglia reale dei Senussi è la soluzione per garantire che la sicurezza e la stabilità siano restaurate in Libia". Lo ha detto il ministro degli Esteri libico Mohammed Abdelaziz a conclusione del summit dei capi della diplomazia della Lega Araba riuniti in Kuwait lo scorso marzo. Sebbene l'idea di un ritorno alla monarchia non sia una novità assoluta dopo il rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi, è stata la prima volta che un membro del governo abbia sollevato l'ipotesi; dal 2012 il “Movimento per il ritorno della monarchia dei Senussi” in Libia ha raccolto sempre più consensi: è un gruppo composto da nostalgici, perlopiù stanziati all’estero, che ha aperto anche una pagina Facebook con oltre 11 mila apprezzamenti. “Abdelaziz ha dato voce finalmente a un sentimento largamente condiviso da molti libici”, hanno fatto sapere alcuni membri del movimento. La nostalgia dei Senussi, che rimasero al potere dall’indipendenza del 1951 fino al colpo di stato di Gheddafi nel 1969, nasconde l'incapacità dei tanti governi che si sono insediati dal 2011 ad oggi. Ora la Libia è un “melting pot” di milizie che rifiutano di riconoscere le autorità di Tripoli e di confluire in un esercito nazionale. Ognuna di esse è il braccio armato di una vasta costellazione di gruppi tribali, un tempo tenuti insieme solo dalle teorie nazionaliste ed egualitariste di Gheddafi. Non solo.(...)
 

venerdì 14 marzo 2014

La fuga dell’ex primo ministro libico (da ilPost.it)

(...) La fuga di Zeidan dalla Libia è solo l’ultimo episodio di una serie di eventi che hanno dimostrato l’estrema instabilità politica che sta vivendo il paese dalla caduta di Mu’ammar Gheddafi, ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011. L’8 marzo Zeidan aveva minacciato di bombardare una petroliera che si trovava nel porto della città di al-Sidra, nell’est del paese: la milizia locale ne aveva infatti preso il controllo e aveva sfidato il governo di Tripoli rivendicando il diritto di vendere il petrolio autonomamente. Il voto di sfiducia del Parlamento è arrivato dopo che la nave era riuscita a rompere i blocchi e ad allontanarsi dal porto, nonostante Zeidan avesse annunciato che era in pieno controllo della situazione. La crisi e le tensioni tra governo centrale di Tripoli e zone orientali della Libia vanno avanti da diversi mesi: le milizie che controllano queste zone chiedono maggiore autonomia, nonché una percentuale più alta sui proventi delle esportazioni.(...)

mercoledì 6 novembre 2013

Libia - Cosa stiamo facendo?

Come scrivevo qualche giorno fa, in LIbia stiamo facendo lo strofinaccio​; al di là dell'immagine colorita, in realtà si conoscono poco i dettagli del nostro impegno post-bellico. Qualche notiza sembra "sfuggire", senza ufficialità, come viene raccontato in questo articolo de ilFoglio. 

Il patto di riservatezza fra Letta e Obama - si dice nell'articolo - tiene, e forse è bene così. Non c'è da stupirsi né scandalizzarci se non tutti i dettagli vengono raccontati

Ma fra tutto (impossibile) e il "quasi nulla" che sembra segnare questo momento, forse potrebbe esserci una via di mezzo: la possibilità di capire meglio quanto ci costa questo impegno e quali sono le possibili ricadute. 

L'impegno sarà lungo, e sicuramente anche rischioso. Sarebbe importante preparare l'opinione pubblica italiana a tutti gli scenari possibili, per non meravigliarci o spaventarci se lo scenario dovesse avere risvolti critici, e soprattutto allenarci ad avere pazienza, dote indispensabile per una situazione di questo genere.

Francesco Maria Mariotti
Una notizia festosa da Tripoli – sorveglianza elettronica e aerea dei confini libici grazie all’Italia – per ora cade nel silenzio del governo italiano. Mercoledì il primo ministro libico Ali Zeidan annuncia in conferenza stampa che “l’Italia comincerà la sorveglianza aerea ed elettronica dei confini libici. L’area sorvegliata coprirà il tratto tra al Aywanat, vicino alla frontiera con Egitto e Sudan, fino alla congiunzione tra il confine libico e quelli di Algeria e Tunisia”. Domenica la notizia è ripresa dal sito di notizie libiche in lingua inglese Lybia Herald. I giornalisti del sito scrivono che il primo ministro Zeidan non ha dato altri dettagli sulla missione durante la conferenza stampa: quando inizierà, quanto durerà e chi pagherà i costi. Contattano l’ambasciata italiana a Tripoli, che però non aggiunge nulla. (...)
Per ora non ci sono ancora commenti da parte del governo italiano, forse per quel patto di riservatezza stretto tra il premier Enrico Letta e il presidente americano Barack Obama durante l’incontro a Washington di metà ottobre. “Albania e Libia: sono due questioni che l’Amministrazione americana, e non da adesso, considera automaticamente di competenza italiana. A maggior ragione ora che il paese è un disastro, con tutti i problemi aperti dal dopo Gheddafi e senza che Washington abbia alcun interesse a occuparsene – e questo non vale solo per la Libia”, dicono fonti diplomatiche italiane al Foglio che preferiscono restare senza nome. Alla Farnesina rispondono al Foglio di “essere ovviamente felici che la Libia stia lavorando sulla sicurezza dei confini, ma non ci sono altri dettagli da aggiungere a quelli che si conoscono già”. A metà ottobre delegazioni italiane dei ministeri di Difesa e Interno sono andate a Tripoli per parlare con il governo libico prima dell’inizio dell’operazione “Mare nostrum” per il controllo e il soccorso dell’immigrazione clandestina. Il discorso potrebbe essere stato più ampio.

Il primo ministro libico Zeidan ha parlato di sorveglianza elettronica e aerea. Per quanto riguarda la prima, il riferimento è a un contratto da 300 milioni di euro firmato quattro anni fa, il 7 ottobre 2009, tra Selex, società di Finmeccanica, e il governo di Tripoli, come conseguenza del trattato di amicizia stretto nel 2008 tra Italia e Libia. Da allora tutto è cambiato, c’era Gheddafi e adesso c’è un governo fragile – nato da una ribellione aiutata dalla Nato ma poi caduta ostaggio delle sue stesse milizie. La necessità di controllare i confini però resta, e Selex è specializzata in radar e sensori di sorveglianza; è verosimile che siano ancora considerati utili.(...)

domenica 13 ottobre 2013

Caos Libico: Il Manico Rotto E Lo Strofinaccio

"Quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro altrettanto comodo e pratico e comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio" (W.Churchill, febbraio 1944)
A volte il pensiero politico non deve fare sforzi di profondità; la frase di Churchill - se non vado errato pronunciata con riferimento al problema se mantenere o meno la monarchia in Italia - dice tutto di quella che è la regola aurea della politica estera: non deve prevalere la "giustizia" a tutti costi, ma l'ordine e la stabilità il più possibile. Certo, con questa motivazione, si richia di giustificare l'ingiustificabile, ma è un dato di fatto che il pericolo più grave, il danno più pesante, per la politica non è una dittatura feroce, ma la guerra civile, l'implosione di una collettività
In Libia - lo si è già detto troppe volte, da queste e da altre parti - si è sottovalutata la complessità di una scenario che non poteva che peggiorare, tolto Gheddafi. Quindi nessuna meraviglia su quanto successo nei giorni scorsi, con il sequestro-lampo del primo ministro. 
Piuttosto, è il caso di ricordare che l'Italia - oltre che per gli ovvi problemi di vicinanza e di immigrazione - deve preoccuparsi di questa vicenda perché è chiamata a curare in primissima linea il disarmo delle fazioni libiche: per continuare a usare i termini di Churchill, siamo chiamati in un certo senso a essere lo "strofinaccio" della situazione. Ancora troppo poco si sa dei dettagli di questo impegno, ma certo sarebbe il caso di valutarne pienamente costi e benefici, e capire quanto potrebbe durare. 
La speranza è che comunque da questo immenso male possa nascerne del bene, anche per noi: chissà, magari gli "accenni nazionali" che alcune milizie stanno utilizzando per giustificare il loro operato - vd. articolo de Linkiesta - può essere un seme di coesione da sfruttare per cercare di ricostruire una comunità statuale. E forse il nostro impegno - se saremo capaci di sfruttarlo al meglio - potrà diventare un punto importante di forza e di nuova penetrazione del nostro paese nel continente africano. Ne avremmo di che guadagnarci. 
Un pensiero a tutte le donne e tutti gli uomini che già ora - segretamente o pubblicamente  - stanno operando in quel paese, per il nostro interesse.
Francesco Maria Mariotti
Non si può negare che le milizie abbiano giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro Muammar Gheddafi. Queste brigate sono state protagoniste della presa di Tripoli nel 2011 e mantengono ancora un vasto controllo territoriale. Ufficialmente la Libia ha un corpo di polizia nazionale e un esercito. Ciò nonostante, a seguito della disintegrazione dell’apparato di sicurezza messo in piedi dal colonnello, le brigate armate sono emerse come unico sistema di polizia e di esercito funzionante all’interno del paese. In alcune zone del Paese le qataib pattugliano le strade, arrestano (e a volte detengono) presunti criminali, organizzano posti di blocco per il controllo dei documenti, e spesso dirigono persino il traffico. Un ufficiale di polizia da noi intervistato nel corso della nostra ultima visita in Libia ci rivelò di non lavorare da mesi, di avere un’uniforme piegata nel cassetto: le milizie erano ormai la nuova polizia.
Le brigate costituiscono un panorama differenziato e complesso. Alcune qataib professano un’agenda religiosa e auspicano una stretta applicazione della legge islamica nella Libia del futuro, mentre altre si presentano solo come corpi di protezione nazionale senza connotazioni politiche o religiose. Alcune milizie hanno giurato fedeltà al governo libico e si descrivono come una «polizia provvisoria», in attesa che il Paese possa tornare ad avere delle forze dell’ordine regolari e operative. Le milizie hanno una gerarchia interna che spesso rispecchia quella dell’esercito regolare, ma nella maggior parte dei casi le brigate non hanno centri di addestramento o dinamiche di appartenenza ben precise. Molte qataib appaiono come organizzazioni informali. Le loro sedi sembrano spesso dei «centri sociali» armati: baracche o case dove i ragazzi vanno a passare il tempo. Ciò nonostante le recenti vicende di Bengasi testimoniano la pericolosità di alcune di queste organizzazioni. Il governo libico sta valutando diverse soluzioni al problema delle milizie. Tra le proposte un tentativo di regolarizzare alcune delle brigate offrendo addestramento per coloro che vogliono unirsi alla polizia o all’esercito.

Ma in tutti questi paesi non abbiamo assistito a rivoluzioni, cioè a un avvicendamento, traumatico, ma per certi versi fisiologico, dei detentori del potere, in forme modellate da una maturazione di principi democratici: quanto è avvenuto, a mio parere, si può più semplicemente ricondurre alla categoria della rivolta, come quella di Masaniello, che si esaurisce in una fiammata di indignazione popolare per poi ricadere in forme già note di vario dispotismo, così come è accaduto e sta accadendo in Egitto, dove i Fratelli Musulmani, che avevano con grande abilità raccolto i frutti della cacciata di Mubarak, hanno dato palese evidenza della loro incapacità di governo e del loro concetto strumentale di democrazia, facendo ripiombare il paese in una situazione pre rivolta, con il problema addizionale che gli orologi della storia non si possono mai riportare indietro e che ai problemi del passato si sommano le instabilità del presente.
Stamane è stata diffusa una foto del premier in maniche di camicia sotto custodia di due uomini in borghese, esponenti con ogni probabilità di qualche milizia. Vedremo se nelle prossime ore seguiranno altri eventi che potrebbero portare a una sorta di golpe o se si tratta di un'azione intimidatoria di breve durata. Il Governo libico aveva formalmente protestato con Washington, ma l'opinione della maggioranza del Parlamento e delle fazioni armate è che Zeidan sapesse del sequestro Al Libbi e non avesse fatto nulla per impedire l'operazione
di Alberto Negri con un'analisi di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/TrFJD

Questo era il fronte politico, a cui tuttavia si pensava fosse possibile porre rimedio distribuendo la grande ricchezza energetica di cui dispone la Libia, il paese che vanta le maggiori riserve di greggio dell'Africa. Ma da alcuni mesi anche l'industria petrolifera è stata inghiottita dal caos. Travolta da una valanga di scioperi che ha investito la Cirenaica, dove si trovano i maggiori giacimenti di greggio e gas, la produzione petrolifera ha accusato un crollo verticale: in pochi mesi è scesa da punte di 1,5 milioni di barili al giorno (mbg), vale a dire ai livelli precedenti la rivoluzione, a meno di 150mila barili. Da tre settimane la produzione si è ripresa, ma non ha ancora raggiunto il 50% dei livelli di inizio anno. Una pessima notizia per l'Italia, che acquista dalla Libia quasi un quarto delle sue importazioni di greggio. Alla lunga il danno economico per le compagnie energetiche internazionali è ingente.
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8huc2​

Meno evidenti sono le infiltrazioni dei radicali islamici e delle formazioni terroristiche legate ad Al Qaeda nella galassia di queste milizie, alcune delle quali sono entrate addirittura a far parte delle formazioni regolari e delle forze di sicurezza governative. Alcune truppe della Cirenaica (per e-sempio la milizia dei “martiri di Derna”) sono state inglobate nell’esercito libico senza che abban-donassero una visione islamista della società. Il network di Al Qaeda è stato più attento degli occi-dentali e delle forze della Nato: ha atteso il momento giusto, dettato dalle fragili condizioni di sicu-rezza e ora sta investendo sul paese con lo scopo di trasformare in un nuovo Af-Pak la vasta area cha va dalla Cirenaica al Fezzan sino al Sahel. Il governo centrale è accusato dai jihadisti locali e internazionali di aver tradito la rivoluzione e di aver svenduto il paese all’occidente. Alcuni video-proclami degli ultimi anni di Al-Zawahiri e Abu Yahya al Libi già facevano precludere all’interesse per la Libia, soprattutto, come preventivato e purtroppo verificatosi, all’impegno militare occidentale non fosse corrisposto un altrettanto impegno civile e politico nella ricostruzione del paese.
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Il problema è semplice: la ribellione contro Gheddafi fu condotta da una miriade di milizie e gruppi armati, rispecchiante il complesso mosaico tribale della Libia. Collassata laJamahiriyya, ossia il regime costruito da Gheddafi (e non a caso basato su forti autonomie locali), le nuove autorità libiche non sono riuscite a riportare sotto il proprio controllo questi numerosi gruppi, rimasti in vita e in armi. I piani per il reinserimento dei miliziani, che prevedono tra l'altro il loro impiego al servizio dello Stato, non si sono rivelati un successo, come dimostrato dal caso Zeidan, soprattutto perché non si è stati in grado di sciogliere i gruppi pre-esistenti.
Di fatto, la Libia pullula ora di tante "compagnie di ventura", costituite per lo più su base tribale, che agiscono per conto proprio o vendono i propri servizi a enti e uffici dello Stato. I sequestratori del Primo ministro sono alle dipendenze del ministero dell'Interno per garantire la sicurezza a Tripoli.
Tutto ciò impone una riflessione su come le grandi potenze gestirono la crisi libica nel 2011.

lunedì 7 ottobre 2013

Libia, Terra Senza Legge (da ilGiornale)

(...) La paralisi d'intere zone del paese causata dagli scontri tra milizie rivali, le infiltrazioni di Al Qaida arrivata a minacciare i pozzi petroliferi, l'emergere di signori della guerra decisi a riscuotere tasse di «protezione» sempre più ingenti sulle risorse sotto il loro controllo mettono a rischio anche i gasdotti essenziali per il nostro fabbisogno. Il caos libico, l'impotenza e la mancanza d'autorità dei governi del dopo Gheddafi sono anche la causa della nuova ondata di sbarchi sulle nostre coste. Misurata, il porto da dove è salpato il barcone naufragato a Lampedusa, è da due anni il capoluogo di una regione dove il governo non controlla né polizia, né esercito, né autorità portuali. Banchine e approdi sono nelle mani di chi paga le milizie locali o se ne garantisce il controllo con la forza delle armi. Lo stesso vale sia per Tripoli, dove le milizie si contendono il controllo delle varie zone della città, sia per Bengasi, sia per gli altri porti. Da luglio Brega e Ras Lanuf, due terminali essenziali per le esportazioni del greggio, sono alla mercé di Ibrahim al-Jathran, un ex-galeotto 33 enne tirato fuori di galera alla caduta di Gheddafi e messo alla testa di una milizia pagata, in teoria, per garantire la protezione delle installazioni petrolifere governative. Una milizia usata ora da Jahtran per occupare i terminali, ricattare il governo e farsi riconoscere il controllo di una buona fetta della Cirenaica. Risultato: blocco delle forniture, perdite per oltre cinque miliardi di dollari e una situazione di anarchia in cui si rischia la guerra civile.
In un simile frangente immaginare d'arginare la minaccia di Al Qaida, contrastare i signori della guerra e fermare i contrabbandieri di esseri umani implorando l'intervento dell'impotente governo centrale di Tripoli è pura utopia. E tra le nebbie dell'utopia emerge sempre più concreto il profilo di una Libia nel caos. Una Libia da cui non pomperemo più greggio, ma solo disordine, pericoli e insicurezza. Una Libia molto simile alla Somalia, ma distante, stavolta, meno di 400 chilometri dalle nostre coste.

giovedì 13 dicembre 2012

Il Regno Unito risarcirà un dissidente libico (ilPost)

(...) La famiglia Saadi, che oggi risiede in Libia, ha accettato un pagamento da parte del governo britannico di 2,23 milioni di sterline, in forma di “compensazione”: l’accordo pone fine alla disputa legale iniziata dai Saadi alla fine del 2011 e non ammette formalmente alcun coinvolgimento o responsabilità nel rapimento. Le prove di un ruolo del Regno Unito nell’operazione, che è probabilmente l’unico caso in cui un’intera famiglia è stata vittima di un rapimento illegale (le extraordinary rendition frutto della collaborazione dei servizi segreti, conosciute in Italia soprattutto per il caso Abu Omar) emersero tra le carte degli uffici dei servizi segreti libici nel 2011, dopo la caduta di Gheddafi.



venerdì 14 settembre 2012

Armi, soldi dal Golfo e «consulenti» dall'estero: i camaleonti della Jihad (Guido Olimpio, sul Corriere della Sera)


Si camuffano. Solo pochi ostentano l'appartenenza a correnti salafite. Non dichiarano di essere jihadisti, preferiscono invece il più generico «rivoluzionari». Formazioni come Ansar Al Sharia fanno da ombrello a nuclei più sfuggenti (le Brigate Abdul Rahman) con intrecci che possono portare lontano o vicino. Ci sono quelli che hanno contatti con la rete qaedista internazionale ed altri - come è avvenuto in Iraq dopo la sconfitta di Saddam - che sono dei lealisti pentiti. Tra questi ex membri dei Comitati rivoluzionari. È su questa nebulosa che si concentra l'attenzione delle forze di sicurezza come degli 007. Infatti, ieri notte a Bengasi, sono scoppiati scontri tra la Brigata Folgore (governativa) e i militanti di Ansar dopo che quest'ultimi si sono rifiutati di consegnare il loro arsenale, un'importante risorsa per fare cassa.
Gli estremisti possono contare su diverse fonti di finanziamento. La prima è il traffico di armi. Il capoluogo della Cirenaica ha un mercato (nero) fiorente di fucili, granate, lanciarazzi rubati negli arsenali di Gheddafi. La polizia non è mai riuscita a stroncarlo. Anzi c'è chi dice che il governo abbia lasciato fare nella speranza di esaurire le scorte. Resta il fatto che le armi libiche sono state trovate - solo per citare alcuni Paesi - in Nigeria, Siria, Tunisia, Mali e Sinai. Quelli che hanno attaccato il consolato Usa non hanno usato le doppiette bensì camioncini con mitragliere antiaeree. E ne hanno a volontà, da vendere a chi ha il contante pronto. Disponibilità che si porta dietro un'altra conseguenza: i baratti di materiale bellico facilitano la collaborazione tra estremisti che agiscono sull'intero quadrante regionale.(...)

venerdì 13 luglio 2012

La Libia dopo il voto (da AffarInternazionali)

(...) Processo complesso 
D’altra parte, dopo una guerra nata dalla volontà di pochi - ma costata comunque distruzioni, migliaia di morti, sfollati senza possibilità di ritorno, sequestri e sparizioni - la posta era grande e l’occasione non ripetibile, pena una balcanizzazione, per non dire “somatizzazione”, che non sembra ancora scongiurata del tutto. Per molti, arrivare a concludere rapidamente queste elezioni è stato ancora più importante del risultato: il percorso della road map verso un processo di stabilizzazione, che va comunque guardato nei tempi lunghi, doveva necessariamente cominciare, e senza indugi.
Evidentemente, nelle classi più consapevoli c’è stata la percezione che, in caso di fallimento, la frammentazione sarebbe stata inevitabile. Sarà forse per motivi di convenienza elettorale, ma nel corso della campagna tutti i candidati si erano espressi per l’unità dello Stato e la laicità delle istituzioni repubblicane, pur con lasharia come fonte principale del diritto. In questa fase iniziale c’è stato persino un certo fair play, dove i laicisti hanno ricordato di essere comunque musulmani e tutti i confessionali hanno assicurato di essere dei moderati. Nella pratica, staremo a vedere, perché la Costituzione è ancora da scrivere, e dovrà certamente essere scritta a più mani.(...)

lunedì 2 luglio 2012

Siamo Ancora in Guerra, in Libia?

Le notizie che riporto sono da prendere con molta cautela, in quanto Asianews - sito generalmente ben informato - non specifica esattamente quali siano le sue fonti. Di fatto però il senso politico non appare - purtroppo - come una sorpresa: come già si è detto in altri momenti, in Libia la situazione non è affatto risolta. Per cui, detto crudemente, non ci sarebbe scandalo se la NATO stesse monitorando la situazione e stesse ancora intervenendo fattualmente (anche "al di fuori" della missione ufficiale, che si diceva conclusa); è però assolutamente da valutare con prudenza  - e "sana diffidenza", mi verrebbe da dire - ogni notizia di bombardamento, per evitare di cadere oggi in errori di "false notizie" che ci sono già state, in questa brutta vicenda.

Francesco Maria Mariotti

(...) Secondo le fonti, le forze dell'Alleanza atlantica non hanno mai abbondonato il Paese. "Tre settimane fa - raccontano - i jet Nato hanno lanciato un fitto bombardamento su due città in lotta fra di loro: Zintan e Mashasha". La prima è una delle più importanti roccaforti dei ribelli e per tutto il periodo della guerra ha avuto il sostegno da parte della Nato.  La seconda è invece abitata da popolazioni nomadi originarie del Niger. Essa era stata costruita dallo stesso Gheddafi per permettere ai popoli del deserto di diventare stanziali. I suoi abitanti hanno sostenuto il rais durante l'offensiva contro Zintan. "Caduto il dittatore - continuano le fonti di AsiaNews - Zintan si è vendicata lanciando attacchi contro Mashasha che ha risposto lanciando missili e bombe di mortaio. Per fermare la violenze la Nato ha bombardato entrambe le città, facendo diversi morti. L'Alleanza atlantica ha giustificato le bombe contro Zintan, sua alleata, come un errore balistico. E questo nel silenzio totale dei media".(...)

lunedì 5 marzo 2012

Libia, sparizioni e città-stato (da ilFoglio.it)


(...) Il terrore di chi andava in piazza per Gheddafi, anche se non coinvolto nella repressione del regime, è sparire a un posto di blocco. Samira è un nome di fantasia, adottato per evitare rappresaglie, di una professionista libica che avevamo conosciuto ai tempi del colonnello. Un suo stretto parente era arruolato nei livelli medi della sicurezza. Non risulta che abbia compiuto atrocità e tantomeno che fosse ricercato, come ha ammesso lo stesso governo transitorio. “Il 18 febbraio era in macchina lungo la strada dell’aeroporto con al volante un amico che fa parte dei towhar (i rivoluzionari, nda)”, racconta Samira al Foglio. “L’hanno fermato al primo ponte verso Tripoli, a un posto di blocco di una banda di Zintane armata fino ai denti. Uno di loro aveva un passamontagna nero per non farsi riconoscere”, prosegue Samira. Il documento del Comitato della rivoluzione del 17 febbraio dell’amico non è servito. Prima hanno preso lui e poi l’ex gheddafiano, davanti alla moglie e ai figli piccoli. La signora si è recata all’aeroporto dal comandante della milizia, vanamente. Solo tempo dopo la famiglia ha individuato il capobanda responsabile della sparizione, che vive in una villa con i rubinetti d’oro sequestrata a una membro del regime. Il boss ha ribadito con arroganza: “Non mi interessa se era o meno sulla lista dei ricercati. Lo volevo io e basta”. Era chiaro che i “rivoluzionari” volevano un riscatto. Gli stessi towhar hanno ammesso che per alcuni pezzi grossi della sicurezza di Gheddafi catturati sono stati chiesti alle rispettive famiglie 3 milioni di dinari (oltre 1 milione e mezzo di euro). Per i “farisa”, le prede più piccole, bastava molto meno. “La moglie del mio parente era pronta a tutto – spiega Samira – Qualche giorno dopo il rapimento i sequestratori l’hanno chiamata al telefono forse dandole la speranza di liberare il marito. Lei è andata verso l’aeroporto e non l’abbiamo più rivista”.
 
Nessuno sa con certezza se gli arresti arbitrari a Tripoli siano decine o centinaia, ma al momento in Libia i prigionieri risultano poco meno di diecimila. Molti sono detenuti in una sessantina di carceri illegali  e in alcuni casi segrete, dove non mancano vessazioni e torture. Per non parlare di Tawarga, la cittadina di quarantamila anime vicino a Misurata cancellata dalla carta geografica. Una pulizia etnica degli abitanti di pelle nera accusati degli episodi più brutali dell’assedio della terza città della Libia per conto di Gheddafi. Soprattutto con il buio, come abbiamo visto al primo posto di blocco davanti all’aeroporto, le milizie fermano chiunque vogliono con qualsiasi pretesto. Oltre all’affare dei riscatti, alcune bande di miliziani sequestrano le macchine di chi non gli va a genio, in particolare se sono nuove e di marca. “Il sistema è sempre lo stesso – ci raccontano – Ti chiedono di scendere perché la targa della tua auto è stata segnalata come sospetta. E poi si portano via l’auto per supposti controlli”. Gli stessi seguaci della rivolta schifati dai soprusi raccontano di giovani donne violentate di fronte ai genitori che hanno sostenuto Gheddafi. “Dove vai a sporgere denuncia? La polizia di fatto non esiste – spiega Samira – Le malefatte in 40 anni di Gheddafi i nuovi padroni le stanno ripetendo in pochi mesi”.(...)
 
I problemi sono enormi, non solo a Tripoli. Misurata è diventata una città stato, che ha già votato le municipali. Bengasi, dove è iniziata la fine di Gheddafi, si sta ribellando apertamente al governo transitorio e rispunta lo spettro della secessione della Cirenaica, dove si trova l’80 per cento delle risorse energetiche libiche. A Bani Walid sono tornate a sparare le armi della tribù Warfalla, che non sopporta di stare sotto il tallone dei nuovi padroni. All’estremo sud la situazione è più complessa. A Kufra e dintorni sono scoppiati scontri con decine di morti fra clan. Dietro la sanguinosa faida si nasconde il controllo del lucroso traffico di droga, armi e clandestini. I sopravvissuti del deposto regime difficilmente riusciranno a cavalcare l’onda, ma si teme una campagna terroristica di Abdullah al Senoussi, il cognato del colonnello, ex capo dei servizi segreti, ancora libero. Non solo: la figlia Aisha in esilio ad Algeri ha ancora in mano i conti nascosti all’estero, mentre il fratello Saadi lancia proclami bellicosi di rivincita. Nonostante le tante ombre la Libia ha voltato definitivamente pagina, ma deve ancora imboccare la strada giusta. Un recente sondaggio delle Università di Oxford e Bengasi condotto su un campione di duemila libici dimostra che oltre il 40 per cento invoca un leader con il pugno di ferro. Lo stesso comandante Abu Ajar ammette candidamente: “Per la Libia oggi ci vuole un uomo forte”. 

venerdì 17 febbraio 2012

Libia, Un Anno Dopo

(...) Un vero e proprio esercito nazionale non esiste e le armi in circolazione sono ancora tantissime. Nella sola Misurata un ricercatore di Human Rights Watch ha individuato ben 250 diverse brigate. Sono loro a mantenere l’ordine nelle strade, ma sono sempre loro, paradossalmente, a costituire la minaccia maggiore per la sicurezza nazionale. La brigata di Zintan, protagonista della conquista di Tripoli e dell’arresto di Saif al Islam Gheddafi, controlla l’aeroporto della capitale e non ha intenzione di cedere la posizione. I conflitti tra milizie non sono rari. I combattenti di Misurata, ad esempio, si sono scontrati con gli uomini di Bengasi e della stessa Zintan, che proteggevano i rifugiati di Tawarga, colpevoli di non avere abbracciato la causa rivoluzionaria.

I rapporti delle organizzazioni per i diritti umani sono impietosi. Secondo Amnesty International, dodici detenuti in mano alle brigate sono morti in seguito alle torture, compreso l’ex ambasciatore a Parigi Omar Brebesh. Le carceri libiche contengono più di ottomila persone, molte di loro sono state lasciate alla mercé delle violenze indiscriminate delle milizie. Le vendette contro i gheddafiani, o i sospettati di gheddafismo, come i prigionieri dei paesi subsahariani, sono all’ordine del giorno. Saif al Islam è ancora nelle mani dei misuratini e ci sono forti dubbi sugli standard giuridici del processo che lo vedrà protagonista.

La legge della forza prevale sullo stato di diritto, le fedeltà locali su quella nazionale.
Il ruolo dei clan è motivo di dibattito. Gheddafi era stato abile ad assicurarsi l’appoggio di alcune tribù, in primo luogo i Warfalla, ma anche i Magarha, impedendo al tempo stesso che qualcuna di loro acquisisse troppo potere. Alcuni analisti ritengono che oggi la maggior parte dei clan abbia perso credito e non costituisca più una minaccia.
Durante la guerra gli stessi Warfalla si sono divisi: alcuni sono rimasti col Colonnello, altri hanno guidato la rivolta, come l’ex premier del Cnt, Mahmoud Jibril. Il mese scorso a Bani Walid, roccaforte del gheddafismo, c’è stato un duro scontro armato tra i Warfalla e gli uomini del Cnt. Ma la cacciata dei tripolini e l’instaurazione di un nuovo consiglio è sembrata più una lotta per il riconoscimento di un potere locale che il tentativo di far tornare indietro l’orologio della storia.(...)


Leggi anche:

In Libia un anno dopo la rivolta c’è un nuovo Gheddafi
Arturo Varvelli*
Ad un anno dal giorno della Collera, pochi in Libia vedono di buon occhio il suo leader Jalil. L’unica legittimità del Cnt appare derivare dal pronto e forte appoggio dato da occidentali e mondo arabo, Francia e Qatar su tutti. Intanto si avvicinano le elezioni di giugno. Molti le domande: si voterà regolarmente? Che fine farà il Cnt? Intanto si susseguono gli scontri con morti, soprattutto a Tripoli e in Tripolitania, e gli abusi – denunciati dalle ong – dei vincitori sui vinti.
http://www.linkiesta.it/libia-cnt-elezioni 

mercoledì 25 gennaio 2012

Cosa sta succedendo in Libia?


Cosa sta succedendo in Libia? Si è già scritto dell'invio a parte degli Stati Uniti di contractor per tentare di gestire la difficile fase di transizione. 
La questione è assai delicata, ma quando si parla di contractor si intende - generalmente - soldati gestiti da imprese private (l'uso del temine mercenari rischia di essere fuorviante), che stipulano accordi con i governi di tipo "outsourcing", relativi a compiti di sicurezza che per vari motivi i governi stessi non possano/vogliano gestire direttamente.

Il timore che accompagna l'azione di queste compagnie - quasi sicuramente già presenti in Libia dai tempi della guerra - è che esse, in quanto non inquadrate negli eserciti regolari, abbiano meno vincoli alle loro azioni e siano meno controllabili.

D'altro canto, dal punto di vista italiano nostri militari (regolari, si badi) addestreranno le forze libiche.  
In questo senso cinicamente potremmo dire che la confusione aiuta un nostro reinserimento nel gioco.

In ogni caso si hanno ulteriori elementi, in questi giorni (si vedano gli articoli proposti qui sotto), per dire che la sciagurata idea di far fuori Gheddafi si sta confermando un drammatico errore.

Occorre ricominciare dai fondamentali: non si abbatte un regime se non si ha la capacità di gestire le fasi successive; non si fa la guerra se non si è capaci di occupare effettivamente il territorio su cui si combatte per tutto il tempo necessario; e, da ultimo: uno stato in piedi - per quanto dittatoriale - è meglio di una guerra civile incontrollata.

Poche cose da tenere a mente, a futura memoria.
Sperando che la "nuova" Libia tenga, e non ci faccia versare lacrime ben più amare del passato.

Francesco Maria Mariotti

(...)Responsabili delle violenze delle ultime settimane sono ex miliziani che fino alla caduta del regime hanno combattuto a Tripoli, Sirte e Misurata contro i lealisti di Gheddafi. Si attendevano una ricompensa per i loro servizi, ma oggi pensano di essere stati messi da parte dai nuovi leader e temono che non troveranno sbocchi professionali per poter vivere dignitosamente. (...) Quel che è certo è che la pacificazione promessa è ancora molto lontana e che la guerra civile, come ha ammesso lo stesso Jalil, è ormai una realtà. 
Un centinaio di militari italiani sbarcheranno in Libia per dare vita all'operazione Cirene, missione di addestramento e consulenza destinata alle forze armate e di sicurezza libiche. Forze la cui consistenza e inquadramento sono al momento solo teorici considerato che decine di milizie che hanno combattuto Gheddafi restano armate e si fronteggiano a Tripoli e in alter località del Paese mentre nella Cirenaica Orientale è segnalata la presenza di una milizia di al-Qaeda forte di almeno 200 miliziani. La nomina del nuovo comandante delle forze armate, il generale in pensione Yousef al-Manqoush , non è stata riconosciuta da molte milizie incluse quelle islamiche e di Zintan e Misurata con il rischio di una guerra civile paventato già più volte dallo stesso Jalil. di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - leggi su Soldati italiani per addestrare le forze libiche

In Libia non esiste ancora un unico esercito nazionale e il risultato è il perdurare delle bande armate nel Paese. Il Cnt ha già commesso due errori: non ha evitato una giustizia sommaria e non riesce ancora a garantire sicurezza, scrive Arturo Varvelli, ricercatore all'Istituto per gli studi di politica internazionale. Un ulteriore problema è costituito dalla legittimità del governo: che è scarsa all'interno ma compensata da una forte legittimazione esterna. Le elezioni della Costituente di giugno appaiono ora troppo lontane. Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/gli-amici-della-nato-governano-libia-ma-fanno-disastri#ixzz1kU6vcGoE

Vd. Anche 

martedì 15 novembre 2011

Libia: un'altra "missione incompiuta"?


E' veramente finita la guerra in Libia? Temo di no; temo che quanto si era detto - su quella che pareva essere una guerra senza orizzonte  - si stia rivelando vero, anche se non troppo pubblicizzato. Naturalmente tutti speriamo che il Cnt sappia conquistare un effettivo monopolio della forza nel paese, ma al momento attuale tale obbiettivo sembra ben lontano dall'essere raggiunto, tanto che dallo stesso governo libico è arrivata la richiesta alla NATO di rimanere almeno fino alla fine dell'anno. 

E' inevitabile che oggi la nostra attenzione sia rivolta all'emergenza economica, ma è il caso di riflettere su una politica estera - europea ed occidentale - che sembra sempre più in difficoltà nel discernere le informazioni, nel valutare le alleanze, nel definire i propri obbiettivi di medio e lungo periodo. 

Altrimenti le "guerre incompiute" rischiano di diventare un peso - politico, economico, e anche morale - molto rilevante per il nostro futuro.

Francesco Maria


(...)La spallata decisiva l’avevano data le tribù scese dalle montagne che circondano la piana di Tripoli, il Jebel. Una su tutte, tra le 140 che si dividono la Libia, i Wershifanna, che da allora controllano Al Maya. Al Zawiyah era passata invece alla cellula locale degli insorti, integrata nel Cnt, il Consiglio nazionale transitorio che ha sostituito al potere Gheddafi. Milizie, da riorganizzare secondo gli intenti del Cnt in un’armata nazionale regolare, destinate ad assicurare l’ordine, fermare saccheggi e vendette che ancora continuano, come ieri hanno notato «con preoccupazione» i ministri degli Esteri dell’Unione europea. Un lavoro duro, sporco e pieno di «incidenti». Ma ieri ad Al Maya c’è stata una battaglia in grande stile, a colpi di cannone, razzi anticarro e kalashnikov. Le milizie del Cnt hanno avuto la peggio. In tutto, sette morti.(...) La Libia è un bazar a cielo aperto con centinaia di depositi e caserme da riprendere prima che siano spolpate, tanto che il presidente del Cnt, Mustafa Abdel Jalil, ha auspicato che la missione della Nato continui «almeno fino alla fine dell’anno».(...)