giovedì 31 ottobre 2013

Spiare gli alleati non è una novità (da Rivista Studio)

(...) È un tema tutt’altro che nuovo visto che, giusto o sbagliato che sia, quello di spiare sugli alleati pare una pratica piuttosto diffusa. Ogni volta che qualche 007 è pescato con le mani nel sacco, il dibattito si riapre: l’utilità di spiare i nemici pare ovvia, ma perché spiare gli amici? Già nel 2004, per esempio, Slate dedicava un articolo all’argomento, in cui l’esperto di relazioni internazionali Fred Kaplan spiegava uno degli scopi dello “spionaggio tra amici”: «Immaginate questa situazione: i Paesi A e B sono alleati. I Paesi B e C sono amici o, almeno, partner commerciali. I paesi A e C sono nemici. Un Paese potrebbe voler spiare il suo alleato B, al fine di imparare le cose circa il suo nemico C».(...)

Spagna, la ripresa assai poco umana (Phastidio.net)

(...) Su base destagionalizzata, infatti, il totale degli occupati è calato dello 0,4% trimestrale, per il ventiduesimo trimestre consecutivo. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica (INE), l’occupazione totale spagnola è cresciuta negli ultimi sei mesi di 186.000 unità su base destagionalizzata, ma questo incremento è quasi interamente imputabile a fattori stagionali associati all’industria turistica. Vi facciamo grazia dei dati non destagionalizzati, ad evitare polemiche metodologiche, ma sono contrazioni piuttosto pesanti.

Commento, quindi? Che attendiamo fiduciosi che il boom dell’export spagnolo si rifletta in corrispondente aumento di occupazione, per poter portare un minimo di beneficio anche ai consumi interni ed al gettito fiscale e contributivo. Restando tuttavia consapevoli che esiste una probabilità non trascurabile che il violento recupero di produttività non produca occupazione, nel breve-medio termine, ma possa anzi proseguire a distruggerne. E, poiché siamo anche malfidenti per natura, aspettiamo anche di leggere i dati di settembre, mese in cui la destagionalizzazione è meno problematica che in agosto.(...)

Milizie all’assalto del petrolio L’Italia teme la “fine” della Libia (da laStampa.it)

(...) Il governo italiano segue la situazione, e proprio la Libia è stata uno dei principali argomenti di cui hanno parlato Enrico Letta e Barack Obama nel chiuso dell’ultimo, recente incontro alla Casa Bianca: hanno concordato, data la delicatezza della situazione, di non dare «pubblicità» all’argomento, ma qualcosa è filtrato. L’Italia, per gli Stati Uniti, per la comunità internazionale, e per il retaggio di una storica influenza oltre che per la presenza di forti interessi nazionali, è in prima linea nella stabilizzazione della Libia. 

Operazione complessa e che passerà, si è deciso in quell’incontro nella Sala Ovale, per una Conferenza di pacificazione che si terrà a Roma nei primi mesi del 2014 (anche se non è chiaro se prima o dopo le elezioni per l’Assemblea in Libia). Ma Enrico Letta ha chiesto a Obama che l’Italia non sia lasciata sola nel difficile compito: quella Conferenza dovrebbe tenersi sotto l’egida della comunità internazionale, attraverso l’Onu. 
È l’unica via possibile, tentando di portare a uno stesso tavolo, in territorio amico, tutti i rappresentanti delle varie fazioni: tuareg, berberi, islamisti, divisi (e moltiplicati) per tribù e per le tre principali regioni, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.  

Uno degli ostacoli, è proprio nell’attuale premier provvisorio Ali Zidan: un governo troppo fragile per controllare il Paese, e fragile al punto che lo stesso premier è stato oggetto di un sequestro-lampo poche settimane orsono, e indebolito anche dall’esser diviso in due fazioni: i liberal-tecnocrati (come lo stesso Zidan) e gli islamisti della locale Fratellanza musulmana. Una Conferenza, quella di Roma che dovrà rovesciare i principi di quella precedente, di Parigi, che puntò tutto su «institution building» e giustizia: non ci si era accorti, evidentemente, che prima al Paese occorre un patto sociale e politico. Che fermi, anche, la possibile tripartizione del Paese, visto che la Cirenaica mira ad un’autonomia «federalista». (...)

http://www.lastampa.it/2013/10/31/esteri/milizie-allassalto-del-petrolio-litalia-teme-la-fine-della-libia-ejS9atsi3bM8VJNDqSst9K/pagina.html

Non E' Quello Il Problema (legge elettorale e preferenze)


No alle preferenze. Non è quello il problema della legge elettorale. 


Non mi interessa esprimere una preferenza, se la campagna elettorale arriva a costare cifre impensabili e se i partiti non sono in grado di fare un lavoro collettivo e plurale che garantisca stabilità, governo e al tempo stesso capacità di ascolto dei cittadini. 

Perché la preferenza - con un peso eccessivo delle spese elettorali e con partiti deboli (che non è lo stesso di leggeri, forse oggi abbiamo partiti pesanti e deboli...) - è totalmente inutile, è una parvenza di democrazia.

Non è la preferenza che fa il buon rappresentante, ma un insieme strutturato di pratiche e regole che fanno sì che il lavoro delle Camere sia ben compreso dai cittadini, e controllato alle scadenze naturali (non in ogni secondo con il ricatto di una tv...). 

La forza della politica è la solidità delle istituzioni, e non dipende dal voto dei cittadini. Costituzionalismo e liberalismo sono precedenti alla - e indispensabili premesse della - democrazia.

FMM

mercoledì 30 ottobre 2013

Fuga Sbagliata

Scelta sbagliatissima, arrendersi alla proposta di voto palese sulla decadenza di Berlusconi.


Questa fuga dalla responsabilità politica mi ricorda - con angoscia - le dimissioni repentine e frettolose dei ministri PDS dal governo Ciampi, dopo che Craxi era stato salvato da un voto parlamentare. Fu l'illusione di apparire distanti, altri, puri. Un'illusione che è quasi sempre fallace, e pericolosa, in politica. 

Chissà se si ripeterà lo scenario di allora. 

Mi consola leggere che molti altri - da quel che si legge nei social network - percepiscono la gravità dell'errore. Forse un giorno capiremo meglio che questi sono stati tempi confusi, in cui la sinistra e la destra si sono mescolate in una nebbia di incapacità e debolezza, di quasi totale mancanza di leadership, se proprio vogliamo chiamarla così. 

Non sarà però un nuovo leader - giovane o bello che sia - a risollevare il tono complessivo del Paese. Sarà uno sforzo comune, non la mossa geniale di un trascinatore. Sarà un percorso lento e contraddittorio. 

Perché è così la democrazia, anche quella che decide. Lenta e un po' assurda. 
Ma la talpa scava, e sconfigge la confusione. Che questi siano gli ultimi colpi della notte...

Francesco Maria Mariotti

martedì 29 ottobre 2013

Il Colpo Di Tosse Di Mazowiecky

Con tutta la prudenza con cui prendere le cose legate alla memoria personale... io lo ricordo, quel giorno. Quando un colpo di tosse costrinse Mazowiecky a interrompere il discorso con cui si accingeva a guidare il primo governo post-comunista, nella transizione che si era aperta in Polonia; una transizione pacifica, aiutata anche dalle scelte dell'ambiguo e lucidissimo Jaruzelski (e su come si gestiscono certe transizioni dalla dittatura alla democrazia avremmo molto su cui riflettere...).​ 

Mi ricordo che ci scherzammo su, anche in casa - perdonate il dettaglio minimo e autobiografico - con mia sorella in particolare. Di fronte ai "giganti" della Storia che crollavano, un uomo mite e debole apriva - in modo definitivo - una breccia, e cambiava la storia. Ci sembrò anche simbolicamente importante.
 
Quella figura credo fosse prossoché sconosciuta al "grande pubblico" in occidente, e anche dopo ritornò un po' in ombra (con un intervallo di nuova visibilità e impegno internazionale nei Balcani, durante le guerre civili della ex Jugoslavia).

La Storia non ama i deboli, probabilmente. Ma ogni tanto la "contraria forza" di alcuni individui si fa vedere, si rende percepibile. Magari sembrano piccoli, un po' incapaci, quasi inadatti.
 
Quasi volessero ricordarci: è inutile seguire questa potenza che ci affascina.
Basta un colpo di tosse, e ogni gigante crolla.
 
A Dieu, Mazowiecky
 
Francesco Maria Mariotti
 

(...) L'opposizione polacca, fondata su Solidarnosc, era di gran lunga la più organizzata all'Est anche perché, nonostante le immagini standardizzate ed errate all'Ovest fondate solo su un certo di tipo di cattolicesimo molto tradizionale, essa era in realtà un grande Comitato di Liberazione Nazionale molto eterogeneo ed unito solo dalla volontà di giungere a una democrazia pluralista.
Tra i leaders di Solidarnosc vi era anche Mazowiecky, che dirigeva altresì il Kik, il club dell'intelligentsia cattolica, federato a livello internazionale all'organizzazione internazionale montiniana Pax romana, tuttora esistente http://www.icmica-miic.org/ prosecuzione a livello mondiale delle esperienze della Fuci e del movimento laureati di azione cattolica (oggi Meic), Kik che aveva contribuito a fondare sin dagli anni '50.(...)
Le elezioni del giugno 1989 plebiscitarono l'opposizione in modo non previsto quasi da nessuno: essa ottenne al senato addirittura 99 seggi e sarebbe stata anche in grado di paralizzare l'elezione presidenziale, in cui le due parti quasi si equivalevano. Con lo stesso pragmatismo utilizzato dai socialisti spagnoli la soluzione fu presto trovata secondo lo schema preannunciato già il 2 luglio dall'oppositore Adam Michnik al generale Jaruzelsky e richiamato da François Feito: "A voi la Presidenza, a noi il Primo ministro".
L'opposizione aggiunse a scrutinio segreto i pochi voti mancanti a Jaruzelsky e quest'ultimo nominò il dialogante Mazowiecky. Fu l'inizio della valanga incruenta che segnò la terza ondata democratica all'Est. Mazowiecky ebbe un ruolo chiave solo per pochi mesi (...)
 

E' morto a Varsavia all'età di 86 anni Tadeusz Mazowiecki, uno dei fondatori di Solidarnosc e premier polacco nel primo governo post comunista del blocco sovietico, nel 1989, che aprì la strada al crollo del Muro di Berlino. Mazowiecki, la cui foto con il segno di vittoria divenne una delle immagini simbolo della fine della Guerra fredda, era stato l'architetto della "tavola rotonda" tra le autorità comuniste fedeli all'Urss e l'opposizione che portò alle prime elezioni parzialmente libere del blocco comunista, vinte da Solidarnosc.
"E' stato il miglior premier che la Polonia abbia mai avuto", ha commentato Lech Walesa, il premio Nobel per la Pace 1983 che lo designo' alla guida del governo dopo averci fondato insieme il sindacato-partito nel 1980. Il ministro degli Esteri, Radoslaw Sikorski, lo ha ricordato come "uno dei padri della liberta' e dell'indipendenza in Polonia". Nei 15 mesi in cui fu primo ministro, Mazowiecki guidò il Paese nella transizione verso la democrazia e il mercato libero. Giornalista, filosofo e scrittore, Mazowiecki era nato nel 1927 a Plock, nella Polonia centrale, da una famiglia nobile. Negli anni '50 fu espulso dall'associazione cattolica Pax, controllata dai comunisti, per aver guidato un'opposizione interna al gruppo. Durante lo stalinismo in Polonia, fu accusato di essere un agente americano o una spia del Vaticano. Nel 1952 pubblicò il pamphlet 'I nemici rimangono gli stessi', su una presunta alleanza tra il movimento di resistenza anti comunista polacco e i criminali di guerra nazisti. Nel 1992 era stato nominato inviato speciale dell'Onu nell'ex Jugoslavia, dove ha partecipato attivamente alla battaglia per i diritti umani prima di dimettersi nel 1995 lamentando la mancanza di un intervento internazionale contro le atrocità in Bosnia-Erzegovina. Nel 2005 aveva fondato il Partito democratico polacco e fino al 2010 era stato consigliere del presidente Bronislaw Komorowski.


(...) Nel suo memorabile primo discorso, Mazowiecki evitò ogni accento di vendetta o caccia alle streghe. Parlò invece di disgelo e intesa nazionale, "perché il nemico comune è l'inflazione al 2200 per cento che uccide la Polonia". Ci riuscì presto, con l'appoggio di Jaruzelski e col coraggio di riforme durissime, decise dal superministro delle Finanze, Leszek Balcerowicz. Molti giovani emigrarono per cercare lavoro, ma in pochi anni lo zloty, la valuta nazionale, si agganciò prima al marco tedesco, poi all'euro. L'intesa con Kohl, con Gorbaciov ancora alla guida dell'Urss e poi con Bruxelles funzionò subito, in corsa la Polonia entrò in Ue e Nato. Oggi moltissimi dei giovani emigrati allora sono rientrati con alti incarichi economici. La situazione economica è una delle più robuste d'Europa, con disavanzo e defict in rapporto al prodotto interno lordo (rispettivamente 2,9 e 50 per cento circa) ben minori di quelli francesi o olandesi, l'economia rallenta come ovunque nella Ue ma cresce ancora un po' di più di quella tedesca. E al contrario dell'Ungheria di Orbàn, nessun ex leader della passata dittatura è vittima di processi-vendetta.
Passata la sua stagione di leader, Tadeusz viveva solo, da vedovo, in un miniappartamento vicino alla stazione Raclawicka del metrò: tv in bianco e nero, niente computer. Aveva espressamente rifiutato ogni prebenda o privilegio da ex Grande, ma quando gli chiedevi un'intervista diceva subito sì, in tedesco o francese perfetti. Fino all'ultimo, gli integralisti cattolici nella Chiesa polacca e nella destra politica polacca hanno sparato a zero su di lui come un traditore, accusandolo di "compromessi con i generali criminali". Lo odiavano anche i capi della destra nazionalpopulista guidata oggi da Jaroslaw Kaczynski. Eppure il miracolo della transizione non violenta di un Impero intero, e la stabilità e forza economica della Polonia di oggi, restano il merito storico dell'anziano vedovo cattolico liberal morto poche ore fa in un semplice ospedale pubblico di Varsavia.

domenica 27 ottobre 2013

Le sfide culturali per l’America dietro il caso Datagate (Centro Einaudi - Formiche)

(...) Il mio timore è che se si deciderà di risolvere il problema posto dalla posizione dominante americana con la trasformazione del mondo globalizzato in un arcipelago di “grandi spazi”, a sparire non sarà solo la possibilità della Nsa di carpire le telefonate di chiunque ovunque nel mondo. A sparire potrebbe essere molto di più, vista la scarsa propensione al pluralismo che caratterizza alcuni dei grandi spazi planetari. Un mondo in cui i confini della rete si fermassero alle frontiere continentali o nazionali non sarebbe più il nostro mondo. Eppure è in questa direzione che si sta andando. Sia la Germania che la Francia si stanno facendo portatrici di iniziative di segmentazione che porterebbero inevitabilmente a un disaccoppiamento della rete trans-oceanica che oggi collega le due sponde dell’Atlantico. I tedeschi lo hanno dichiarato dopo le prime rivelazioni secondo cui gli Stati Uniti spiano sistematicamente le telecomunicazioni interne dell’Unione europea. I francesi non hanno mai fatto mistero di voler difendere a tutti i costi la differenza culturale che caratterizzerebbe la francofonia. Se dovesse capitare davvero forse non si andrà verso il mondo di arcipelaghi immaginato da Schmitt e reinterpretato da filosofi come Cacciari. Ma di sicuro sarà finito il mondo in cui stiamo vivendo ora. Che con tutti i suoi difetti, per noi occidentali non è poi il peggiore dei mondi possibili (Italia a parte, ma per motivi endogeni).
Per questo gli Stati Uniti dovrebbero subito correre ai ripari, proponendo loro una qualche misura di controllo delle proprie capacità di intelligence. È nel loro interesse. E forse anche del nostro. O perlomeno di chi non crede nell’omogeneità dei “grandi spazi” e ritiene che le disomogeneità attraversino tutte le società in ogni punto dello spazio e che queste disomogeneità siano un giacimento di ricchezza culturale. Proprio come la rete inventata dagli americani nella loro folle corsa verso la piena realizzazione del primo emendamento. “Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances.” (“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione, o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea, e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti.”)
Il problema è oggi come costringere gli Stati Uniti ad applicare il quarto emendamento al resto del mondo come lo applicano a se stessi. “The right of the people to be secure in their persons, houses, papers, and effects, against unreasonable searches and seizures, shall not be violated, and no Warrants shall issue, but upon probable cause, supported by Oath or affirmation, and particularly describing the place to be searched, and the persons or things to be seized.” (Il diritto dei cittadini ad essere assicurati nelle loro persone, case, carte ed effetti contro perquisizioni e sequestri non ragionevoli, non potrà essere violato, e non potranno essere emessi mandati se non su motivi probabili, sostenuti da giuramenti o solenni affermazioni e con una dettagliata descrizione del luogo da perquisire e delle persone o cose da prendere in custodia.) (...)

Abe Interventista: Parole o Rischi Concreti?

Un messaggio chiaro: il Giappone reagirebbe non solo fidando nell'appoggio e nell'ombrello nucleare americano, ma confidando sulla propria forza. Del resto, per la prima volta da quanto fu stipulato il trattato di Difesa tra Stati Uniti e Giappone, le due parti hanno approntato nei minimi dettagli un piano militare congiunto per contrastare un eventuale attacco su una specifico territorio: le Senkaku, appunto, nel Mar cinese orientale. 

Dal nostro corrispondente Stefano Carrer - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/GfC7r

***

Sul Giappone scrivevo in un intervento su una ml il 26 luglio scorso

Forse è un ragionamento troppo semplicistico, ma la politica "aggressiva" di Abe in termini monetari (discutibile sotto diversi punti di vista, anche se nel breve periodo ha dato ossigeno all'economia giapponese) sembra trovare un parallelo nel campo della difesa. Entro certi limiti la cosa può essere comprensibile, ma rimane un segnale fortemente inquietante; soprattutto perché rappresenta di fatto un ulteriore incrinatura nel sistema delle relazioni internazionali, sempre più "anarchico", sia dal punto di vista economico che politico-militare. 

Inoltre, la competizione anche in termini monetari può avere il risvolto di "rovesciare" sull'esterno le dinamiche della crisi: da un lato è una comprensibile strada per prendere tempo e ossigeno, dall'altra però può rallentare la presa di coscienza della necessità di riforme interne, spostando appunto su altro - e altri paesi, dunque - la responsabilità dei problemi economici del paese. Anche in questo senso - pur con tutte le cautele nell'evitare facili automatismi o determinismi - nazionalismo economico e nazionalismo più politico-militare possono darsi una (pericolosa) mano. La speranza è che la retorica di Abe rimanga tale, ovviamente.

Però chissà, forse dovremo vedere e affrontare una qualche forma di conflitto armato potenzialmente globale (magari proprio sul versante delle "nuove potenze", vd. appunto isole Sensaku), per essere costretti a ricercare una nuova forma di collaborazione. 

Speriamo non sia così; magari "basterà" avvicinarci al rischio. E se invece deve essere una qualche forma di guerra, speriamo e prepariamoci perché le cose avvengano in modo da limitare i danni. Anche i conflitti armati sono diversi da un tempo, e non c'è da pensare a uno scenario apocalittico, credo. 
Ma l'anarchia del sistema internazionale, e l'incapacità odierna degli Stati Uniti e di altre superpotenze a esercitare una leadership globale, possono portare a costi troppo elevati e non strettamente necessari.

L'alba comunque arriverà, su questo non c'è da aver paura; ma sta a noi decidere quanto far durare la notte di questa crisi. 

Francesco Maria

(...) La riforma è motivata dai timori del Paese riguardo alle ambizioni nucleari della Corea del nord e alla disputa, attualmente in corso, sul controllo di un gruppo di isolette nel Mar della Cina orientale, chiamateSenkaku in Giappone e Diaoyu in Cina, controllate da Tokyo, ma rivendicate da Pechino. Proprio stamani, è stata segnalata dalle autorità giapponesi un'incursione nelle acque territoriali di tali isole da parte di 4 guardacoste cinesi, la quale ha reso il clima tra i due Paesi ancora più teso.
Peraltro, l'articolo 9 della Costituzione giapponese - redatto da forze di occupazione americane dopo la sconfitta del Paese nella seconda guerra mondiale - prevede l'uso delle forze militari solo nel caso diautodifesa, escludendo la possibilità di iniziare unilateralmente un'azione militare. Ma, in realtà, le "Self-Defense Forces" del Giappone sono uno degli eserciti più forti dell'Asia. La riforma in quest'ottica potrebbe comportare un'espansione dell'attività militare, ma il Ministro della Difesa Itsunori Onodera ha fatto sapere ai giornalisti che non vi è alcun cambiamento di base nella politica nazionale di "sicurezza esclusivamente difensiva", e ha negato che possano essere compiuti "attacchi preventivi" nei confronti di obiettivi nemici.(...)
Ma funzionerà? Mentre la politica monetaria sperimentale è ora ampiamente accettata come una procedura standard nell’odierna era post-crisi, la sua efficacia resta dubbia. Quasi quattro anni dopo che il mondo ha toccato il fondo sulla scia della crisi finanziaria globale, l’impatto del Qe è stato straordinariamente asimmetrico. Mentre le massicce iniezioni di liquidità sono state efficaci nello scongelare i mercati del credito e hanno messo fine alla fase peggiore della crisi – come testimonia il primo ciclo di Qe attuato dalla Fed nel biennio 2009-2010 – i successivi sforzi non hanno di Stephen S. Roach - Il Sole 24 Ore - leggi su Le illusioni di politica monetaria di Shinzo Abe 

Nicoletta Giorgi, Primo Presidente Donna dei Giovani Avvocati

Nicoletta Giorgi, 38 anni, padovana, è il primo presidente donna della storia dell'associazione italiana giovani avvocati, ed è anche, dagli anni '90, il primo leader degli under 45 che arriva da una città del nord. (...)

Quale sarà la priorità della sua presidenza? 

Certamente il contratto per i praticanti e i collaboratori di studio. Penso alla subordinazione prevista dal Dl 276/2003 che regola le prestazioni continuative e personali. Ci sono troppi colleghi che mandano avanti gli studi senza alcun riconoscimento. Il contratto riconoscerebbe il cambiamento da anni in atto nella nostra professione, e introdurrebbe le tutele che spettano a chi lavora in via esclusiva. (...)

Più in generale, quali sono le sue idee, per risolvere i problemi della giustizia? 

Un migliore funzionamento della giustizia passa per l'ultimazione del processo telematico e un radicale cambiamento della gestione degli Uffici. Sarebbe opportuno introdurre la figura del Direttore generale del tribunale: un "laico" che diriga e controlli efficienza e raggiungimento degli obiettivi. Penso poi alle camere arbitrali come alternativa alla giurisdizione e a una riforma generale del sistema giudiziario penale e carcerario. 

di Patrizia Maciocchi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/6kUsM

Memoria A Scuola (David Bidussa)


La discussione sulla bontà o meno di una legge contro il negazionismo mi pare testimoni di un malessere profondo che non si risolve scegliendo uno dei due campi. Personalmente non sono a favore di una legge in tal senso, ho aderito all'appello uscito oggi sul "Sole 24 ore", ma questo è un dato che non modifica la realtà.
Altre mi sembrano le considerazioni che ciascuno di noi dovrebbe fare. Una mi pare questa.
I nati del 1994 (quelli che hanno fatto la maturità nel luglio di quest’anno) sono i primi ad aver vissuto tutta la propria carriera scolastica con un calendario segnato dal "Giorno della Memoria". Dunque si è chiuso un ciclo. Prima di discutere se sia opportuna o meno una legge sul negazionismo mi piacerebbe che ci prendessimo sul serio e ci chiedessimo: I risultati sono quelli attesi? i percorsi didattici e formativi che abbiamo battuto in questi tredici anni funzionano? Sono adatti e consoni ai nativi digitali? Altrimenti: come si ripensano? Come si organizza un “viaggio della memoria” per la generazione “3.0”? Il pacchetto di parole, di concetti, di immagini che abbiamo utilizzato in questi tredici anni funziona ancora? Il kit didattico è ancora valido? Abbiamo bisogno delle stesse competenze? Oppure: questi tredici anni sono stati un esercizio inutile, uno spreco di tempo, una parentesi che forse si può anche chiudere in silenzio?

sabato 26 ottobre 2013

L'Uranio Della Groenlandia (da ilPost.it)

Con un voto favorevole di 15 a 14 (e due assenti) il parlamento della Groenlandia ha votato per abolire il divieto totale di estrazione dell’uranio. Si tratta del primo passo per permettere alle compagnie straniere di cominciare a estrarre il minerale dell’isola, anche se difficilmente sarà possibile cominciare prima di due anni o forse più.
L’obiettivo delle compagnie minerarie in realtà non è tanto l’uranio, quanto le cosiddette “terre rare”, che in Groenlandia si trovano spesso mischiate con il minerale radioattivo e quindi, secondo la legge, non possono essere estratte. Le terre rare sono un componente fondamentale per molti prodotti tecnologici, come ad esempio gli smartphones. Fino al 2012 la Cina estraeva da sola circa il 90 per cento di tutte le terre rare (ma la sua percentuale di mercato sta scendendo).
La Greenland Minerals, una compagnia mineraria australiana, ha già compiuto dei sopralluoghi nel sud del paese, dove si trovano le principali riserve di terre rare e ha stimato che sarebbe in grado di estrarne fino a 40 mila tonnellate l’anno. Nel 2013 si prevede che la produzione totale di terre rare arrivi a quasi 130 mila tonnellate, di cui almeno 87 mila estratte nella sola Cina.
Uno dei problemi nello sfruttamento dei giacimenti della Groenlandia è che l’isola è tuttora un territorio semi-indipendente dal regno di Danimarca, abitato da circa 57 mila persone in gran parte di etnia inuit. Il ministro del Commercio danese ha già dichiarato che lo sfruttamento delle miniere nell’isola avrà implicazioni sulla politica estera e sui problemi della sicurezza e della difesa della Groenlandia, temi sui quali il paese non ha ancora autonomia. (...)

Non tutti Gli Snowden Vengono Per Nuocere (Forse...)

Lo scandalo Datagate, come bel argomentava il pezzo di Venturini sul Corriere, sa di grande ipocrisia. Già scritto, e riprendo solo per accorciare l'argomentazione:  "L'indagine dei dati web (...) è un'arma potentissima di prevenzione a cui probabilmente è impossibile rinunciare (come è impossibile rinunciare alla bomba atomica, in campo più strettamente militare, in un certo senso)". 

Ora, al netto dei grandi proclami, inevitabili per "salvare la faccia", sarebbe necessario capire cosa si intende quando si propone di "regolamentare" l'attività di spionaggio fra gli alleati, che sempre c'è stata e sempre ci sarà. Difficile pensare che possa esserci un galateo pienamente condiviso, perché inevitabilmente lo stato che avrà a disposizione più tecnologia farà in modo di utilizzarla; e non c'è "giudice terzo" che possa decidere il contrario, e soprattutto imporlo. 

Forse è anche il caso di non dimenticare che abbiamo "scoperto" (si fa per dire) che gli Stati Uniti ci spiano, ma rischiamo di dimenticarci che il gioco viene portato avanti anche da paesi che non sono propriamente alleati, e che hanno interessi in netto contrasto con i nostri. E in quesi paesi non è permessa una libera discussione sull'intelligence.

Proviamo a girare la cosa in positivo, anche perché non si può fare altro. Lo scandalo potrebbe portare inaspettati benefici, se i gruppi dirigenti (non solo politici) dei paesi coinvolti sapranno giocare queste carte: (1) sensibilizzare l'opinione pubblica, renderla un po' più "disincantata" (ma non cinica) sull'argomento spionaggio può servire a far capire che se si vuole competere in questo campo, bisogna fare investimenti di lungo periodo, e scommettere su tecnologie e fattore umano. Vogliamo "difenderci"? bene, allora dobbiamo pagare. (2) Condivisione delle strategie di intelligence fra paesi alleati; non potrà probabilmente mai essere una condivisione totale, come si diceva. Però la situazione di crisi - e la relativa debolezza degli Stati Uniti (forse neanche la più grave di questo periodo) - possono aiutare a trovare non un "galateo", ma obiettivi condivisi, e percorsi che si ostacolino il meno possibile (perché un po' fra alleati ci si deve ostacolare, è inevitabile...)

Se l'opinione pubblica maturerà un giudizio più complesso su quale deve essere l'impegno dei paesi europei nelle attività di sicurezza; e se paesi europei e Stati Uniti troveranno il modo di ridefinire le loro comuni priorità d'azione (non per chiedere "permesso?" quando è impossibile, ma per agire più coordinati e decisi contro i veri nemici) allora forse tutta questa confusione potrebbe non essere stata vana.

Francesco Maria Mariotti

martedì 22 ottobre 2013

Apologia Disincantata (da ilfoglio.it)

Consiglio caldamente un bell'articolo comparso sul Foglio.it, e di cui riporto alcuni stralci. Dice bene, secondo me, molti dubbi che possono venire (alzo la mano per primo) seguendo papa Bergoglio. E risponde bene a queste perplessità, segnalando anche la confusione con cui spesso viene frainteso questo papa (forse un po' anche per responsabilità sua); si legga per esempio il brano sulla differenza - essenziale - fra solidarietà e carità cristiana, e l'ironia con il quale l'articolista sottolinea la "riabilitazione" della teologia della liberazione, ora che "non conta più nulla".
Una riflessione utile, e bella. 

Buona lettura!

Francesco Maria Mariotti

Non sono mai stato tanto inseguito da un Papa come negli ultimi sette mesi. E’ ovunque, in tutte le salse, in tutti i menu, cattolici e laici senza distinzione. Senza distinzione, purtroppo: noi cattolici – bestemmio in chiesa, mi rendo conto – dovremmo parlarne di meno, dovremmo sottrarci alla papolatria mediatica imperante, e in ogni caso non dovremmo ricondurre tutto a lui ma semmai fare di lui un punto di partenza per arrivare al nocciolo della questione, per dirla con quel vecchio cattolicastro di Graham Greene. (...)

Rispunterebbe così, con Bergoglio, lo spettro del “soggettivismo modernista”, la “morale dell’intenzione”, insomma un cristianesimo dove “la fede è tutto, la dottrina niente”, “una posizione del cuore, un flatus evangelico in presa diretta con il Signore”.
Certo, se il cuore di cui parla Bergoglio fosse quello dei romantici e dei loro epigoni sanremesi; se l’amore che ci raccomanda fosse quello cantato prima dai trovatori e poi su su fino a Wagner, cioè una figura narcisistica e fondamentalmente gnostica (De Rougemont docet); se la misericordia con cui ci martella un giorno sì e l’altro pure fosse un affare puramente sentimentale, emotivo, Ferrara avrebbe ragione. Credo però che il lessico bergogliano sia schiettamente biblico. E la Scrittura ha giocato e gioca un ruolo fondamentale nella vita di quest’uomo non perché sia un prete, e quindi fa parte del corredo, ma perché c’è stato un momento in cui l’ha ripresa in mano e in controluce vi ha riletto la sua vita (succede in tutte le grandi storie di fede, da Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola).
Ebbene, per la Scrittura cuore è sinonimo di libertà, è il luogo della scelta, dei ricordi e anche delle idee  (...)
Anche su “soggettivismo” e “protestantizzazione”, che pure qualche membro del Sacro collegio gli imputa sottovoce, ci andrei piano. Mi pare che il ruolo della chiesa nell’esperienza credente non venga affatto sminuita nella sua predicazione, tutt’altro. Basterebbe rileggere, anzi riguardare e risentire perché mimica e timbrica sono fondamentali, le sue ultime catechesi del mercoledì in Piazza San Pietro in cui ha commentato gli articoli del Credo che riguardano la chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. Altro che “presa diretta con il Signore”: extra ecclesia nulla salus! Con Bergoglio la dottrina non è in discussione – o meglio lo è come sempre perché, con buona pace di qualche giapponese ancora asserragliato nella foresta, lo sviluppo del dogma è un dogma – e tantomeno è in pericolo la tradizione. Diciamolo una buona volta: tradizione non è l’enorme monolite sospeso nell’aria che dipingono ossessivamente certi cattolici un po’ surrealisti e molto lefebvriani, un’entità fuori dal tempo, ma una cosa viva che passa di mano in mano, “quasi per manus traditae” come recita il Concilio di Trento (Trento, dico), di generazione in generazione.
Insomma, il lessico bergogliano non va preso sotto gamba né frainteso. Certo, a volte è lui che non aiuta. Quando lo sento parlare di solidarietà mi viene il prurito perché è una parola totalmente sputtanata. Lui invece la usa in continuazione, il 22 settembre a Cagliari ha sostenuto che solidarietà “rischia di essere cancellata dal dizionario perché è una parola che dà fastidio, dà fastidio!”. A me pare esattamente il contrario: è un termine innocuo, a buon mercato, sulla bocca e nel portafoglio di tutti. Chi è così iena da rifiutare l’obolo per una buona causa? Chi oggi non fa solidarietà? Persino quando ricarichi il cellulare c’è un’opzione per devolvere automaticamente un euro in beneficenza! Un’aberrazione, a pensarci bene: il farsi prossimo del buon samaritano di evangelica memoria, gesto personale e concreto, si perverte in tic anonimo e irriflesso, si istituzionalizza e perde sapore. Ecco perché non mi è piaciuto quando ha raccomandato ai suoi di accontentarsi di un’auto piccola, cosa intelligente peraltro, pensando a “quanti bambini muoiono di fame”. Ma come, già non riesco a farmi carico di chi ho intorno e devo pure sentirmi in colpa per chi non ho mai visto e mai conoscerò? Sindrome di Lampedusa: rispondere sempre e di chiunque. Invece no. A meno che io non sia pazzo, posso essere responsabile soltanto di ciò per cui posso fare qualcosa davvero, concretamente, qui e oggi. Non è affatto la solidarietà che rischia di scomparire ma il farsi prossimo, la carità di evangelica memoria. Ci è rimasto il surrogato, ma non è la stessa cosa. (...)
Il problema è che, come scrive Paolo Prodi, la chiesa ha smarrito da un pezzo la vocazione profetica e ha preferito buttarsi sulla mistica, le visioni, le apparizioni. “Dopo il Concilio Vaticano II non abbiamo avuto, salvo alcune eccezioni, lo sviluppo della profezia che pure sembrava implicito nelle grandi intuizioni di Papa Giovanni XXIII e nelle deliberazioni conciliari sulla chiesa e il mondo moderno”. Si è scelta un’altra strada, quella dell’utopia, la via orizzontale dei movimenti ecclesiali di base e della Teologia della liberazione che ben presto “si trasformò in ideologia della rivoluzione”. E adesso si danno pure la pena di riabilitarla, quando non conta più nulla: la solita operazione di recupero fuori tempo massimo di cui sono specialisti i Sacri palazzi. (...)
 Il vero discrimine è questo, tra fraternità e confraternite; tra chi cerca il Signore, etero gay o trans che sia, e chi si trastulla col potere. Colui che giudica i cuori, in ogni caso, abita al piano di sopra. Bergoglio non ha bisogno di atteggiarsi a “omofilo” perché non è mai stato omofobo. E’ un uomo risolto, che sta bene nella sua pelle, è evidente. Ci sta tanto bene che si prende il lusso di dialogare con chi vuole, anche con i patriarchi dell’opinione pubblica. (...)

A Dispetto Della Legge 40

(...) ROMA - Per la prima volta la diagnosi preimpianto verrà eseguita su una coppia fertile in una struttura pubblica, a dispetto della legge 40 sulla fecondazione assistita. La Asl Roma A, a seguito della sentenza del Tribunale di Roma che le ha intimato di effettuare la diagnosi genetica preimpianto (PGD) su una coppia fertile affetta da fibrosi cistica, ha stabilito che l’intervento sarà effettuato direttamente in una propria struttura, l’unità operativa di fisiopatologia della riproduzione del centro Sant’Anna, diretta dal professor Antonio Colicchia. È la prima volta in Italia che una struttura pubblica è chiamata ad erogare la prestazione di diagnosi genetica su un embrione prima del suo inserimento nell’utero.

LUNGA BATTAGLIA LEGALE - Il presidente della commissione Politiche e sociali del consiglio regionale del Lazio, Rodolfo Lena, ha seguito con attenzione la lunga battaglia legale di Rosetta Costa e Walter Pavan, informata nella giornata di ieri dallo stesso professore Colicchia della decisione assunta dalla Asl. «Si apre così - spiega Lena - una nuova strada per tante coppie, con l’ulteriore buona notizia costituita dal fatto che il Sistema sanitario regionale farà certamente da calmiere rispetto ai costi molto elevati della diagnosi genetica preimpianto. Come istituzione non possiamo che supportare questi esempi di eccellenza nati in senso a una nostra Asl, grazie ad investimenti strategici e alla valorizzazione delle professionalità».(...)

Chi è Karnit Flug?

È Karnit Flug il nuovo governatore della Banca centrale d’Israele. Già vice del predecessore Stanley Fischer, e facente funzione dopo le dimissioni di quest’ultimo lo scorso giugno, Flug è stata scelta dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dal ministro delle Finanze Yair Lapid, dopo una saga durata 112 giorni e l’evaporazione delle candidature di tre economisti di punta (...) Nel frattempo, Flug, nata in Polonia nel 1955, emigrata in Israele con la famiglia a tre anni, laurea all’Università ebraica di Gerusalemme, dottorato alla Columbia di New York, esperienze al Fondo monetario internazionale e all’Inter-American Development Bank, teneva il timone e aspettava. Pur con la sponsorizzazione di Fischer infatti, non riscuoteva la simpatia del premier Netanyahu. Che però alla fine si è reso conto di avere davvero in casa migliore delle soluzioni possibili, dopo mesi di incertezza e frustrazione che rischiavano di irritare i mercati. L’intero processo di nomina è stato fortemente criticato da Lapid, che lo ha definito orribile e sbagliato. Cosa aspettarsi ora da Flug? Scelte in linea con quelle del suo predecessore, una politica monetaria espansiva per favorire la crescita, trasparenza e fissazione di obiettivi quantitativi da perseguire. Tra le preoccupazioni maggiori in questo momento, quella di contrastare la debolezza del dollaro rispetto allo shekel, in particolare per quanto riguarda le esportazioni, paventando società costrette a pagare i dipendenti con la costosa moneta israeliana, ricevendo pagamenti nella valuta dello zio Sam. Fenomeno che, senza correre ai ripari, Flug ritiene possa comportare la perdita di posti di lavoro. È stata proprio la lucidità dei ragionamenti dell’economista su questi temi, esposta nel corso di una delle riunioni estive, a convincere Netanyahu alla svolta. Anche se alcuni fanno notare come anche la recente scelta del presidente degli Stati Uniti Barack Obama di nominare alla guida della Federal Reserve proprio una donna, Janet Yellen, pure lei vice del precedente governatore Ben Bernanke, non sia certo passata inosservata a Gerusalemme. -
 

sabato 19 ottobre 2013

Pensioni Dignitose. Il Rischioso Welfare Del Futuro

Accennavo giusto un anno fa al fatto che la rifiorma previdenziale era un "argomento che comunque fra qualche anno probabilmente dovremo riprendere in mano per capire se il valore delle nostre pensioni basterà a garantirci un'esistenza dignitosa". Non ero affatto originale (quasi mai lo sono), e in realtà il problema è come al solito che il dibattito Riforma Fornero-sì/Riforma Fornero-no nascondeva molti aspetti di lunga durata per i quali in ogni caso - come per tutte le vere riforme, che non sono decaloghi intoccabili (neanche il Decalogo "vero" - diciamo così - lo è, d'altro canto...) - si sarebbe dovuto ripensare ancora al meccanismo che tutela le persone in età non più lavorativa. 

Oggi quindi le dichiarazioni del ministro Giovannini non devono stupire, e devono piuttosto obbligarci a iniziare un ripensamento ulteriore su come intendiamo costruire il welfare futuro. Basterà rafforzare la parte privata della previdenza? E' dubbio, anche perché la parte privata si deve finanziare sottraendo soldi oggi a già magri stipendi. Riprendere un rafforzamento pubblico? Dipende da molti fattori, ma il rischio è di ritornare a distorsioni come le abbiamo vissute con il modello retributivo. 

La partita del welfare si gioca perciò anche su "come vogliamo vivere" la nostra vecchiaia, sul fatto che forse in futuro dovremo incentivare l'avvicinamento delle persone, il fatto che facciano rete. La coabitazione fra anziani soli, per esempio, incentivata per ridurre le spese. La creazione di quartieri "ad hoc" con la possibilità di gestire servizi in modo integrato, abbassandone i costi. Cose che già in parte vengono ipotizzate e forse anche sperimentate, ma che ancora faticano a prendere piede come consapevolezza pubblica. 

Richiamo in punta di piedi, perché temo molto la connessione delle cose (ma c'è, questa connessione purtroppo), il fatto che dobbiamo guardare con realismo il terribile problema del costo della sanità, che potrebbe portarci in futuro alla tentazione - grave - di un ripensamento dell'universalità del diritto alla salute, almeno inteso nel senso che debba essere sempre garantita a tutti e a tutte - indipendentemente da età e situazione personale - una cura. La china è molto scivolosa, e dobbiamo lottare perché il diritto alla salute sia sempre garantito, ma non è affatto scontato che possiamo vincere questa partita. 

La battaglia per un welfare per tutti è ancora dunque al centro dell'agenda politica europea e occidentale. Forse - approfittando del fatto che anche nei paesi che si stanno rafforzando economicamente questo tema sta diventando rilevante (vedi i conflitti in Brasile) - sta arrivando il momento di porre la questione al centro dell'agenda - mondo.

Francesco Maria Mariotti

I Rischi del Rifiuto dell'Arabia Saudita

L'Arabia Saudita rinuncia al seggio nel Consiglio di Sicurezza. La notizia è al tempo stesso interessante ed inquietante. Perché in questi anni l'ONU di fatto è stata superata su molti dossier (vedi la guerra contro l'Iraq di George Bush junior), ma in qualche modo la comunità internazionale tentava di tornare in quel luogo di discussione, per quanto debole e bistrattato. 

Insomma, una delegittimazione de facto, che però tentava sempre di salvare le apparenze, salvare il fatto che l'ONU dovesse rimanere - alla fine dei giochi, magari, ma comunque in qualche modo presente - il luogo deputato in cui discutere le cose del mondo, almeno le principali. In questo senso il rifiuto di Riyad rischia di essere un precedente pericoloso, scivoloso. Utilizzabile anche da altri stati. 

Il rischio è a due facce, pero; perché vale anche per l'Arabia Saudita che potrebbe - se non gioca bene questa carta, anche mediatica - mettersi in un angolo: acquisire visibilità per poco, ma poi non avere forza politica (che è cosa diversa dalla forza economica, che c'è, e con la quale Riyad sta giocando pesantemente per esempio sulla piazza egiziana) per far fruttare questa posizione. In ogni caso, un problema del quale il mondo - e gli Stati Uniti, il cui operato è sempre più discutibile, da questo punto di vista - deve occuparsi.

FMM

Mentre la prima positiva tornata di colloqui sul nucleare iraniano comincia a far credere all’occidente che un accordo con Teheran sia davvero possibile, Riad sbatte la porta in faccia all’Onu rinunciando al seggio appena ottenuto al Consiglio di Sicurezza in polemica con la politica internazionale sulla Siria a suo dire fallimentare. 

Il regno saudita non ha mai fatto mistero di aver mal digerito l’intesa tra Mosca e Washinton sulla distruzione delle armi chimiche di Assad, convinto che si tratti di un escamotage russo per regalare tempo al regime contro cui si battono i ribelli armati in gran parte proprio da Riad. Il nuovo corso inaugurato dal neoeletto presidente Rohani poi, ha moltiplicato i motivi di apprensione allineando sempre più la posizione di re Abdullah a quella israeliana, una comunanza d’interessi e strategie che si estende dall’Egitto (entrambi i paesi guardano con favore al golpe militare che ha deposto Morsi), a Gaza (dove Hamas non è benvisto da nessuno dei due), fino ovviamente all’Iran, di cui l’Arabia Saudita teme le mire espansionistiche nella regione almeno quanto Israele contrasta le ambizioni nucleari. 

Adesso, a sorpresa, il gran rifiuto.(...)

Contro il negazionismo, per la libertà della ricerca storica (2007)

[riproposto sul sito di Wu Ming foundation]
Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l’esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria.
Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell’attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l’eco.
Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d’espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall’autorità statale (l’“antifascismo” nella DDR, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l’idea, assai discussa anche tra gli storici, della “unicità della Shoah”, non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altro evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.(...)

giovedì 17 ottobre 2013

Eccessi Di Polemica Con Il Quirinale

Un breve pensiero sugli eccessi di polemica nei confronti del Quirinale che sembrano segnare questi giorni. L'impressione è che vi siano settori del Paese sempre più insofferenti verso la figura di Giorgio Napolitano, vista - a torto - come garante di un sistema partitico "senza se e senza ma"; del "vecchio" contro il "nuovo" (Renzi e Grillo). 

Da una parte, è sicuramente vero che Napolitano - come già in altre fasi della storia della Repubblica - non ama gli avventurismi e i movimentismi (e ha molte ragioni dalla sua); d'altro canto si ha la percezione di politici in cerca di visibilità e consenso che molto facilmente si esprimono contro il passato, come se tutto fosse stato un errore, senza guardare al contesto e alla storia complicata della nostra democrazia. 

Si può non essere d'accordo con Napolitano su molte cose, ma per dimostrare a lui e al Paese che ci sono soluzioni diverse per i problemi, bisogna anche saperlo spiegare al di là di facili slogan. E mostrarsi capaci di tenere il Paese unito, non giocare a dividerlo su slogan. 

Molto meglio di me - e con meno "antipatia" nei confronti di alcuni dei suddetti politici - lo dice Menichini su Europa; vi invito a leggerlo.

FMM

(...) Con Bersani, tanti pensano che quel novembre 2011 sia l’origine di tutti i loro guai successivi. Non accorgendosi forse che, nella situazione italiana di allora, se si fosse andati alle elezioni molto del lavoro sporco svolto dai tecnici sarebbe toccato comunque al Pd. E soprattutto che Napolitano, avendo un polso del paese evidentemente migliore di quello dei partiti, fin da allora implorava affinché questi ultimi utilizzassero il tempo della transizione per ridarsi decoro agli occhi dei cittadini, sui temi del costo e del funzionamento della politica.
È colpa del Quirinale se, a due anni di distanza, siamo ancora a caro amico su finanziamento pubblico, legge elettorale, bicameralismo, con le conseguenze viste a febbraio nel voto a Grillo? (...) 
Dopo questi anni dovrebbe essere chiaro che fra le molte persone e istituzioni d’Italia che meritano una rottamazione non figura la presidenza della repubblica.
Rivendicare il diritto al dissenso verso il Colle fa sorridere. Siamo negli anni di Santanché e Grillo, Sallusti e Travaglio, Ingroia e Bossi: sai che originalità, dissentire dal Quirinale.
Quanto al messaggio sulle carceri, si tratta di un documento argomentato e frutto di un’oggettiva condizione di rischio per l’Italia (oltre che di umiliazione per persone che, come i giovani citati a Bari, hanno anch’essi nomi e cognomi).
Sulle carceri come sulla riforma elettorale, e in generale sulle modalità d’uscita dallo stallo italiano, la forza da mettere in campo non è quella del dissenso verbale: è quella della soluzione politica alternativa praticabile. Praticabile al punto di poterla imporre, se necessario, anche contro il parere del capo dello stato.
(...) La leadership di Renzi si misurerà – e anche sul Colle sapranno misurarla – se e quando avrà spianato la strada a una riforma elettorale possibile, anche a costo di una prova di forza con la destra a patto che la prova di forza serva all’obiettivo e non solo a mandare per aria larghe intese, governo e legislatura. Col bel risultato che presto Renzi ci riporterebbe sì a votare. Ma col Porcellum: proprio come fece Bersani, e probabilmente con lo stesso risultato.

L'ENI Si Muove Per L'Ambientalista Italiano

Segnalo questa notizia perché - indipendentemente dal merito della questione - mi pare importante il gesto; sembra anche l'ammissione esplicita di qualcosa che generalmente viene detto come "battuta" ("Il nostro vero Ministero degli Esteri? L'ENI"). Nell'incastro di visibilità e responsabilità che le multinazionali spesso si trovano ad "abitare", questo gesto di Scaroni ci dice anche - lo si sapeva già, ma è appunto reso un po' più esplicito - di una politica estera che non è fatta solo di feluche e soldati, ma anche - e soprattutto, in alcuni casi - di relazioni economiche; di contatti espliciti o impliciti. Di "nuovi" protagonisti. O meglio, di "nuove luci" che mettono tutto apparentemente più in vista. Apparentemente.

FMM

Per Cristian D’Alessandro, l’attivista di Greenpeace ancora in carcere nell’artico russo, si è mossa anche l’Eni, la compagnia petrolifera italiana che con la Russia intrattiene da decenni rilevanti rapporti d’affari. L’amministratore delegato del Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, ha raccolto l’invito dei parlamentari Pd, Sel e Sc (Anzaldi, De Petris e Molea) che nei giorni scorsi avevano chiesto il suo intervento. E mercoledì ha scritto al suo omologo di Gazprom, Alexey Miller, che ha incontrato proprio di recente a Parigi (leggi la lettera in inglese).
Gli ambientalisti di Greenpeace sono stati arrestati proprio per la loro azione dimostrativa nelle vicinanze di una piattaforma in mare della compagnia di Stato moscovita.(...)

mercoledì 16 ottobre 2013

Contro Il Negazionismo, No Al Reato Di Negazionismo

No, il reato di negazionismo non serve. Non serve alla memoria, e rischia di far apparire verità storiche come "verità di Stato", da non discutere. Verità "eccessivamente tutelate", in un certo senso, tolte al dibattito fra storici e cittadini per essere poste in uno "spazio sacro", che non può esistere - in realtà - in una società che si vorrebbe laica (e che forse lo è sempre meno, ma per strade molto "imprevedibili"). Verità che quindi appariranno - anche (e forse soprattutto) ai giovani - più fragili, non più forti. 

Come si può essere credibili difensori della libertà, se si costruiscono "tabù storici" attraverso la legge?

Inoltre, il reato di negazionismo, per quanto comprensibile qui e ora, può essere un pericoloso "precedente" a cui in futuro potrebbero appellarsi gruppi di pressione che volessero tutelare le loro "verità storiche" attraverso lo strumento della legge. Il rischio di una storia "lottizzata" è forte (e forse lo vediamo già con le diverse ricorrenze della memoria che abbiamo istituito nel nostro paese).

Combattere il negazionismo della Shoah è un dovere democratico. Ma la battaglia deve essere giocata nel campo delle opinioni e del dibattito storico, con le armi proprie del libero confronto democratico. 

Francesco Maria Mariotti

Le riforme non più rinviabili (da laStampa.it)

Il vero difetto della via prescelta per modificare la Costituzione è, ancora una volta, la tentazione di una complessiva «grande riforma», che appare invece chiaramente impossibile per le troppe contrapposizioni e per la stessa modesta elaborazione culturale dinanzi agli attuali enormi nuovi problemi. Ma piuttosto che fallire ancora una volta, ci deve essere lo spazio per approvare le più pressanti riforme istituzionali, su cui – almeno in apparenza - esiste un vasto consenso: ed è ovvio che si pensi alla trasformazione delle due Camere, ad una razionalizzazione del sistema di governo e di legislazione, ad una sostanziosa modernizzazione del sistema regionale e di amministrazione locale (oltre ovviamente alla nuova legge elettorale). Anche queste riforme esigono però grande impegno di progettazione e di scrittura: ma allora non si comprende davvero il senso delle troppe diffidenti contrapposizioni, dal momento che dovrebbe essere a tutti chiaro che riforme del genere, se fatte bene, possono largamente sbloccare il nostro sistema istituzionale.

domenica 13 ottobre 2013

Caos Libico: Il Manico Rotto E Lo Strofinaccio

"Quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro altrettanto comodo e pratico e comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio" (W.Churchill, febbraio 1944)
A volte il pensiero politico non deve fare sforzi di profondità; la frase di Churchill - se non vado errato pronunciata con riferimento al problema se mantenere o meno la monarchia in Italia - dice tutto di quella che è la regola aurea della politica estera: non deve prevalere la "giustizia" a tutti costi, ma l'ordine e la stabilità il più possibile. Certo, con questa motivazione, si richia di giustificare l'ingiustificabile, ma è un dato di fatto che il pericolo più grave, il danno più pesante, per la politica non è una dittatura feroce, ma la guerra civile, l'implosione di una collettività
In Libia - lo si è già detto troppe volte, da queste e da altre parti - si è sottovalutata la complessità di una scenario che non poteva che peggiorare, tolto Gheddafi. Quindi nessuna meraviglia su quanto successo nei giorni scorsi, con il sequestro-lampo del primo ministro. 
Piuttosto, è il caso di ricordare che l'Italia - oltre che per gli ovvi problemi di vicinanza e di immigrazione - deve preoccuparsi di questa vicenda perché è chiamata a curare in primissima linea il disarmo delle fazioni libiche: per continuare a usare i termini di Churchill, siamo chiamati in un certo senso a essere lo "strofinaccio" della situazione. Ancora troppo poco si sa dei dettagli di questo impegno, ma certo sarebbe il caso di valutarne pienamente costi e benefici, e capire quanto potrebbe durare. 
La speranza è che comunque da questo immenso male possa nascerne del bene, anche per noi: chissà, magari gli "accenni nazionali" che alcune milizie stanno utilizzando per giustificare il loro operato - vd. articolo de Linkiesta - può essere un seme di coesione da sfruttare per cercare di ricostruire una comunità statuale. E forse il nostro impegno - se saremo capaci di sfruttarlo al meglio - potrà diventare un punto importante di forza e di nuova penetrazione del nostro paese nel continente africano. Ne avremmo di che guadagnarci. 
Un pensiero a tutte le donne e tutti gli uomini che già ora - segretamente o pubblicamente  - stanno operando in quel paese, per il nostro interesse.
Francesco Maria Mariotti
Non si può negare che le milizie abbiano giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro Muammar Gheddafi. Queste brigate sono state protagoniste della presa di Tripoli nel 2011 e mantengono ancora un vasto controllo territoriale. Ufficialmente la Libia ha un corpo di polizia nazionale e un esercito. Ciò nonostante, a seguito della disintegrazione dell’apparato di sicurezza messo in piedi dal colonnello, le brigate armate sono emerse come unico sistema di polizia e di esercito funzionante all’interno del paese. In alcune zone del Paese le qataib pattugliano le strade, arrestano (e a volte detengono) presunti criminali, organizzano posti di blocco per il controllo dei documenti, e spesso dirigono persino il traffico. Un ufficiale di polizia da noi intervistato nel corso della nostra ultima visita in Libia ci rivelò di non lavorare da mesi, di avere un’uniforme piegata nel cassetto: le milizie erano ormai la nuova polizia.
Le brigate costituiscono un panorama differenziato e complesso. Alcune qataib professano un’agenda religiosa e auspicano una stretta applicazione della legge islamica nella Libia del futuro, mentre altre si presentano solo come corpi di protezione nazionale senza connotazioni politiche o religiose. Alcune milizie hanno giurato fedeltà al governo libico e si descrivono come una «polizia provvisoria», in attesa che il Paese possa tornare ad avere delle forze dell’ordine regolari e operative. Le milizie hanno una gerarchia interna che spesso rispecchia quella dell’esercito regolare, ma nella maggior parte dei casi le brigate non hanno centri di addestramento o dinamiche di appartenenza ben precise. Molte qataib appaiono come organizzazioni informali. Le loro sedi sembrano spesso dei «centri sociali» armati: baracche o case dove i ragazzi vanno a passare il tempo. Ciò nonostante le recenti vicende di Bengasi testimoniano la pericolosità di alcune di queste organizzazioni. Il governo libico sta valutando diverse soluzioni al problema delle milizie. Tra le proposte un tentativo di regolarizzare alcune delle brigate offrendo addestramento per coloro che vogliono unirsi alla polizia o all’esercito.

Ma in tutti questi paesi non abbiamo assistito a rivoluzioni, cioè a un avvicendamento, traumatico, ma per certi versi fisiologico, dei detentori del potere, in forme modellate da una maturazione di principi democratici: quanto è avvenuto, a mio parere, si può più semplicemente ricondurre alla categoria della rivolta, come quella di Masaniello, che si esaurisce in una fiammata di indignazione popolare per poi ricadere in forme già note di vario dispotismo, così come è accaduto e sta accadendo in Egitto, dove i Fratelli Musulmani, che avevano con grande abilità raccolto i frutti della cacciata di Mubarak, hanno dato palese evidenza della loro incapacità di governo e del loro concetto strumentale di democrazia, facendo ripiombare il paese in una situazione pre rivolta, con il problema addizionale che gli orologi della storia non si possono mai riportare indietro e che ai problemi del passato si sommano le instabilità del presente.
Stamane è stata diffusa una foto del premier in maniche di camicia sotto custodia di due uomini in borghese, esponenti con ogni probabilità di qualche milizia. Vedremo se nelle prossime ore seguiranno altri eventi che potrebbero portare a una sorta di golpe o se si tratta di un'azione intimidatoria di breve durata. Il Governo libico aveva formalmente protestato con Washington, ma l'opinione della maggioranza del Parlamento e delle fazioni armate è che Zeidan sapesse del sequestro Al Libbi e non avesse fatto nulla per impedire l'operazione
di Alberto Negri con un'analisi di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/TrFJD

Questo era il fronte politico, a cui tuttavia si pensava fosse possibile porre rimedio distribuendo la grande ricchezza energetica di cui dispone la Libia, il paese che vanta le maggiori riserve di greggio dell'Africa. Ma da alcuni mesi anche l'industria petrolifera è stata inghiottita dal caos. Travolta da una valanga di scioperi che ha investito la Cirenaica, dove si trovano i maggiori giacimenti di greggio e gas, la produzione petrolifera ha accusato un crollo verticale: in pochi mesi è scesa da punte di 1,5 milioni di barili al giorno (mbg), vale a dire ai livelli precedenti la rivoluzione, a meno di 150mila barili. Da tre settimane la produzione si è ripresa, ma non ha ancora raggiunto il 50% dei livelli di inizio anno. Una pessima notizia per l'Italia, che acquista dalla Libia quasi un quarto delle sue importazioni di greggio. Alla lunga il danno economico per le compagnie energetiche internazionali è ingente.
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8huc2​

Meno evidenti sono le infiltrazioni dei radicali islamici e delle formazioni terroristiche legate ad Al Qaeda nella galassia di queste milizie, alcune delle quali sono entrate addirittura a far parte delle formazioni regolari e delle forze di sicurezza governative. Alcune truppe della Cirenaica (per e-sempio la milizia dei “martiri di Derna”) sono state inglobate nell’esercito libico senza che abban-donassero una visione islamista della società. Il network di Al Qaeda è stato più attento degli occi-dentali e delle forze della Nato: ha atteso il momento giusto, dettato dalle fragili condizioni di sicu-rezza e ora sta investendo sul paese con lo scopo di trasformare in un nuovo Af-Pak la vasta area cha va dalla Cirenaica al Fezzan sino al Sahel. Il governo centrale è accusato dai jihadisti locali e internazionali di aver tradito la rivoluzione e di aver svenduto il paese all’occidente. Alcuni video-proclami degli ultimi anni di Al-Zawahiri e Abu Yahya al Libi già facevano precludere all’interesse per la Libia, soprattutto, come preventivato e purtroppo verificatosi, all’impegno militare occidentale non fosse corrisposto un altrettanto impegno civile e politico nella ricostruzione del paese.
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Il problema è semplice: la ribellione contro Gheddafi fu condotta da una miriade di milizie e gruppi armati, rispecchiante il complesso mosaico tribale della Libia. Collassata laJamahiriyya, ossia il regime costruito da Gheddafi (e non a caso basato su forti autonomie locali), le nuove autorità libiche non sono riuscite a riportare sotto il proprio controllo questi numerosi gruppi, rimasti in vita e in armi. I piani per il reinserimento dei miliziani, che prevedono tra l'altro il loro impiego al servizio dello Stato, non si sono rivelati un successo, come dimostrato dal caso Zeidan, soprattutto perché non si è stati in grado di sciogliere i gruppi pre-esistenti.
Di fatto, la Libia pullula ora di tante "compagnie di ventura", costituite per lo più su base tribale, che agiscono per conto proprio o vendono i propri servizi a enti e uffici dello Stato. I sequestratori del Primo ministro sono alle dipendenze del ministero dell'Interno per garantire la sicurezza a Tripoli.
Tutto ciò impone una riflessione su come le grandi potenze gestirono la crisi libica nel 2011.