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domenica 8 giugno 2014

Aperitivo d'autore: Israele, la paura, la speranza (11 giugno 2014)

Milano | 11 giugno 2014

Nell'ambito degli «Aperitivi d'autore», la Libreria Terra Santa propone:

Israele
La Paura La Speranza
Dal progetto sionista al sionismo realizzato

mercoledì 11 giugno 2014
Libreria Terra Santa - ore 18.30
via Gherardini, 2 Milano
Intervengono:

• Bruno Segre
, autore e giornalista

• Francesco Maria Mariotti, membro dell'associazione Sinistra per Israele

• Paolo Zanini, esperto di politica mediorientale della Santa Sede

Introduce Giuseppe Caffulli, direttore della rivista Terrasanta

mercoledì 28 maggio 2014

Escalation in Ucraina (da laStampa.it)

Precipita la situazione a Donetsk, cinta d’assedio dalle forze militari ucraine che hanno intimato ai ribelli separatisti di lasciare la città, o verranno «colpiti con precisione». Una minaccia che ieri si è trasformata in bagno di sangue. Almeno 100 gli uccisi nella battaglia per l’aeroporto internazionale della città, dilagata presto nei quartieri residenziali limitrofi. E arrivata a lambire la stazione centrale, a due passi dalla zona degli alberghi affollati di giornalisti stranieri e civili in cerca di rifugio. (...)
L’autoproclamata Repubblica popolare accusa le forze ucraine di crimini contro l’umanità: almeno 15 miliziani feriti, che venivano trasportati a bordo di due camion, «con insegne mediche», sono stati uccisi dal fuoco degli rpg. Spari anche contro un’ambulanza, denunciano ancora i ribelli che chiedono «l’intervento personale di Putin, in qualsiasi forma». Ma, lo ammettono, sperano che da Mosca decida di intervenire militarmente. Diametralmente opposta la posizione dei fedeli a Kiev, che accusano la Russia di favorire l’ingresso nel Paese di «terroristi e mercenari». Non sono mancati gli scontri a fuoco al confine, dove secondo la versione ucraina, convogli carichi di uomini armati hanno tentato di infiltrarsi per dare man forte ai “fratelli dell’est”. Blindati e militari armati di tutto punto hanno accerchiato il perimetro esterno della città, per impedire l’afflusso di volontari e miliziani pronti a difendere Donetsk a ogni costo. Ma molti, forse qualche centinaia, sono già arrivati nelle ultime 48 ore. Anche loro sono bene equipaggiati, fucili automatici, rpg a spalla, e zaini che sembrano carichi di esplosivo. 
La tensione è alle stelle: ne hanno fatto le spese i quattro osservatori Osce fermati ieri sera, e ora nelle mani dei ribelli. (...)

domenica 22 dicembre 2013

Il Pericoloso Passo Indietro della Spagna

Era forse inevitabile che la crisi economica trascinasse nella sua spirale, oltre ai diritti sociali (cosa amara, ma in qualche modo comprensibile, in quanto diritti necessariamente "economici"), anche i diritti civili dati come acquisiti. 

La scelta della Spagna - che in un certo senso aveva modernizzato quasi "in eccesso", con la politica di Zapatero che segnava un'avanguardia (forse poco elaborata e condivisa) su questo fronte - di tornare indietro su un tema come l'aborto segna un passaggio pericoloso, per vari motivi che provo a spiegare.

1. Sul merito della questione giova ripetere quanto già detto e documentato migliaia di volte, da più parti: restringere le condizioni dell'aborto legale non servirà a diminuire realmente l'entità del fenomeno e sposterà nella clandestinità l'interruzione di gravidanza. Ci sono fenomeni che attengono alla sfera privata della vita delle persone che non possono essere regolati con troppa severità o minuziosità dallo Stato. Sono materie che è inevitabile lasciare all'autonomia delle persone. 

Non si discute del fatto che l'aborto sia un dramma; e può essere tristemente vero che rendere praticabile l'aborto legalmente rischi di renderlo "più facile" anche per persone inconsapevoli, o in casi che potrebbero essere gestiti diversamente.

Ma non c'è scelta, ed è forse questo che sembra non accettabile, per alcuni: bisogna fidarsi delle donne. L'alternativa è secca e pericolosa, ed è appunto la clandestinità e l'ipocrisia: il valore declamato nella legge, ma rischiosamente (per la salute e la vita delle donne, soprattutto) contraddetto nella pratica silenziosa e sotterranea.

2. Quanto più la politica sembra incapace di regolare le questioni economiche, tanto più si cerca di retrocedere (o avanzare, anche) sul piano di questioni cosiddette "etiche"; quasi a voler rimarcare una "sovranità perduta", lo Stato tenta di regolare la società anche in campi in cui il regolamento rischia di essere più dannoso che positivo

Questo può accadere, in teoria, anche con scelte "progressiste": la sinistra spesso dà l'impressione di maneggiare queste tematiche "a surroga" di una perduta capacità della propria parte di incidere sulle questioni sociali.

Beninteso: le questioni civili hanno una ricaduta, e forte, anche sullo status economico e sociale delle persone, naturalmente. Quindi sulla loro effettiva eguaglianza e libertà. E anche in questo senso il passo indietro della Spagna sembra pericoloso, perché di fatto rende la donna meno libera.

Ciò detto, vale la pena soffermarsi sul fenomeno più generale, e che la svolta della Spagna sembra confermare: una politica impotente nei fatti crudi dell'economia non cerca nuove soluzioni, ma "alza la voce" - e la spada del diritto - su questioni che - in ultimo - non potrà mai pienamente controllare, rendendo banalmente più difficile - e più sofferente - la vita ai cittadini.

3. Rischio "imitazione". L'Italia non è la Spagna, e il lungo processo che ha portato alla legge 194 forse ha creato un buon sostrato culturale, in grado di "assorbire" la tentazione di "revanscismo" su questo fronte. Ma anche in questo caso, una retorica mal dosata - e mal pensata - di "rientriamo nei ranghi" rivolto alle scelte di progresso degli anni '70 (magari collegandole impropriamente a altre scelte non sempre felici di quegli anni) - può essere una pericolosa arma di seduzione per una politica troppo incline agli slogan.

"It's the Economy, stupid", era lo slogan degli anni di Clinton. Prima la politica tornerà a guardare - con concretezza ed umiltà - a ciò che è possibile e realizzabile in quel campo, meno toccheremo con inefficaci regole le vite delle persone; solo così daremo ai cittadini i mezzi per decidere - da soli - della loro vita (e della loro morte) e di come trovare la loro felicità.

domenica 13 ottobre 2013

Caos Libico: Il Manico Rotto E Lo Strofinaccio

"Quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro altrettanto comodo e pratico e comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio" (W.Churchill, febbraio 1944)
A volte il pensiero politico non deve fare sforzi di profondità; la frase di Churchill - se non vado errato pronunciata con riferimento al problema se mantenere o meno la monarchia in Italia - dice tutto di quella che è la regola aurea della politica estera: non deve prevalere la "giustizia" a tutti costi, ma l'ordine e la stabilità il più possibile. Certo, con questa motivazione, si richia di giustificare l'ingiustificabile, ma è un dato di fatto che il pericolo più grave, il danno più pesante, per la politica non è una dittatura feroce, ma la guerra civile, l'implosione di una collettività
In Libia - lo si è già detto troppe volte, da queste e da altre parti - si è sottovalutata la complessità di una scenario che non poteva che peggiorare, tolto Gheddafi. Quindi nessuna meraviglia su quanto successo nei giorni scorsi, con il sequestro-lampo del primo ministro. 
Piuttosto, è il caso di ricordare che l'Italia - oltre che per gli ovvi problemi di vicinanza e di immigrazione - deve preoccuparsi di questa vicenda perché è chiamata a curare in primissima linea il disarmo delle fazioni libiche: per continuare a usare i termini di Churchill, siamo chiamati in un certo senso a essere lo "strofinaccio" della situazione. Ancora troppo poco si sa dei dettagli di questo impegno, ma certo sarebbe il caso di valutarne pienamente costi e benefici, e capire quanto potrebbe durare. 
La speranza è che comunque da questo immenso male possa nascerne del bene, anche per noi: chissà, magari gli "accenni nazionali" che alcune milizie stanno utilizzando per giustificare il loro operato - vd. articolo de Linkiesta - può essere un seme di coesione da sfruttare per cercare di ricostruire una comunità statuale. E forse il nostro impegno - se saremo capaci di sfruttarlo al meglio - potrà diventare un punto importante di forza e di nuova penetrazione del nostro paese nel continente africano. Ne avremmo di che guadagnarci. 
Un pensiero a tutte le donne e tutti gli uomini che già ora - segretamente o pubblicamente  - stanno operando in quel paese, per il nostro interesse.
Francesco Maria Mariotti
Non si può negare che le milizie abbiano giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro Muammar Gheddafi. Queste brigate sono state protagoniste della presa di Tripoli nel 2011 e mantengono ancora un vasto controllo territoriale. Ufficialmente la Libia ha un corpo di polizia nazionale e un esercito. Ciò nonostante, a seguito della disintegrazione dell’apparato di sicurezza messo in piedi dal colonnello, le brigate armate sono emerse come unico sistema di polizia e di esercito funzionante all’interno del paese. In alcune zone del Paese le qataib pattugliano le strade, arrestano (e a volte detengono) presunti criminali, organizzano posti di blocco per il controllo dei documenti, e spesso dirigono persino il traffico. Un ufficiale di polizia da noi intervistato nel corso della nostra ultima visita in Libia ci rivelò di non lavorare da mesi, di avere un’uniforme piegata nel cassetto: le milizie erano ormai la nuova polizia.
Le brigate costituiscono un panorama differenziato e complesso. Alcune qataib professano un’agenda religiosa e auspicano una stretta applicazione della legge islamica nella Libia del futuro, mentre altre si presentano solo come corpi di protezione nazionale senza connotazioni politiche o religiose. Alcune milizie hanno giurato fedeltà al governo libico e si descrivono come una «polizia provvisoria», in attesa che il Paese possa tornare ad avere delle forze dell’ordine regolari e operative. Le milizie hanno una gerarchia interna che spesso rispecchia quella dell’esercito regolare, ma nella maggior parte dei casi le brigate non hanno centri di addestramento o dinamiche di appartenenza ben precise. Molte qataib appaiono come organizzazioni informali. Le loro sedi sembrano spesso dei «centri sociali» armati: baracche o case dove i ragazzi vanno a passare il tempo. Ciò nonostante le recenti vicende di Bengasi testimoniano la pericolosità di alcune di queste organizzazioni. Il governo libico sta valutando diverse soluzioni al problema delle milizie. Tra le proposte un tentativo di regolarizzare alcune delle brigate offrendo addestramento per coloro che vogliono unirsi alla polizia o all’esercito.

Ma in tutti questi paesi non abbiamo assistito a rivoluzioni, cioè a un avvicendamento, traumatico, ma per certi versi fisiologico, dei detentori del potere, in forme modellate da una maturazione di principi democratici: quanto è avvenuto, a mio parere, si può più semplicemente ricondurre alla categoria della rivolta, come quella di Masaniello, che si esaurisce in una fiammata di indignazione popolare per poi ricadere in forme già note di vario dispotismo, così come è accaduto e sta accadendo in Egitto, dove i Fratelli Musulmani, che avevano con grande abilità raccolto i frutti della cacciata di Mubarak, hanno dato palese evidenza della loro incapacità di governo e del loro concetto strumentale di democrazia, facendo ripiombare il paese in una situazione pre rivolta, con il problema addizionale che gli orologi della storia non si possono mai riportare indietro e che ai problemi del passato si sommano le instabilità del presente.
Stamane è stata diffusa una foto del premier in maniche di camicia sotto custodia di due uomini in borghese, esponenti con ogni probabilità di qualche milizia. Vedremo se nelle prossime ore seguiranno altri eventi che potrebbero portare a una sorta di golpe o se si tratta di un'azione intimidatoria di breve durata. Il Governo libico aveva formalmente protestato con Washington, ma l'opinione della maggioranza del Parlamento e delle fazioni armate è che Zeidan sapesse del sequestro Al Libbi e non avesse fatto nulla per impedire l'operazione
di Alberto Negri con un'analisi di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/TrFJD

Questo era il fronte politico, a cui tuttavia si pensava fosse possibile porre rimedio distribuendo la grande ricchezza energetica di cui dispone la Libia, il paese che vanta le maggiori riserve di greggio dell'Africa. Ma da alcuni mesi anche l'industria petrolifera è stata inghiottita dal caos. Travolta da una valanga di scioperi che ha investito la Cirenaica, dove si trovano i maggiori giacimenti di greggio e gas, la produzione petrolifera ha accusato un crollo verticale: in pochi mesi è scesa da punte di 1,5 milioni di barili al giorno (mbg), vale a dire ai livelli precedenti la rivoluzione, a meno di 150mila barili. Da tre settimane la produzione si è ripresa, ma non ha ancora raggiunto il 50% dei livelli di inizio anno. Una pessima notizia per l'Italia, che acquista dalla Libia quasi un quarto delle sue importazioni di greggio. Alla lunga il danno economico per le compagnie energetiche internazionali è ingente.
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8huc2​

Meno evidenti sono le infiltrazioni dei radicali islamici e delle formazioni terroristiche legate ad Al Qaeda nella galassia di queste milizie, alcune delle quali sono entrate addirittura a far parte delle formazioni regolari e delle forze di sicurezza governative. Alcune truppe della Cirenaica (per e-sempio la milizia dei “martiri di Derna”) sono state inglobate nell’esercito libico senza che abban-donassero una visione islamista della società. Il network di Al Qaeda è stato più attento degli occi-dentali e delle forze della Nato: ha atteso il momento giusto, dettato dalle fragili condizioni di sicu-rezza e ora sta investendo sul paese con lo scopo di trasformare in un nuovo Af-Pak la vasta area cha va dalla Cirenaica al Fezzan sino al Sahel. Il governo centrale è accusato dai jihadisti locali e internazionali di aver tradito la rivoluzione e di aver svenduto il paese all’occidente. Alcuni video-proclami degli ultimi anni di Al-Zawahiri e Abu Yahya al Libi già facevano precludere all’interesse per la Libia, soprattutto, come preventivato e purtroppo verificatosi, all’impegno militare occidentale non fosse corrisposto un altrettanto impegno civile e politico nella ricostruzione del paese.
- See more at: http://www.ispionline.it/articoli/articolo/mediterraneo-medio-oriente/libia-verso-uno-stato-fallito-9189#sthash.GfNuX395.dpuf

Il problema è semplice: la ribellione contro Gheddafi fu condotta da una miriade di milizie e gruppi armati, rispecchiante il complesso mosaico tribale della Libia. Collassata laJamahiriyya, ossia il regime costruito da Gheddafi (e non a caso basato su forti autonomie locali), le nuove autorità libiche non sono riuscite a riportare sotto il proprio controllo questi numerosi gruppi, rimasti in vita e in armi. I piani per il reinserimento dei miliziani, che prevedono tra l'altro il loro impiego al servizio dello Stato, non si sono rivelati un successo, come dimostrato dal caso Zeidan, soprattutto perché non si è stati in grado di sciogliere i gruppi pre-esistenti.
Di fatto, la Libia pullula ora di tante "compagnie di ventura", costituite per lo più su base tribale, che agiscono per conto proprio o vendono i propri servizi a enti e uffici dello Stato. I sequestratori del Primo ministro sono alle dipendenze del ministero dell'Interno per garantire la sicurezza a Tripoli.
Tutto ciò impone una riflessione su come le grandi potenze gestirono la crisi libica nel 2011.

domenica 29 settembre 2013

La Conferenza di Monaco, 75 anni fa (ilPost)

(...) Gli incontri cominciarono subito e alle discussioni non partecipò alcuna delegazione cecoslovacca, anche se alcuni membri del governo erano presenti in città. Fu una condizione imposta da Hitler a cui né Chamberlain né Daladier si opposero. Le discussioni andarono avanti tutto il giorno sulla base del cosiddetto “piano italiano”, che in realtà era stato preparato dal ministero degli esteri tedesco.
In sostanza l’unica cosa ad essere discussa fu quanta parte della Cecoslovacchia avrebbe dovuto essere annessa alla Germania nazista. A ora di cena, mentre i delegati italiani e tedeschi partecipavano a una festa voluta da Hitler, Chamberlain e Daladier incontrarono i cecoslovacchi e gli chiesero di accettare l’accordo o sarebbero stati lasciati soli ad opporsi alla Germania.
All’una e trenta di notte del 30 settembre l’accordo di Monaco venne firmato dalle quattro grandi potenze. La Germania otteneva quasi tutti i territori che aveva chiesto, una striscia lungo il confine occidentale del paese. Altri pezzi di Cecoslovacchia sarebbero stati annessi dalla Polonia e dall’Ungheria. Una commissione internazionale si sarebbe occupata di determinare altre eventuali questioni territoriali.(...)

venerdì 2 marzo 2012

Il tema non è più solo la TAV (E.Fiano)

Posto un intervento di Emanuele Fiano, parlamentare e responsabile del Forum nazionale sulla Sicurezza del Partito Democratico. Mi sembra dica cose molto giuste, sottolineo in particolare il passaggio "Il tema non è più solo la Tav, è il concetto stesso di democrazia". 
Di mio aggiungo solo che l'atto di fermare alcuni giornalisti e controllare i documenti è già un pericoloso segnale, quasi una "secessione simbolica", come a dire "su questi territori, la polizia siamo noi". 
Proprio per questo il tema non è più la TAV, ma il monopolio della forza; oggi il tema è il dovere di sancire con nettezza che siamo una comunità politica una e indivisa e che quindi - indipendentemente dalle ragioni dei NoTav - non possiamo tollerare "autodeterminazioni".
Il Governo deve reagire.

Francesco Maria Mariotti


Io oggi ci ho provato, veramente, ho provato a parlare ai ragazzi No Tav che hanno occupato la nostra sede PD a Roma, ho provato a dirgli parliamoci, ho provato a nome del Pd a dire, se siete qui per un incontro, noi siamo disponibili. Certo abbiamo come voi le nostre convinzioni, noi siamo favorevoli alla Tav e voi no, ma anche crediamo nel dialogo, salvo una precondizione assoluta. No alla violenza. Noi gli ho detto, non cederemo a nessun ricatto di chi vuole anteporre la sua opinione, per legittima che sia, alle decisioni assunte in tutti gli ambiti democratici possibili, non cederemo all'idea che ci possa essere un sistema alternativo alla Democrazia rappresentativa, dove cioè il popolo vota, elegge rappresentanti, e poi questi nelle sedi opportune, provincie, regioni o parlamenti che siano prendono le decisioni. La discussione che ho avuto con i No Tav insomma è arrivata al centro del nostro dissenso, il concetto stesso di democrazia, della legge della maggioranza e della minoranza. Ma su questo non ho avuto risposta, sono io che ho fatto domande a loro su questo, sono loro che non potevano rispondere, sono io che ho chiesto quale fosse un sistema alternativo alla sistema della arappresentanza, in che mondo insomma avrebbero in realtà avrebbero voluto vivere, in un mondo in cui decide chi ? Perché ho detto loro, questa volta è la Tav, ma un'altra volta potrebbe essere un caso diverso, per esempio una legge che a voi e anche a noi piace, che so la reintroduzione del reato di falso in bilancio, e allora ? E se in quel caso, una valle, una provincia, un paese, una città si ribellasse, o una parte di essa si ribellasse ? Che fareste voi, ho detto, sareste contenti ? Approvereste ? Accettereste la non applicazione di quella legge per un territorio ? No, io sono sicuro di no. I ragazzi non mi hanno risposto, loro si concentravano su Si Tav/No Tav

Se a questo aggiungo l'aggressione questa sera di un cameraman del Tg3, i blocchi stradali, i numerosi feriti, la lunga scia di feriti tra le forze dell'ordine, che una parte violenta del movimento ha cercato e provocato in questi anni io confermo e fortifico la mia opinione.

Il tema non è più solo la Tav, è il concetto stesso di democrazia. Sul terreno fertile di una difficile situazione economica, di un contesto di rabbia, di una fiducia ormai inesistente nei partiti e nelle istituzioni, si sta innescando ormai da tempo una protesta antagonista di massa, giovane, giovanissima e non solo, e dentro questa la presenza di gruppi, come quelli anarco insurrezionalisti che hanno ormai fatto il salto di scala, verso la scelta della violenza programmatica e strutturale. Ma nessun tipo di simpatia per i movimenti, o di sensibilità ambientalista o anche di antagonismo sociale può permettersi di non capire il pericolo della violenza. La democrazia prevede scelte fatte a maggioranza, la violenza prevede scelte dettate da minoranze.
Democrazia e violenza sono antitetiche, e quando va in crisi o quando si nega la democrazia si apre la strada alla seconda. Tutti devono evitare all'Italia di ricadere in quella spirale di violenza che abbiamo già conosciuto in altri anni, drammatici e inutili.