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sabato 7 settembre 2019

Sul Governo cosiddetto "Conte-bis"

[Scritto il 5 settembre come post su Fb]

Commento del tutto personale, e "a prima vista", da approfondire e magari da rivedere: ottima scelta per ministero dell'Interno, vista la situazione. Brutte, molto, su Giustizia e Esteri.
Su Economia vedremo, potrebbe essere scelta interessante, se Commissione europea "apre" e se saremo capaci di muoverci come sistema-Paese.

In breve: forse questo governo era un tentativo da fare. Magari riuscirà. Ma.

Ma molta parte del paese, come ho già scritto, non capisce, temo; e forse ha anche "perso" dei passaggi, magari più seguiti e conosciuti dagli appassionati che seguono la politica anche in vacanza. E questa gestione "tutta estiva" della crisi può creare grandissime difficoltà.

Un monito, già scritto: la gestione della questione migratoria e della sicurezza non può "ribaltarsi" in brevissimo tempo; un nuovo stile (non "cattivista", diciamo) deve comunque essere contrassegnato da rigore, lucidità, e capacità di dialogo con tutti i cittadini, soprattutto con chi è più esasperato e abbandonato. Altrimenti si rischia di fare un regalo a chi fomenta odio e divisione.

Un ulteriore monito che riguarda anche situazione in UK e Europa in genere. Le questioni che il "sovranismo" - "nazionalismo" pone (in modi inaccettabili) alle nostre democrazie rimangono tutte in piedi.

Attenzione a non perdere di vista la necessità di risposte di lungo periodo, che non passano attaverso "vittorie politico-parlamentari".

(Su Giustizia magari ci tornerò su più avanti)

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10220698566955445&id=1274444055

lunedì 22 luglio 2019

Scorta UE per Hormuz?

Dal profilo Facebook di Guido Olimpio; sarebbe interessante se dalla crisi USA - Iran potesse nascere una "opportunità" per l'UE, e sarebbe ironico che questo avvenisse attraverso una proposta di un Regno Unito che dalla UE vorrebbe uscire. Ma forse è il caso di approfittare di qualsiasi spiraglio.

FMM

Il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt, dopo aver accusato i guardiani della rivoluzione di un atto di pirateria, ha lanciato l’idea di un piano europeo per proteggere il traffico marittimo attraverso Hormuz con una scorta a guida UE. Consultazioni in questo senso sono state avviate durante il fine settimana. Dunque il progetto è di rispondere, in qualche modo, alla proposta della Casa Bianca per una coalizione internazionale – la cosiddetta Operazione Sentinel -, ma senza essere legati a tutte le scelte degli Usa verso l’Iran, in particolare sulla questione nucleare.

venerdì 19 luglio 2019

Von der Leyen: “L'Europa dialoghi con la Russia ma da una posizione di forza” (laStampa)

Mi sembra intervista interessante, da molti punti di vista.

FMM

"(...) Dalla necessità di un “nuovo inizio” sul tema delle migrazioni alla volontà di «sfruttare meglio i margini offerti dalla flessibilità» per ciò che riguarda i criteri del patto di stabilità e di crescita, la presidente von der Leyen si annuncia come un’interlocutrice attenta alle preoccupazioni italiane. Non solo si oppone a qualsiasi forma di Ital-Exit, ma riconosce che «le differenze tra Sud e Nord dell’Europa, così come quelle tra Est e Ovest, vanno ricomposte evitando un’eccessiva emotività nel dibattito, che possa far sentire esclusi o respinti alcuni degli Stati membri».  Anche sul caso che ha contrapposto il vicepremier italiano Matteo Salvini a Carola Rackete si è mostrata attenta a pesare le parole: «In tutto il mondo il dovere è salvare le persone dall’angoscia di trovarsi in alto mare, ma questo non significa che tutti debbano venire in Europa».

Pur riconoscendo che su alcuni dossier non è ancora in grado di offrire soluzioni e proposte – prima su tutte la questione catalana, che «intende approfondire in tutti i suoi dettagli» – von der Leyen ha assicurato che ascolterà molto e cercherà un approccio comprensivo nella soluzione dei problemi. Vale anche per Brexit: «L’accordo non è morto, se ci sono buone ragioni che il governo britannico vuole offrire all’Ue per un’estensione dei suoi termini, sono pronta ad ascoltarle». Le maggiori cautele le ha espresse a proposito della Russia di Vladimir Putin: «La Russia è nostra vicina e resterà la nostra vicina – ha detto - ma l’esperienza degli ultimi anni ci dice che il Cremlino non perdona alcuna debolezza, quindi l’Europa deve essere disponibile al dialogo da una posizione di forza». Trasparenza e contrasto alle fake-news: «Questa è la forza dei paesi liberi con la stampa libera».

La versione integrale dell’intervista concessa dalla Presidente Ursula von der Leyen alla Stampa e ad altri quotidiani europei (The Guardian, Le Monde, Sueddeutsche Zeitung e La Vanguardia) sarà disponibile nell’edizione di domani, 20 luglio."

https://www.lastampa.it/esteri/2019/07/18/news/von-der-leyen-l-europa-dialoghi-con-la-russia-ma-da-una-posizione-di-forza-1.37105568

venerdì 5 aprile 2019

Libia Fuori Controllo? L'Ora Di Haftar?

"La Libia di nuovo ostaggio della guerra. Nel giorno in cui il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, mette piede a Tripoli per la sua prima storica visita nel Paese, Khalifa Haftar dichiara guerra alla capitale. Così il presidente Fayez al Sarraj è costretto a dichiarare l’emergenza nazionale e mettere in allerta i caccia pronti al decollo, mentre le unità anti-terrorismo di Misurata si preparano a stroncare l’avanzata delle unità dell’Esercito nazionale libico comandato dal generale. «Eccoci, Tripoli. Eccoci, Tripoli. Eroi, l’ora é suonata, é venuto il momento» del «nostro appuntamento con la conquista», tuona l’uomo forte della Cirenaica in un messaggio in cui annuncia l’avvio dell’«Operazione per la liberazione di Tripoli». Nell’audio, postato sulla pagina Facebook dell’Ufficio stampa del Comando generale delle Forze armate libiche, il generale dice anche: «Colui che depone le armi é salvo. Colui che resta a casa é sicuro. Colui che sventola bandiera bianca é in sicurezza». (...) La vicenda ha messo in allarme titta la comunità internazionale: Guterres, ha esortato le fazioni libiche ad evitare una escalation per consentire lo svolgimento della conferenza nazionale prevista fra dieci giorni a Ghadames. «Non ci può essere una conferenza nazionale in queste circostanze», ha detto il segretario generale nella punto stampa che era stato programmato proprio da Tripoli nel corso del suo viaggio nel Paese maghrebino. Viaggio che avrebbe dovuto proprio rilanciare gli sforzi del suo inviato, Ghassan Salame, a sostegno dellla «roadmap» per la stabilizzazione della Libia il cui passaggio chiave sarebbe stata la conferenza nazionale prevista a Ghadames dal 14 al 16 aprile. (...)"


"I governi di Francia, Italia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui si dicono profondamente preoccupati per i combattimenti vicino a Garian, in Libia, e sollecitano tutte le parti ad allentare immediatamente le tensioni, che ostacolano le prospettive di mediazione politica delle Nazioni Unite. “In questo momento delicato di transizione in Libia – afferma la nota – le posizioni militari e le minacce di un’azione unilaterale rischiano di spingere la Libia verso il caos. Crediamo fermamente che non esista una soluzione militare al conflitto in Libia. I nostri governi si oppongono a qualsiasi azione militare in Libia e ritengono responsabile qualsiasi fazione libica che faccia scaturire ulteriori conflitti civili”. I governi hanno rinnovato il loro supporto all’Inviato Speciale delle Nazioni Unite, Ghassan Salame, (...)".

venerdì 11 settembre 2015

Salvare Assad? (rassegna stampa)

Di seguito un ottimo Alberto Negri, e altri interessanti articoli sulla difficile questione siriana, che l'arrivo di profughi ha riproposto al centro dell'agenda politica europea. 

"Salvare" Assad è il male minore, di fronte all'avanzata del Califfato? Può darsi, ma in ogni caso qualunque ipotesi di "soluzione" deve mettere nel conto un lungo periodo di gestazione, e un alto tasso di contraddittorietà e precarietà. 

Già essere consapevoli dei tempi non brevi che sono richiesti da questo scenario (come anche da quello libico) sarebbe un primo passo verso un'azione più incisiva.

Francesco Maria Mariotti

***
Nessuno ama Bashar Assad, neanche i russi e neppure gli iraniani: ma oggi appare il male minore, unica alternativa alla vittoria dei jihadisti. Non per questo Mosca, rafforzando il suo sostegno militare a Damasco, intende far esplodere la terza guerra mondiale, come sembrava sfogliando ieri le prime pagine di alcuni giornali. Anzi la Russia, insieme all’Iran sciita, ha intuito che Assad non può vincere la guerra, e che serve trovare un compromesso per la transizione. Questo era il senso dell’offerta del Cremlino di costituire un coalizione internazionale contro lo Stato Islamico: ma è stata sdegnosamente respinta, come se qui dalle nostre parti avessero la soluzione in tasca. (...)
Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia continuano a sostenere che Assad se ne deve andare e allo stesso tempo dichiarano che vogliono colpire i jihadisti dello Stato Islamico. Ma è evidente che non si può combattere il Califfato e allo stesso tempo il suo avversario. A meno che Londra e Parigi non intendano comportarsi come la Turchia di Erdogan che con il pretesto della guerra al Califfato bombarda sistematicamente dei curdi, i più strenui nemici dei jihadisti. La comunità internazionale sembra colpita da una sorta di sdoppiamento della personalità che determina comportamenti fortemente contraddittori di fronte all’Isis e a quanto accade nel Mediterraneo. (...)
È questo uno dei motivi chiave perché le iniziative militari anti-Isis hanno avuto scarso successo: alla guerra degli occidentali manca l’obiettivo politico. François Hollande afferma che Assad se ne deve andare ma il presidente francese non ha la minima idea di chi mettere al suo posto, a meno di non volere riciclare i jihadisti che vuole combattere e consegnargli la Siria. Così come non si sapeva con chi sostituire Saddam nel 2003 e Gheddafi nel 2011. L’impressione è che gli Stati e l’Occidente non siano ancora usciti dalla macchina infernale delle guerre senza senso innescata dagli attentati dell’11 settembre 2001: l’anniversario di oggi dovrebbe indurci a qualche riflessione.

di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su La guerra all’Isis non sarà la terza guerra mondiale

(...) Cosa fare, allora? Basta leggere le dichiarazioni del presidente francese Hollande per capire che si pensa a intensificare l’intervento armato. Quello che non è chiaro è come farla finita con Assad e come affrontare l’Isis. Il drammatico bilancio degli interventi internazionali in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 sono sotto gli occhi di tutti. Isis stesso è un problema che nasce tra le fila degli ex dirigenti del regime di Saddam. L’intervento a supporto dell’insurrezione in Libia, ha lasciato dietro di sé una devastante guerra per bande. In tutti e tre i casi citati, non si è mai lavorato a un reale progetto post-bellico e il rischio che si corre adesso è che nella corsa alla guerra, ancora una volta, si perda di vista l’obiettivo: rendere quella regione del mondo un posto sicuro. Restando lucidi, per non farsi travolgere dalla necessità di accorpare coalizioni in fretta e furia, magari pagando cambiali a paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita che profittano del momento per regolare i loro conti, rispettivamente con i curdi e con gli insorti filo iraniani in Yemen.
La chiave è mettere Assad fuori dalla storia, arrivando a un accordo con i suoi alleati. Senza Iran e Hezbollah, Damasco è finita. L’accordo sul nucleare tra Washington e Teheran potrebbe essere davvero il punto di svolta di questa crisi. Prima di concludere, deve essere preteso che l’Iran giochi un ruolo ‘trasparente’ nel conflitto siriano, per lavorare a una vera exit strategy che deve iniziare – ad esempio – dal fermare l’aviazione del regime e le sue criminali barrel bomb. Sostenendo un nuovo governo a Damasco, nato dalla condivisione di tutte le anime dell’insurrezione e della società civile siriana, e non pretendendo di sceglierlo a Washington o a Bruxelles, lavorando allo stesso tempo sulla situazione in Iraq, con l’elemento curdo che – piaccia o no al presidente turco Erdogan – ha preso un ruolo importante, affrontare tutti assieme le colonne di Isis.
Che sono molto meno imbattibili di quello che si vuole raccontare. Perché iniziare subito un’operazione razionale di intervento sulle fonti di finanziamento del gruppo darebbe risultati immediati. Almeno quanto aprire un tavolo di confronto ad alto livello e transnazionale con le figure più influenti della galassia sunnita in Siria e in Iraq per uscire dalla trappola del risentimento settario. Perché bombardare e basta aumenterà le vittime civili. E questo, come dimostrano gli ultimi quindici anni, finisce solo per rafforzare i radicali.


Bashar Assad era ancora un bimbo quando i russi hanno aperto la loro prima base a Tartus. Era il 1971, allora i siriani decisero di concedere l’uso di un punto d’appoggio logistico per le navi di Mosca. Uno scalo, neppure troppo grande, ma importante. E non lo hanno mai abbandonato. Oggi moli e gru fanno parte del piano lanciato da Vladimir Putin per sostenere Damasco. Un programma che poggia su tre pilastri per il momento irrinunciabili in quanto necessari a tutelare gli Assad e gli interessi del Cremlino. Visione che geograficamente trova il punto di sintesi nel cosiddetto corridoio di Latakia, che parte dalla costa e va verso Est, come nel cantone alawita, che scende verso Sud. Davanti il nemico. La miriade di formazioni ribelli e l’Isis che il regime non ha mai considerato come il target primario.
Molti rifugiati vengono dalla Siria, dove ora operano sul terreno anche i consiglieri militari russi. Non teme il rischio di una ulteriore escalation militare?
«In Siria non esiste una soluzione militare. Stanno combattendo da quattro anni e mezzo, sono morte oltre 250.000 persone, ci sono 4 milioni di rifugiati e 12 milioni di esseri umani colpiti dagli effetti della guerra. Sollecito una soluzione attraverso il dialogo politico, sulla base del comunicato di Ginevra del giugno 2012, e l’unità dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Col mio inviato Staffan de Mistura abbiamo proposto di creare gruppi di lavoro per la sicurezza, la situazione militare, la riconciliazione, lo sviluppo, le infrastrutture, le questioni politiche e costituzionali. È il tentativo di allargare lo spazio politico, per risolvere la crisi con lo strumento del dialogo».


È una vittoria per Obama. Un trionfo anzi. A consegnarlo al presidente i democratici che al Senato hanno bloccato una mozione presentata per respingere l’accordo sul nucleare iraniano. Questa volta hanno fatto muro e hanno aperto la strada per rendere realtà l’accordo negoziato con Teheran, consentendo a Barack Obama di evitare la sfida al Congresso attraverso il veto presidenziale.
Si è trattato di una votazione cosiddetta procedurale, che richiedeva un minimo di 60 voti per consentire alla mozione (Resolution of Disapproval) di procedere verso una ulteriore votazione finale. I voti a favore sono stati però soltanto 58, con 42 contrari, il testo è stato così bloccato e il promesso showdown tra Congresso e Casa Bianca sventato.
Premiati gli sforzi del presidente: Obama su questo accordo ci ha messo la faccia, letteralmente. Ha di persona guidato una campagna a tutto campo per assicurarsi e assicurare che i due anni di negoziati del cosiddetto gruppo 5+1 con Teheran non sarebbero stati vani. (...)

sabato 28 marzo 2015

Può Essere Un Bene La Banca Cinese?

Pertanto, il fatto che la Cina voglia investire una piccola parte dei suoi 3.800 miliardi di riserve estere nell'Aiib è una buona notizia. E il fatto che lo voglia fare attraverso istituzioni multilaterali in cui la sua voce, per quanto importante, sarà una fra le tante, è una notizia ancora migliore. Un'istituzione multilaterale avrebbe funzionari di ogni parte del mondo, e di conseguenza sarebbe meno politicizzata che se fosse la Cina a erogare soldi per conto proprio.
 
Per tutte queste ragioni gli Stati Uniti farebbero bene ad aderire a loro volta. La Casa Bianca potrebbe replicare che anche se lo volesse non avrebbe nessuna speranza di ottenere il nulla osta del Congresso. Probabilmente è vero, ma questo non è un buon motivo per stigmatizzare la partecipazione di altri Paesi. (...)
 
Jack Lew, segretario al Tesoro degli Stati Uniti, ha dichiarato che Washington teme che la nuova banca possa non rispettare i «parametri più stringenti a livello globale» in termini di governance e attività di prestito. Avendo lavorato alla Banca mondiale, non posso non sorridere di fronte a un'affermazione del genere. Il signor Lew troverebbe istruttivo studiare il ruolo avuto dalla Banca mondiale nel finanziare il dittatore dello Zaire Mobutu Sese Seko, un esempio orripilante fra i tanti. Sarebbe bello se la nuova istituzione fosse candida e immacolata, ma questo è un mondo di peccatori. Una partecipazione ampia di altri Paesi non potrà sicuramente peggiorare le cose per la nuova banca.
 
Gli Stati Uniti non possono nemmeno sostenere in modo credibile che farebbe concorrenza alle istituzioni esistenti. Sì, esiste il rischio di una corsa al ribasso sugli standard. Ma potrebbe anche favorire l'eliminazione di inutili lungaggini burocratiche. Il vero timore degli Stati Uniti è che la Cina possa riuscire a creare istituzioni che indeboliscano la loro influenza sull'economia globale. Ci sono quattro risposte che posso dare a questi timori. (...)
 
Inoltre, se la scelta della Gran Bretagna facesse capire chiaramente alle autorità statunitensi che la leadership non è un diritto, ma qualcosa che bisogna guadagnarsi, la decisione potrebbe rivelarsi benefica. Negli anni dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti diedero prova di prontezza di spirito creando le istituzioni del mondo moderno. Ma il mondo è andato avanti. Ha bisogno di istituzioni nuove. Deve adeguarsi all'ascesa di nuove potenze. Questo processo non si fermerà solo perché l'America non vuole più prendervi parte. Se i risultati non sono di gradimento degli Stati Uniti, possono incolpare soltanto se stessi.
 
di Martin Wolf - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/30Mp4u

venerdì 6 giugno 2014

6 giugno 1944: la Nuova Armada si presenta alle coste di Francia

Non so se è il modo più giusto per ricordare quel "meraviglioso" e terribile sbarco, che oggi celebriamo.

Però i versi di Vittorio Sereni - scritti "da lontano" dall'evento ("lontano dalla Storia", potremmo azzardare) possono dirci qualcosa della difficoltà di ricordare - oggi che siamo abituati ad altro tipo di guerre, oggi che non le "vediamo" più, quasi - quei giovani combattenti che persero la vita per noi e a cui dobbiamo così tanto

Possono dirci anche qualcosa della nostra difficoltà a essere protagonisti nella storia, oggi, come Europa.

Francesco Maria Mariotti

***

Non sa più nulla, è alto sulle ali 
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. 
Per questo qualcuno stanotte 
mi toccava la spalla mormorando 

di pregar per l’Europa 
mentre la Nuova Armada 
si presentava alle coste di Francia. 
Ho risposto nel sonno: “È il vento, 
il vento che fa musiche bizzarre. 

Ma se tu fossi davvero 
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna 
prega tu se lo puoi, io sono morto 
alla guerra e alla pace. 
Questa è la musica ora: 

delle tende che sbattono sui pali. 
Non è musica d’angeli, è la mia 
sola musica e mi basta”. 

***
(Vd. anche un breve commento e una breve biografia dell'autore qui 

venerdì 23 maggio 2014

Elezioni Parlamentari Subito Per La Libia?

Personalmente ho l'impressione che la posizione espressa dalle diplomazie che più sotto riporto sia un tanticchio "accademica"... però speriamo sia seguita dalla capacità di giocare anche sul terreno della forza bruta. 

Cosa fare con quello che appre uno strano colpo di stato che sta dividendo il paese? Invocare le elezioni in questa situazione non basta, se non si è capaci di contrattare con le principali fazioni in battaglia. E non basta, se non si ha chiarezza sull'orizzonte da perseguire.

La democrazia nasce quasi sempre "sotto tutela". Non si deve aver paura di proporre - e imporre "tutele"; e lo si deve fare con la consapevolezza che non siamo attori "esterni". 

L'autodeterminazione dei popoli non è un principio sacro, ma politico; quando è stato proclamato a gran voce come se fosse un dogma, ha creato danni; meglio essere chiari sul fatto che i nostri interessi sono attori legittimi del percorso del futuro della Libia.

In questa chiarezza, c'è la possibilità di dare un vero aiuto alla Libia. E di evitare un disastro per loro e per noi.

FMM

Elezioni parlamentari da realizzare in Libia a stretto giro, con la conseguente nomina di un primo ministro, al fine di favorire il dialogo tra le fazioni: questo il senso dell’iniziativa italiana - diffusa ieri sera dalla nostra ambasciata a Tripoli - che raccoglie intorno a se’ il consenso di tre paesi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) e di Germania e Unione Europea (il cosiddetto formato P3+3). 
 
 
Libya is at a crossroads. On one side lies the achievement of the transition through the political process and the forging of a Constitutional Charter based on nationally agreed principles, with a view to achieving the goals of the 17th of February revolution and fostering the rule of law, the respect of human rights and the welfare of its citizens.
 On the other lies chaos, fragmentation, violence and terrorism.
The European Union, France, Germany, Italy, the United Kingdom and the United States, deeply concerned by the repeated acts of violence, call on all sides to refrain from the use of force and to address differences by political means. We stand ready to support an inclusive reconciliation process in order to gather all the Libyans in support of the political transition, with the support of the United Nations.
 We emphasize the importance of carrying on the transition in a peaceful and democratic way. We insist, in this framework, on the opportunity of holding parliamentary elections as soon as possible. The democratic constitutional process has begun its work to codify the principles of democracy that will protect all citizens of Libya, irrespective of geographic or tribal affiliation.
The process leading to a peaceful transition of power should be based upon broad consensus, avoiding any acts which seek to undermine that process.
Building upon Rome Conference Conclusions, we will work to facilitate dialogue and reconciliation as the key to the stabilization process, in the national interest of Libya and of the security of the region, with the coordination of the UN.
Persistent divisions amongst Libyans will gravely challenge the ability of the international community to assist Libya.

L'occidente resta in attesa, osservando l'evolversi della situazione sul campo. Il Guardian ha riportato alcune indiscrezioni filtrate da ambienti dell'intelligence americana. Secondo diversi funzionari, gli Stati Uniti sarebbero stati colti di sorpresa dall'avanzata di Haftar. Ciononostante, il generale potrebbe inaspettatamente riportare gli Stati Uniti a ricoprire un ruolo attivo nel paese dopo le polemiche scoppiate per l'assassinio dell'ambasciatore Chris Stevens a Bengasi e gli scarsi successi ottenuti nella lotta contro il jihadismo. I funzionari della Cia hanno ribadito di non essere implicati nell'offensiva di Haftar, ma non hanno escluso di poterlo sostenere in futuro se dovesse aver successo.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/23482

venerdì 9 maggio 2014

"Voto Schulz" o "Voto Junker": Dichiarazioni Imprecise Perché...

"(...) Secondo un sondaggio diffuso dalla Reuters oltre il 60 per cento dei cittadini europei non è al corrente di cosa sta succedendo esattamente in vista delle elezioni europee, ed in particolare non ha ben idea di cosa sia questa sfida fra il socialista Schulz e il popolare Juncker per la presidenza della Commissione europea.
In senso assoluto, non è affatto una buona cosa. A ben vedere, però, ha almeno un vantaggio. Ed è che una metà abbondante dei cittadini non sarà delusa nel caso probabile in cui i due candidati ufficiali non arrivino a destinazione.
Possibile? Certo. Anzi, a Bruxelles non si trova un’anima disposta a scommettere sul fatto che il Martin il Tedesco o Jean-Claude il Lussemburghese prenderanno il posto di Barroso.
Ci sono molti motivi. Ma uno è potenzialmente dirimente. E conclusivo.
Posto che i conservatori inglesi non vogliono Juncker (non fanno parte del Ppe dunque, dicono, i britannici non lo hanno votato) e i laburisti non accettano Schulz (gli hanno impedito di far campagna sull’isola), è possibile ritenere che i leader Ue decidano a maggioranza qualificata (come i Trattati consentono loro) il nome del nuovo presidente della Commissione sfidando Londra e mettendola in un angolo nella simbolica Ypres e nel centenario della prima guerra mondiale? (...)"

mercoledì 19 marzo 2014

Verso La Guerra: Scivolare O Scegliere?

Probabilmente non siamo più abituati alle dinamiche da guerra fredda, alla tensione portata fino al limite di rottura, al braccio di ferro giocato su territori altri. 

Si possono adottare diversi punti di vista per leggere gli avvenimenti del conflitto russo-ucriano, e quindi russo-occidentale: agli estremi opposti quello della legalità internazionale (si legga l'articolo del Post che spiega perché il referendum in Crimea è da considerarsi illegale e non è assimilabile ad altri esempi di deliberazioni autonomistiche) e quello realpolitik (in parte sembra essere questa la scelta dell'articolo di AnalisiDifesa, che mostra "comprensione politica" per le scelte putiniane). 

Ovviamente le visioni che non tengono conto e delle ragioni della forza (economica, politica, militare), e delle ragioni del diritto (ineludibili per tentare di "ingabbiare" la pura forza, ed evitare gravi precedenti) sono fallaci. Non possiamo più accettare la pura forza, non possiamo illuderci di definire in astratto norme senza avere la potenza necessaria per difenderle.

E' difficile, sempre, capire quando si sta passando un limite invalicabile, quando va detto a gran voce che "vale la pena morire per Sebastopoli (o per Kiev)". Forse senza quasi accorgercene, lo stiamo passando, o lo abbiamo già valicato.

Spero di sbagliare, ma se la situazione di tensione e di prepotenza delle dinamiche scelte dalla Russia per far valere ragioni sul territorio della Crimea non si muteranno in brevissimo tempo in uno stile più dialogante, potrebbe essere inevitabile - al di là di qualsiasi altra considerazione storico - politica (la strana cessione della Crimea all'Ucraina da parte di Kruscev, la difesa delle minoranze russofone, e via così dicendo) - decidere un approccio più duro.

Non è più il tempo delle "guerre totali" (per fortuna...), ma al tempo stesso non si possono evitare a tutti i costi i conflitti, né "scivolare" verso lo stato di guerra, trovandosi impreparati al momento della prova. 

Meglio prepararsi a tutto, senza utilizzare la retorica del contrasto a un novello "impero del male" o della "guerra umanitaria", ma difendendo interessi ed "onore" di un occidente che non può continuare all'infinito la "ritirata" dalla scena internazionale. 

Ne vanno dei nostri spazi di movimento, di mercato, di libertà.

Speriamo non sia necessario, perché nessuna guerra è indenne da ricadute anche interne che possono sfuggire al controllo, e la nostra democrazia non ha necessità di altre tensioni.

Ma se necessario, si sappia approfittarne.

FMM

Domenica 16 marzo gli abitanti della Crimea hanno votato per decidere se annettersi o meno alla Russia: il 97 per cento dei votanti, ha detto il responsabile delle operazioni elettorali, si è espresso per il sì e quindi da oggi il governo locale della Crimea e il governo russo stabiliranno tempi e modi per la formale annessione. L’affluenza è stata dell’82,71 per cento. Molti abitanti filo-ucraini della Crimea non sono andati a votare, perché considerano il referendum “illegale”: la stessa posizione è stata espressa negli ultimi giorni dal governo di Kiev, che come Stati Uniti e Unione Europea ha ribadito in più occasioni che non avrebbe riconosciuto il risultato del referendum.
Per stabilire la legalità o meno del voto di domenica, in molti hanno paragonato la situazione della Crimea a quella della Scozia, dove il 18 settembre 2014 si deciderà tramite referendum l’indipendenza dal Regno Unito. Come ha fatto notare lo stesso Foreign Commonwealth Office britannico, ci sono delle sostanziali e importanti differenze tra il caso del referendum sulla Crimea e quello che si terrà sull’indipendenza della Scozia, che riguardano, tra le altre cose, l’atteggiamento del governo centrale e la garanzia per gli abitanti locali di esercitare il proprio diritto di voto in modo libero e indipendente. Ed è interessante porsi queste domande – le domande generali utili a verificare il grado di correttezza e regolarità di un’elezione – e vedere quali risposte si trovano in Crimea


L’Europa e gli Stati Uniti sono perplessi. Davanti alla Crimea, da sempre legata a Mosca e solo nel 1954 ceduta all’allora repubblica sovietica dell’Ucraina, né il cauto Obama né la prudente signora Merkel, alzeranno il tiro, tanto più che gli americani sono, come la Teresa Batista del vecchio romanzo di Jorge Amado, «stanchi di guerra» e gli europei legati al petrolio e al gas russi (Svezia e Gran Bretagna pressano per sanzioni dure, Spagna e Italia per sanzioni wafer, la Germania media). Ma se Putin marciasse verso ovest e il confine Nato della Polonia, malgrado tutte le paure e le riluttanze occidentali, qualche cosa si romperà. 

Polonia e Svezia hanno scelto il riarmo, a Parigi e Londra si ripensa ai tagli al bilancio della Difesa, i Paesi baltici sono allarmati ed è forse prematuro, da noi, interrogarsi sull’abolizione dell’Aeronautica come ha fatto ieri la ministro della Difesa (dovremmo anche - per logica conseguenza tattica - abolire carri armati, artiglieria e, di conseguenza, le Forze armate: opinabile scelta in questo clima). La crisi è dunque in mano a Putin, se ordina l’escalation apre scenari imprevedibili. 


L'arma finale degli Stati Uniti nella nuova Guerra Fredda con Mosca potrebbero non essere le sanzioni economiche agli oligarchi o i cacciabombardieri Stealth, ma l'inesauribile miniera dello shale gas. In grado di tagliare il cordone ombelicale che lega l'Unione Europea alla Russia. Visto che gli States sono diventati esportatori netti di petrolio (tanto da poterlo presto vendere anche agli Emirati Arabi, e non è fantascienza) sta crescendo il pressing bipartisan di repubblicani e democratici per cercare di sottrarre il Vecchio Continente dai ricatti russi sulle forniture di gas. L'Unione europea dipende per il 30% delle sue forniture dal gas russo, ma tale percentuale sale drammaticamente nei Paesi dell'ex Patto di Varsavia, per esempio al 70% nel caso dell'industrializzata Polonia (che però sta puntando a sua volta sullo shale gas per emanciparsi da Mosca) e addirittura al 100% per la Bulgaria.
 
di Enrico Marro e all'interno Angela Manganaro - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/2LGSj
 
Nel suo «Lungo Telegramma» di 5.500 parole, già nel 1946 George Kennan preannunciava i pericoli delle ambizioni sovietiche, esortando tuttavia l'amministrazione americana ad evitare il confronto militare. Il contenimento dell'Urss, consigliava, sarebbe stato più proficuo: essendo la strategia staliniana una continuazione di quella russa, prima o poi anche il sistema sovietico sarebbe appassito come quello zarista.
Forse globalizzazione e web oggi rendono superfluo un diplomatico dalle capacità straordinarie come Kennan. In ogni caso il dubbio fondamentale sulle ambizioni di Putin non è meno profondo del mistero di Stalin, allora: dove vuole arrivare? La partita di Vladimir Putin si chiude in Crimea o è stato solo il primo passo del ritorno di un'antica politica di espansione europea? Basta Sebastopoli o il piano prevede l'uso della forza militare nel resto dell'Ucraina Orientale e ovunque vivano cospicue minoranze russe?


«Penso che sia ovvio che l’espansione della Nato non ha niente a che fare con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di rendere più sicura l’Europa. Al contrario, rappresenta un grave fattore di provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi si sta svolgendo questa espansione?». Così chiedeva Putin nel febbraio 2007. E nel marzo 2014 ha replicato: «Noi capiamo cosa sta succedendo, ci rendiamo conto che queste azioni (la rivoluzione del 2004 a Kiev) erano dirette contro l’Ucraina e la Russia e contro l’integrazione eurasiatica. E tutto questo mentre la Russia si è sforzata di avviare un dialogo con i nostri colleghi in Occidente. Questi hanno mentito molte volte, preso decisioni alle nostre spalle, ci hanno posto davanti a un fatto compiuto. Questo è accaduto con l’espansione della Nato verso l’Est, così come la diffusione di infrastrutture militari alle nostre frontiere, con l’implementazione del sistema di difesa missilistico. A dispetto di tutte le nostre apprensioni il progetto sta andando avanti”.


(...) Paesi mossi probabilmente da interessi diversi ma convergenti, sia strategici che economici. Il primo obiettivo conseguito è l’aver menomato o forse compromesso il progetto di Vladimir Putin di costituire con le repubbliche dell’ex Urss quell’Unione Euroasiatica considerata un grande competitor dell’Occidente e del mondo arabo. Un grande blocco di libero scambio economico e finanziario con oltre 230 milioni di abitanti, ricchissimo di materie prime che dovrebbe venire varato nel gennaio prossimo e di cui è certo non farà parte l’Ucraina con il suo peso demografico ed economico. Sempre sul piano economico la determinazione dei nuovi “padroni” di Kiev ad associarsi alla Ue consentirà a chi ha capitali da investire (guarda un po’, soprattutto i tedeschi) di mettere le mani sull’economia ucraina e soprattutto sui distretti industriai acquistabili con poca spesa viste le condizioni economiche del Paese. Certo gli apparati sono per lo più obsoleti ma gli investimenti per il loro aggiornamento verrebbe compensato da manodopera qualificata a basso costo e da un mercato di quasi 50 milioni di persone che offrirebbe nuovo “spazio vitale” all’espansione dell’economia tedesca sottraendolo alla Russia(...)

In termini strategici l’ipotesi che l’Ucraina entri nella NATO rappresenta un incubo per Mosca. A chi ritiene che questa possibilità non sia credibile vale la pena ricordare che, per non lasciare dubbi circa gli obiettivi del nuovo governo ucraino, il partito Patria (filo anglo-americano) guidato da Iulia Timoshenko ha depositato in Parlamento un disegno di legge per l’adesione alla Nato la cui approvazione sarebbe dirompente quanto l’annessione della Crimea alla Russia. L’Alleanza Atlantica del resto non si è certo fatta pregare per esprimere il pieno sostegno a Kiev e il rafforzamento della cooperazione militare, assumendo così una posizione di netta contrapposizione nei confronti di Mosca rafforzata dallo schieramento di forze aeree (F-16, F-15 e Awacs) in Polonia e Repubblica Baltiche. Impossibile poi non notare che l’adesione dell’Ucraina alla Nato consentirebbe agli statunitensi di portare “scudi antimissile”, radar e sensori alle porte di Mosca e se venisse rispettata l’integrità territoriale del Paese, includendovi quindi la Crimea, i russi perderebbero le basi aeree e navali di Sebastopoli, candidate in futuro ad essere utilizzate dalla sesta Flotta statunitense che da tempo incrocia con regolarità nel Mar Nero utilizzando i porti bulgari, turchi e rumeni. Un contesto che priverebbe la Russia della profondità territoriale strategica e la esporrebbe ulteriormente sul fronte meridionale già minacciato dai movimenti jihadisti del Caucaso. Le basi in Crimea costituiscono inoltre il trampolino per la proiezione strategica nel Mediterraneo, in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano e soprattutto garantiscono il sostegno al regime siriano di Bashar Assad.

Quanto sta accadendo in Ucraina rappresenta un attacco diretto alla Russia e non si tratta di fare il tifo per Kiev o Mosca o di decidere se ci è più simpatica la treccia bionda della Timoshenko o il machismo dello “zar” Putin. Meglio valutare attentamente qual è la posta in gioco e come stiamo compromettendo la stabilità in Europa attaccando la Russia e creando i presupposti per la destabilizzazione della Bielorussia, il cui regime rappresenta l’ultimo alleato di Mosca in Europa.

Difficile pensare che Putin accetti di perdere l’influenza sull’Ucraina senza cercare quanto meno di contenere i danni garantendosi il controllo della Crimea, forse delle province orientali ucraine in gran parte filo-russe e con esse la possibilità di continuare a destabilizzare Kiev. Certo con “l’operazione Maidan” gli Stati Uniti si sono presi la rivincita dopo aver subito il protagonismo russo rivelatosi vincente nelle crisi siriana e iraniana e Barack Obama può oggi accusare Putin di “essere dalla parte sbagliata della storia” mostrando così una sorpresa per la reazione militare russa in Crimea che sembra essere comune a tutto l’Occidente.(...)

lunedì 23 dicembre 2013

La lezione inglese sul lavoro (Corriere.it)

(...) Gli Stati Uniti di Obama e il governo Cameron offrono infatti due modelli quasi speculari di come affrontare la sfida dell’occupazione dal punto di vista politico-strategico. Nel settembre 2011, Obama annunciò con la grancassa un piano molto ambizioso (chiamato, appunto, American Jobs Act : attenzione al plurale) per creare milioni di nuovi posti di lavoro.

I piatti forti del pacchetto erano la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione, crediti d’imposta per le nuove assunzioni, riduzione dei contributi sociali, un programma di investimenti straordinari in infrastrutture, incentivi per le piccole imprese.
Il provvedimento sarebbe costato circa 450 miliardi di dollari: una cifra molto elevata, ma grazie alla quale, secondo il presidente, «milioni di americani sarebbero tornati al lavoro e sarebbero arrivati più soldi nelle tasche di tutti i lavoratori».
Proprio per i suoi costi e per le sue eccessive ambizioni il progetto si impantanò immediatamente all’interno del Congresso e alla fine Obama si è dovuto accontentare di poco: qualche incentivo fiscale per i nuovi assunti e un nuovo schema per finanziare le piccole imprese.
Il Regno Unito ha seguito un metodo diverso per affrontare il tema lavoro: non un «Masterplan» onnicomprensivo e radicale, ma una serie di Employment Reviews (revisioni delle politiche per l’impiego), volte a realizzare concretamente tre obiettivi strategici fissati da un conciso documento ad inizio legislatura: flessibilità, efficienza, equità. In questo modo sono state però introdotte varie misure innovative.
Muovendosi in largo anticipo rispetto alle raccomandazioni Ue, lo Youth Contract («contratto giovani») ha ad esempio offerto in due anni 500 mila opportunità di lavoro o formazione a giovani fra i 18 e i 24 anni, mentre il Workprogramme («Programma lavoro»), introdotto nel 2011, ha aiutato oltre 200 mila disoccupati di lungo corso a ritrovare lavoro.
Sul piano della strategia politica, la differenza fra il modello americano e quello inglese è chiarissima. Obama voleva far colpo con un progetto «di rottura», in vista della campagna per la rielezione che avrebbe preso avvio all’inizio del 2012.
Il Congresso ha bocciato gran parte del Jobs Act , ma Obama ha vinto le elezioni, anche grazie ai suoi annunci sul fronte del lavoro. Forte del successo elettorale e del patto di coalizione, il governo Cameron-Clegg ha scelto un approccio meno roboante, ma più efficace in termini di risultati, ponendosi in un orizzonte di legislatura.(...)

martedì 3 dicembre 2013

Accordo con l'Iran: Nuova Monaco o Compromesso Positivo?

Segnalo ​due articoli de ilFoglio sugli accordi di Ginevra fra 5+1 e Iran. Il paragone con gli accordi di Monaco del 1938 è richiamato troppo spesso, nella discussione pubblica, per essere un punto di confronto utilizzabile concretamente. 

Di fatto l'argomento - anche laddove sia fondato - rischia di essere una sorta di "al lupo, al lupo", che dopo reiterazioni continue diventa incapace di colpire e convincere; uno di quei richiami storici troppo distanti e differenti per essere pregnanti. 

Detto ciò, non possono essere sottovalutate le preoccupazioni che nel primo articolo vengono sottolineate. Come spesso in politica estera, le ragioni concrete, misurabili - e sagge, il più delle volte - della diplomazia non bastano - né possono bastare - ad esaurire lo scenario. 

Come già scritto, la posta in palio con la questione nucleare non è infatti "solo" la possibilità di una guerra nucleare (improbabile), ma il potere dell'Iran all'interno della scacchiera medioorientale, e più ancora la stabilità del regime fondamentalista. 

Ecco perché se da una parte è giusto non eccedere in allarmismi che rischiano di essere involontariamente retorici e quindi dannosi, sarebbe assai rischioso - non solo per israele, ma per tutto il mondo - non vedere la partita più complessiva che si gioca con questo accordo, al di là di questo accordo.

FMM

Quando Adolf Hitler si sedette nel 1938 alla Conferenza di Monaco con Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Edouard Daladier aveva dalla sua un non piccolo vantaggio: per dirla sbrigativamente, sui Sudeti aveva ragione lui. Da qui bisogna partire quando si maneggia – spesso incautamente – il parallelo tra il patto di Monaco e accordi come quello siglato a Ginevra tra i 5+1 e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi. Dentro quello schema, invece, ragionò e agì Chamberlain, che non coglieva per nulla – non da solo – il punto focale di quella trattativa, che non era affatto la ragione o no che i tedeschi dei Sudeti avevano di voler essere distaccati dalla Cecoslovacchia e essere inglobati nel Reich tedesco. Su questo punto, come si è detto, i tedeschi dei Sudeti avevano ragione, perché i cechi e gli slovacchi li trattavano come cittadini di seconda categoria e il loro irredentismo pangermanico era giustificato. Anche l’Iran oggi ha tutte le ragioni di aspirare al nucleare civile e anche a pretendere di raffinare l’uranio da solo: l’errore dei 5+1 a Ginevra è oggi, appunto, di ritenere che il punto focale della trattativa sia questo e che quindi l’ambito della discussione sia soltanto quello di imporre agli iraniani di aderire ai protocolli e alle ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), come previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare. Se così fosse, nulla quaestio, si tratta soltanto di discutere dei risultati – in questo ristretto ambito – che avrà la futura road map.(...)

Punto primo, il paragone storico con Monaco 1938 è il grido d’allarme più abusato del repertorio ma non ci aiuta a capire nemmeno un grammo in più di cosa sta succedendo davvero. Stiamo parlando di Israele, che è uno stato sovrano e anche la potenza militare più avanzata di tutto il medio oriente, e stiamo parlando di armi atomiche, di Repubblica islamica iraniana e di sanzioni internazionali che colpiscono soprattutto il mercato del greggio. Queste cose nel 1938 non esistevano e oggi si dovrebbe poterne parlare senza per forza essere costretti a passare di nuovo dai Sudeti. Se poi andiamo a vedere nello specifico, l’accordo di Monaco fu firmato dalle grandi potenze il 30 settembre e il giorno dopo le truppe naziste entrarono marciando in Cecoslovacchia provocando la fuga di almeno centomila persone – tra loro molti ebrei e oppositori politici degli hitleriani. Il pre-accordo di Ginevra è stato raggiunto domenica scorsa e l’effetto è questo: da gennaio ci saranno ottomila centrifughe in funzione in Iran invece che diciannovemila. Si vede la differenza tra i due?

Punto secondo, questo non è l’accordo con l’Iran. E’ un pre-accordo. Nulla è stato deciso. Si è trattato di un patto preliminare tra le potenze mondiali e l’Iran per rallentare il programma atomico da una parte e alleggerire di poco le sanzioni dall’altra e andare in questo modo ai negoziati reali che cominceranno fra sei mesi. Le decisioni che contano saranno prese allora. Qual era l’alternativa a questo pre-accordo di Ginevra? Erano due: non fare ancora nulla oppure fare la guerra.(...)

martedì 26 novembre 2013

CAOS IN LIBIA: ARRIVA LA MISSIONE UE ALLE FRONTIERE (da AnalisiDifesa)

La Libia é alle prese con il caos delle milizie armate che agiscono quasi indisturbate nel paese dalla caduta del regime di Gheddafi. Una situazione che se non sarà risolta rapidamente da Tripoli potrebbe infiammare anche altri paesi della regione come Ciad, Algeria, Tunisia ed Egitto e accrescere il flusso dei profughi che lasciano il paese per trovare rifugio in Europa. ”Queste bande armate -spiega all’Adnkronos un autorevole osservatore- sono diventate piccole mafie. Non sono politicizzate e pensano solo a fare soldi mettendo in atto ricatti, prendendo ostaggi. Credo che la situazione potrebbe degenerare a meno che venissero inviate forze internazionali”. L’invio di ‘caschi blu in Libia, secondo questo osservatore, ”sarebbe molto auspicabile” anche perché ”ne va dell’interesse della Libia e dell’Europa che si confronta con il problema dell’immigrazione clandestina e che potrebbe subire le ripercussioni legate ad un’eventuale interruzione degli approvvigionamenti di gas e petrolio”.

La situazione in Libia, poi, si spiega, ”rischia di infiammare il Nordafrica e tutta la regione. C’é una quantità di armi colossale che potrebbe avere conseguenze negative per il Ciad, l’Algeria, l’Egitto e la Tunisia”. Pertanto, aggiunge, ”sarebbe auspicabile l’arrivo di ‘caschi blu’ per pacificare il Paese ed effettuare un vero disarmo. Nelle settimane a venire se il Governo libico non arrivera’ a risolvere il problema sarà auspicabile l’invio di ‘caschi blu”Dopo i violenti scontri del 15 novembre, avvenuti nel quartiere di Ghargur, roccaforte degli ex ribelli di Misurata, e che causarono oltre 50 vittime, il Governo libico sembra aver ripreso, almeno per ora, il controllo della situazione sull’onda dell’emozione suscitata del tragico venerdi’ di sangue. La maggior parte dei miliziani di Misurata hanno iniziato il ritiro graduale dalla capitale. Anche altre milizie, quelle di Jado, Nalut e Gharian, avrebbero lasciato la capitale volontariamente. Ma si tratta di una tregua che potrebbe essere solo momentanea.

La maggior parte delle milizie, che fanno capo per per lo più alle diversi tribù del Paese, hanno lasciato la capitale con il loro arsenale. Un ritiro, quindi, che potrebbe essere solo temporaneo anche perché dal primo gennaio Tripoli ha annunciato che non verserà più alcun salario a questi gruppi, a meno che questi non si arruolino nelle nuove forze di sicurezza nazionali, che erano stati finanziati con lo scopo di creare forze di sicurezze semi-ufficiali sotto la tutela dei ministeri dell’Interno e della Difesa.(...)

la missione EUBAM (European Union Border Assistance Mission) sarà composta da 111 funzionari di polizia disarmati e dovrà costituire una forza di Guardie di Frontiera di 9 mila uomini e una Guardia Costiera composta da 6.400 unità per controllare 1.800 chilometri di coste e i 4 mila di confine terrestre libico.(...)

Circa i contributi internazionali per addestrare le nuove forze libiche l’Italia svolge al momento il ruolo più importante: 60 ufficiali della guardie di frontiera sono in addestramento a Vicenza presso il Centro di eccellenza per le Stability Police Units, 65 militari libici sono alla scuola di Fanteria di Cesano, 280 agenti di polizia militare vengono istruiti dai carabinieri a Tripoli insieme a 150 poliziotti civili.  La francia sta addestrando 75 guardie del corpo per i membri del governo libico. 30 militari dell’aeronautica, 20 ufficiali di marina e 72 subacquei.  Secondo indiscrezioni i britannici stanno addestrando in Irlanda i funzionari dell’intelligence libico mentre a Tripoli hanno inserito un loro “Defence Assistance Team” all’interno del Ministero della Difesa e un “consigliere strategico” al Ministero degli Interni. La Germania sta finanziando la messa in sicurezza di siti chimici e armamenti  quali i missili antiaerei portatili mentre gli Stati Uniti progettano di addestrare in Bulgaria fino a 8 mila militari libici. La Turchia ha addestrato 804 agenti di polizia e 250 ufficiali dell’esercito mentre un team NATO di 10 esperti si recherà spesso a Tripoli per fornire consulenza (...)

Iran: Accordo Inevitabile? O Inutile?

L'accordo tra il "5+ 1" (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran è difficile da valutare: sembra essere inevitabile, forse anche per certi aspetti "positivo", al tempo stesso inutile. E comunque porta con sé una quota di "rischio" che non può essere sottovalutata, e che rende molto comprensibile la dura reazione israeliana. 

Inevitabile, perché ormai le mosse dei giocatori si erano portate su un territorio dal quale "ritirarsi" era forse impossibile, a meno di non voler aprire una fase "drammatica" ed "esplicita" del conflitto (la fase "implicita" e coperta essendo già in corso).

Positivo, sia pur detto con moltissime cautele, perché almeno sulla carta vengono posti limiti all'attività iraniana, pur con inevitabili ambiguità; e questi limiti - teoricamente - possono servire a "sorvegliare" Teheran, che è chiamata ad accettare le ispezioni dell'ONU, senza più alcun alibi (non che prima le motivazioni per rifiutarle fossero reali e fondate, ma è comunque importante togliere quasiasi pretesto); il problema è naturalmente capire se le ispezioni riusciranno a essere così stringenti da verificare effettivamente le eventuali violazioni al patto.

Inutile, perché questi sei mesi di prova possono funzionare, ma se il Medio Oriente tutto non viene coinvolto - e in questo senso all'orizzonte c'è anche la drammatica questione siriana - questo accordo non porrà certo le basi di una pace duratura (solo in un quadro di pace ogni paese potrebbe legittimamente rivendicare autonomia nelle scelte energetiche).

Anzi: come segnalato in uno degli articoli qui sotto riportati, il rischio è che l'accordo segni una "stabilizzazione" del regime iraniano, che può trovare ossigeno (anche finanziario) con il quale resistere ai segnali e ai tentativi di cambiamento.

E' proprio questa - in ultimo - la posta in palio con il nucleare, per Teheran: non un'improbabile guerra atomica, ma il "congelamento" della situazione politica interna, l'alzare il prezzo di qualsiasi possibile cambiamento profondo.

Non potendo e non volendo alzare la tensione, forse l'Occidente non poteva fare altro, per il momento.

Una scelta inevitabile, dunque. Ai fatti decidere se sarà stato un primo felice passo, o un azzardo che pagheremo più caro, più avanti.

Meglio prepararsi a tutto.

Francesco Maria Mariotti

Non è tutto oro quel che luccica. L’accordo tra il “5+1” (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran suscita perplessità e malcontento in più di un attore del grande gioco mediorientale, e non solo. La sospensione per sei mesi delle sanzioni sulla Repubblica Islamica iraniana, ottenuta in cambio di alcune concessioni all’Occidente sul programma nucleare, promette di portare circa sette miliardi di dollari nelle casse di Teheran. Un miglioramento, anche se lieve, delle condizioni economiche del Paese verrebbe sfruttato dal regime degli Ayatollah per legittimare la propria permanenza al potere, messa in crisi dalle proteste del 2009 e dal peggioramento delle condizioni di vita di milioni di iraniani, stretti tra disoccupazione e inflazione. I primi “sconfitti” di questo accordo sarebbero quindi gli oppositori interni del regime.(...)

«L’intesa sicuramente rafforza la Repubblica Islamica nel suo complesso», spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di Storia e istituzioni dei paesi islamici all’Università di Genova. «La questione è abbastanza complessa. I “falchi” del clero sciita e dei Pasdaran stanno già attaccando l’accordo raggiunto, sostenendo che ci si è spinti troppi avanti, ma si tratta del solito gioco delle parti. L’ala moderata rappresentata da Rohani e dal ministro degli Esteri Zarif è riuscita nell’impresa di ottenere al tavolo dei negoziati l’allentamento delle sanzioni, con conseguenze economiche favorevoli per la popolazione iraniana, stabilizzando di fatto la Repubblica Islamica. Questa è una cosa positiva per tutti i suoi sostenitori».(...)



A riassumere il capitolo meno noto della diplomazia dell’amministrazione Obama è stato il luogo della Casa Bianca scelto per annunciarne il successo: la State Dining Room, con alle spalle il grande ritratto di Abramo Lincoln. Proprio a Lincoln infatti Obama si riferì nel discorso di insediamento a Washington, il 20 gennaio 2009, ispirandosi alla sua scelta di «cooperare con i nemici» dopo la vittoria nella guerra civile per mandare un messaggio esplicito all’Iran: «Tenderemo la mano, se voi aprirete il pugno».


Cosa concede l'Iran in cambio dell'alleggerimento delle sanzioni? Il Paese non ha ceduto, per il momento, sull'arricchimento dell'uranio a scopi civili ma deve neutralizzare l'uranio già arricchito al 20% (considerato vicino a quello necessario per armi atomiche) riconvertendolo o diluendolo fino al 5 per cento. Nell'accordo la comunità internazionale concede infatti a Teheran di continuare ad arricchire l'uranio fino al 5 per cento. Le centrifughe in grado di effettuare un arricchimento superiore dovranno essere disattivate e il Paese non ne produrrà di nuove. Questa parte dell'accordo comporta che circa la metà delle centrifughe in funzione a Natanz e tre quarti di quelle di Fordow verranno rese inoperative. Congelerà le attività nell'impianto di acqua pesante di Arak che, se costruito, potrebbe produrre plutonio per un'arma nucleare. 

di Roberta Miraglia. Con un articolo di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/deALF

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