(...) Il terrore di chi andava in piazza per Gheddafi, anche se non coinvolto nella repressione del regime, è sparire a un posto di blocco. Samira è un nome di fantasia, adottato per evitare rappresaglie, di una professionista libica che avevamo conosciuto ai tempi del colonnello. Un suo stretto parente era arruolato nei livelli medi della sicurezza. Non risulta che abbia compiuto atrocità e tantomeno che fosse ricercato, come ha ammesso lo stesso governo transitorio. “Il 18 febbraio era in macchina lungo la strada dell’aeroporto con al volante un amico che fa parte dei towhar (i rivoluzionari, nda)”, racconta Samira al Foglio. “L’hanno fermato al primo ponte verso Tripoli, a un posto di blocco di una banda di Zintane armata fino ai denti. Uno di loro aveva un passamontagna nero per non farsi riconoscere”, prosegue Samira. Il documento del Comitato della rivoluzione del 17 febbraio dell’amico non è servito. Prima hanno preso lui e poi l’ex gheddafiano, davanti alla moglie e ai figli piccoli. La signora si è recata all’aeroporto dal comandante della milizia, vanamente. Solo tempo dopo la famiglia ha individuato il capobanda responsabile della sparizione, che vive in una villa con i rubinetti d’oro sequestrata a una membro del regime. Il boss ha ribadito con arroganza: “Non mi interessa se era o meno sulla lista dei ricercati. Lo volevo io e basta”. Era chiaro che i “rivoluzionari” volevano un riscatto. Gli stessi towhar hanno ammesso che per alcuni pezzi grossi della sicurezza di Gheddafi catturati sono stati chiesti alle rispettive famiglie 3 milioni di dinari (oltre 1 milione e mezzo di euro). Per i “farisa”, le prede più piccole, bastava molto meno. “La moglie del mio parente era pronta a tutto – spiega Samira – Qualche giorno dopo il rapimento i sequestratori l’hanno chiamata al telefono forse dandole la speranza di liberare il marito. Lei è andata verso l’aeroporto e non l’abbiamo più rivista”.
Nessuno sa con certezza se gli arresti arbitrari a Tripoli siano decine o centinaia, ma al momento in Libia i prigionieri risultano poco meno di diecimila. Molti sono detenuti in una sessantina di carceri illegali e in alcuni casi segrete, dove non mancano vessazioni e torture. Per non parlare di Tawarga, la cittadina di quarantamila anime vicino a Misurata cancellata dalla carta geografica. Una pulizia etnica degli abitanti di pelle nera accusati degli episodi più brutali dell’assedio della terza città della Libia per conto di Gheddafi. Soprattutto con il buio, come abbiamo visto al primo posto di blocco davanti all’aeroporto, le milizie fermano chiunque vogliono con qualsiasi pretesto. Oltre all’affare dei riscatti, alcune bande di miliziani sequestrano le macchine di chi non gli va a genio, in particolare se sono nuove e di marca. “Il sistema è sempre lo stesso – ci raccontano – Ti chiedono di scendere perché la targa della tua auto è stata segnalata come sospetta. E poi si portano via l’auto per supposti controlli”. Gli stessi seguaci della rivolta schifati dai soprusi raccontano di giovani donne violentate di fronte ai genitori che hanno sostenuto Gheddafi. “Dove vai a sporgere denuncia? La polizia di fatto non esiste – spiega Samira – Le malefatte in 40 anni di Gheddafi i nuovi padroni le stanno ripetendo in pochi mesi”.(...)
I problemi sono enormi, non solo a Tripoli. Misurata è diventata una città stato, che ha già votato le municipali. Bengasi, dove è iniziata la fine di Gheddafi, si sta ribellando apertamente al governo transitorio e rispunta lo spettro della secessione della Cirenaica, dove si trova l’80 per cento delle risorse energetiche libiche. A Bani Walid sono tornate a sparare le armi della tribù Warfalla, che non sopporta di stare sotto il tallone dei nuovi padroni. All’estremo sud la situazione è più complessa. A Kufra e dintorni sono scoppiati scontri con decine di morti fra clan. Dietro la sanguinosa faida si nasconde il controllo del lucroso traffico di droga, armi e clandestini. I sopravvissuti del deposto regime difficilmente riusciranno a cavalcare l’onda, ma si teme una campagna terroristica di Abdullah al Senoussi, il cognato del colonnello, ex capo dei servizi segreti, ancora libero. Non solo: la figlia Aisha in esilio ad Algeri ha ancora in mano i conti nascosti all’estero, mentre il fratello Saadi lancia proclami bellicosi di rivincita. Nonostante le tante ombre la Libia ha voltato definitivamente pagina, ma deve ancora imboccare la strada giusta. Un recente sondaggio delle Università di Oxford e Bengasi condotto su un campione di duemila libici dimostra che oltre il 40 per cento invoca un leader con il pugno di ferro. Lo stesso comandante Abu Ajar ammette candidamente: “Per la Libia oggi ci vuole un uomo forte”.
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