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lunedì 6 aprile 2015

Un Ricordo di Giovanni Berlinguer (G.Cuperlo)

Sono stato al Campidoglio dove hanno allestito la camera ardente per Giovanni Berlinguer. Sarà aperta anche domani e i funerali si terranno mercoledì mattina all'università di Roma. Ho diversi ricordi, sparsi nel tempo, di Giovanni e della sua umanità. Se posso condividerne uno con voi è questo. Nell'autunno dell’89 andammo assieme a Praga nei giorni del rientro in città di Alexander Dubcek. Partimmo da Roma e dopo uno scalo a Vienna ci ritrovammo a manifestare assieme a centinaia di migliaia di persone mentre dal palco Dubcek riprendeva la parola davanti al suo popolo molti anni dopo la "Primavera". La sera fummo accompagnati in una modesta casa popolare della periferia dove incontrammo Dubcek e alcuni dei suoi storici collaboratori. Fu una serata intensa, carica di ricordi, emozioni, e dove si scaricò tutta la tensione di un giorno atteso da almeno due decenni. Davanti al nostro albergo c'era un chiosco che vendeva panini con salsiccia. C'era una lunga fila di praghesi in attesa e Giovanni propose di unirci a loro. Anzi, decise che ci si doveva mettere in coda. Faceva molto freddo ma quella fila e quel panino – credetemi – valevano quanto un pranzo di gala.

(dalla pagina Facebook di Gianni Cuperlo)

domenica 29 settembre 2013

La Conferenza di Monaco, 75 anni fa (ilPost)

(...) Gli incontri cominciarono subito e alle discussioni non partecipò alcuna delegazione cecoslovacca, anche se alcuni membri del governo erano presenti in città. Fu una condizione imposta da Hitler a cui né Chamberlain né Daladier si opposero. Le discussioni andarono avanti tutto il giorno sulla base del cosiddetto “piano italiano”, che in realtà era stato preparato dal ministero degli esteri tedesco.
In sostanza l’unica cosa ad essere discussa fu quanta parte della Cecoslovacchia avrebbe dovuto essere annessa alla Germania nazista. A ora di cena, mentre i delegati italiani e tedeschi partecipavano a una festa voluta da Hitler, Chamberlain e Daladier incontrarono i cecoslovacchi e gli chiesero di accettare l’accordo o sarebbero stati lasciati soli ad opporsi alla Germania.
All’una e trenta di notte del 30 settembre l’accordo di Monaco venne firmato dalle quattro grandi potenze. La Germania otteneva quasi tutti i territori che aveva chiesto, una striscia lungo il confine occidentale del paese. Altri pezzi di Cecoslovacchia sarebbero stati annessi dalla Polonia e dall’Ungheria. Una commissione internazionale si sarebbe occupata di determinare altre eventuali questioni territoriali.(...)

mercoledì 21 agosto 2013

45 anni fa veniva repressa la "primavera di Praga"

Il 21 agosto di 45 anni fa veniva repressa nel sangue la "primavera di Praga". In occasione di questo anniversario pubblico ampi stralci di un articolo di Antonio Gambino del 25 agosto 1968.

FMM

(...) Le truppe russe, polacche, tedesco-orientali, ungheresi e perfino bulgare, sono penetrate, da varie direzioni, nel suo territorio, hanno occupato Praga e le altre città più importanti, si sono schierate al confine con il mondo occidentale. Le notizie della prime ore della mattina di mercoledì 21 agosto (quelle in cui scriviamo) non dicono di più. Ma esse contengono l’essenziale della situazione, mostrano che ancora una volta il piccolo popolo cecoslovacco è vittima di un’aggressione brutale e ingiustificata, è al centro di avvenimenti tragici, certamente destinati ad avere ripercussioni mondiali di portata incalcolabile.


Che la tensione tra Praga e Mosca non fosse finita con le formule di compromesso di Cierna e di Bratislava era apparso chiaro fin da principio: evidentemente, quello che si era chiuso all'inizio di agosto era solo il primo round di una partita complessa e lunga. Ma contro la ipotesi di una invasione armata sovietica, diretta ad eliminare con la forza il gruppo dirigente stretto intorno a Dubcˇek e a porre fine alla sua politica rinnovatrice, militavano obiezioni precise: in primo luogo la differenza (sulla quale avevano in particolare insistito i comunisti italiani nei loro colloqui con i dirigenti dei Pcus) tra l’esplosione ungherese del 1965 e l’andamento controllato della evoluzione cecoslovacca. Più in generale, un certo ottimismo (diffuso sia in Occidente che nella stessa Cecoslovacchia) nasceva dall’impossibilità di credere che nel 1968, dopo anni di insistenza sui temi della coesistenza pacifica e di un nuovo assetto continentale (fondato sullo slogan paragollista: “l’Europa agli europei”), i dirigenti di Mosca potessero nuovamente ricorrere ai metodi della tradizione zarista per richiamare all’ordine quelli che essi (oggi non meno che all’epoca di Stalin) considerano gli Stati vassalli e satelliti delI’Urss, la fascia protettiva esterna della grande madre Russia.(...)

Già da una settimana i giornali e le riviste di Mosca avevano ricominciato il loro martellamento, aggiungendo alle vecchie accuse contro gli intrighi dei “capitalisti” e dei gruppi antisocialisti interni nuove “rivelazioni” a proposito dei progetti dei “revanscisti di Bonn” per staccare l’ex regione dei Sudeti dal territorio cecoslovacco.

Questa ripresa della polemica costituiva, evidentemente, un fenomeno preoccupante. Dopo che Dubcˇek e Breznev avevano chiarito nei quattro giorni di colloqui di Cierna le rispettive posizioni, gli attacchi continui contro la Cecoslovacchia non potevano infatti essere più visti come un mezzo di pressione e di minaccia, sulla cui efficacia non ci si poteva più fare molte illusioni, ma potevano solo costituire la premessa per un intervento armato. Ed in effetti è proprio sul motivo di un pericolo esterno, oltre che sul preteso appello degli stessi dirigenti di Praga, che Mosca ha insistito per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la sua aggressione.(...)

Usciti dal lungo periodo di compressione dello stalinismo e del novotnismo (periodo che ha assunto a Praga caratteri particolarmente tetri e biechi, proprio nel tentativo di cancellare con la violenza la realtà profonda del paese), i cechi e gli slovacchi hanno cominciato un moto evolutivo, di ricerca della propria identità nazionale e culturale, destinato evidentemente ad andare oltre ad ogni schematismo e ad ogni disciplina di partito. Se a tal moto fosse stato permesso di proseguire è certo che, in un tempo più o meno breve, un popolo che prima della seconda guerra mondiale era tra i più moderni e civili di Europa avrebbe finito per rigettare in ogni sua forma quel comunismo autoritario e primitivo che, nato trenta anni prima in un paese infinitamente più arretrato, alla fine della seconda guerra mondiale era stato imposto anche a Praga, in base alla logica della guerra fredda e dei blocchi militari.(...)

Né si poteva credere che il germe revisionista, una volta che ad esserne intaccati non erano paesi periferici come la Jugoslavia e la Romania, avrebbe risparmiato gli altri Stati satelliti: in primo luogo l’Ungheria e la Polonia. Infine, in ogni momento, il processo avrebbe potuto avere ripercussioni incontrollabili in Germania orientale, che ancora oggi costituisce il pilastro del cordone protettivo sovietico ma che, per il suo carattere di Stato artificiale, ne è al tempo stesso il punto più debole. Anche al di là delle loro intenzioni, insomma, i leader rinnovatori di Praga mettevano in crisi l’intero equilibrio europeo, concepito e realizzato da Stalin quasi 25 anni fa. (...)

Tutti i dati sembrano convergere nell’indicare che un acceso dibattito su questi temi si è svolto quasi ininterrottamente a Mosca nell’ultimo mese (e la voce non confermata delle dimissioni di Kossighin ne sarebbe una prova). La vittoria della tendenza conservatrice si è tradotta immediatamente nell’ordine ai carri armati della Santa Alleanza dell’Est di marciare su Praga.(...)


lunedì 19 dicembre 2011

La Morte di Vaclav Havel - I Ricordi di Magris e Bettiza

(...)Non è un caso che la Praga magica e bislacca abbia portato al potere non un intellettuale infarcito di ideologia, bensì un poeta nato piuttosto per la stravaganza delle compagnie scioperate. Ma un poeta libero da ogni culto narcisista della letteratura, un uomo che è stato capace di sacrificare la libertà personale ed anche il lavoro letterario a valori umani più alti e al bene del proprio Paese. In questo senso, l'Occidente intellettuale ha molto da imparare da una Mitteleuropa umana prima che politica e culturale, di cui Havel è un figlio esemplare. Assumendo la responsabilità di rappresentare il suo Paese finalmente libero dal regime, Havel ne ha assunto, non senza fatica, tutto il peso di tante cose a lui ostiche: l'ufficialità rappresentativa, il necessario grigiore amministrativo e burocratico, tutta la prosa quotidiana così invisa a chi vorrebbe vivere in poesia. Non ha civettato con la «immaginazione al potere» cara a tanti libertari occidentali pronti a manifestare, ma senza pagare dazio. Sapeva che, in politica, l'autentica immaginazione consiste nella parziale, noiosa, creativa ricerca del bene comune e non nelle pose eclatanti.(...)


(...) Il futuro primo presidente non comunista della repubblica, all’epoca destinato alle sbarre del carcere più che ai lustri del potere, aveva fissato con maestria, nella sua pièce, il clima d’irrealtà programmata in cui boccheggiava il più civile dei Paesi centroeuropei sotto il tallone veterostalinista di Antonin Novotny. Si usava dire a quei tempi che la «democrazia popolare» di marca sovietica stava al socialismo come il bordello all’amore: i giornali di regime decantavano la felicità del vivere con la stessa enfasi sovreccitata con cui le prostitute fingono il piacere e l’orgasmo. Proprio quel linguaggio falsificato, quell’arnese di truffa ideologica, quella specie di mercimonio paradisiaco sublimato dalla semantica ufficiale doveva diventare l’oggetto centrale della satira haveliana. È importante sottolineare oggi questo dato di dissidenza, insieme etica e linguistica, perché lì era la matrice originaria dell’avversione di Havel alla grande menzogna, avversione che darà al suo anticomunismo un tratto speciale, colto, ironico, libertario e dissacrante. (...)