mercoledì 19 marzo 2014

Verso La Guerra: Scivolare O Scegliere?

Probabilmente non siamo più abituati alle dinamiche da guerra fredda, alla tensione portata fino al limite di rottura, al braccio di ferro giocato su territori altri. 

Si possono adottare diversi punti di vista per leggere gli avvenimenti del conflitto russo-ucriano, e quindi russo-occidentale: agli estremi opposti quello della legalità internazionale (si legga l'articolo del Post che spiega perché il referendum in Crimea è da considerarsi illegale e non è assimilabile ad altri esempi di deliberazioni autonomistiche) e quello realpolitik (in parte sembra essere questa la scelta dell'articolo di AnalisiDifesa, che mostra "comprensione politica" per le scelte putiniane). 

Ovviamente le visioni che non tengono conto e delle ragioni della forza (economica, politica, militare), e delle ragioni del diritto (ineludibili per tentare di "ingabbiare" la pura forza, ed evitare gravi precedenti) sono fallaci. Non possiamo più accettare la pura forza, non possiamo illuderci di definire in astratto norme senza avere la potenza necessaria per difenderle.

E' difficile, sempre, capire quando si sta passando un limite invalicabile, quando va detto a gran voce che "vale la pena morire per Sebastopoli (o per Kiev)". Forse senza quasi accorgercene, lo stiamo passando, o lo abbiamo già valicato.

Spero di sbagliare, ma se la situazione di tensione e di prepotenza delle dinamiche scelte dalla Russia per far valere ragioni sul territorio della Crimea non si muteranno in brevissimo tempo in uno stile più dialogante, potrebbe essere inevitabile - al di là di qualsiasi altra considerazione storico - politica (la strana cessione della Crimea all'Ucraina da parte di Kruscev, la difesa delle minoranze russofone, e via così dicendo) - decidere un approccio più duro.

Non è più il tempo delle "guerre totali" (per fortuna...), ma al tempo stesso non si possono evitare a tutti i costi i conflitti, né "scivolare" verso lo stato di guerra, trovandosi impreparati al momento della prova. 

Meglio prepararsi a tutto, senza utilizzare la retorica del contrasto a un novello "impero del male" o della "guerra umanitaria", ma difendendo interessi ed "onore" di un occidente che non può continuare all'infinito la "ritirata" dalla scena internazionale. 

Ne vanno dei nostri spazi di movimento, di mercato, di libertà.

Speriamo non sia necessario, perché nessuna guerra è indenne da ricadute anche interne che possono sfuggire al controllo, e la nostra democrazia non ha necessità di altre tensioni.

Ma se necessario, si sappia approfittarne.

FMM

Domenica 16 marzo gli abitanti della Crimea hanno votato per decidere se annettersi o meno alla Russia: il 97 per cento dei votanti, ha detto il responsabile delle operazioni elettorali, si è espresso per il sì e quindi da oggi il governo locale della Crimea e il governo russo stabiliranno tempi e modi per la formale annessione. L’affluenza è stata dell’82,71 per cento. Molti abitanti filo-ucraini della Crimea non sono andati a votare, perché considerano il referendum “illegale”: la stessa posizione è stata espressa negli ultimi giorni dal governo di Kiev, che come Stati Uniti e Unione Europea ha ribadito in più occasioni che non avrebbe riconosciuto il risultato del referendum.
Per stabilire la legalità o meno del voto di domenica, in molti hanno paragonato la situazione della Crimea a quella della Scozia, dove il 18 settembre 2014 si deciderà tramite referendum l’indipendenza dal Regno Unito. Come ha fatto notare lo stesso Foreign Commonwealth Office britannico, ci sono delle sostanziali e importanti differenze tra il caso del referendum sulla Crimea e quello che si terrà sull’indipendenza della Scozia, che riguardano, tra le altre cose, l’atteggiamento del governo centrale e la garanzia per gli abitanti locali di esercitare il proprio diritto di voto in modo libero e indipendente. Ed è interessante porsi queste domande – le domande generali utili a verificare il grado di correttezza e regolarità di un’elezione – e vedere quali risposte si trovano in Crimea


L’Europa e gli Stati Uniti sono perplessi. Davanti alla Crimea, da sempre legata a Mosca e solo nel 1954 ceduta all’allora repubblica sovietica dell’Ucraina, né il cauto Obama né la prudente signora Merkel, alzeranno il tiro, tanto più che gli americani sono, come la Teresa Batista del vecchio romanzo di Jorge Amado, «stanchi di guerra» e gli europei legati al petrolio e al gas russi (Svezia e Gran Bretagna pressano per sanzioni dure, Spagna e Italia per sanzioni wafer, la Germania media). Ma se Putin marciasse verso ovest e il confine Nato della Polonia, malgrado tutte le paure e le riluttanze occidentali, qualche cosa si romperà. 

Polonia e Svezia hanno scelto il riarmo, a Parigi e Londra si ripensa ai tagli al bilancio della Difesa, i Paesi baltici sono allarmati ed è forse prematuro, da noi, interrogarsi sull’abolizione dell’Aeronautica come ha fatto ieri la ministro della Difesa (dovremmo anche - per logica conseguenza tattica - abolire carri armati, artiglieria e, di conseguenza, le Forze armate: opinabile scelta in questo clima). La crisi è dunque in mano a Putin, se ordina l’escalation apre scenari imprevedibili. 


L'arma finale degli Stati Uniti nella nuova Guerra Fredda con Mosca potrebbero non essere le sanzioni economiche agli oligarchi o i cacciabombardieri Stealth, ma l'inesauribile miniera dello shale gas. In grado di tagliare il cordone ombelicale che lega l'Unione Europea alla Russia. Visto che gli States sono diventati esportatori netti di petrolio (tanto da poterlo presto vendere anche agli Emirati Arabi, e non è fantascienza) sta crescendo il pressing bipartisan di repubblicani e democratici per cercare di sottrarre il Vecchio Continente dai ricatti russi sulle forniture di gas. L'Unione europea dipende per il 30% delle sue forniture dal gas russo, ma tale percentuale sale drammaticamente nei Paesi dell'ex Patto di Varsavia, per esempio al 70% nel caso dell'industrializzata Polonia (che però sta puntando a sua volta sullo shale gas per emanciparsi da Mosca) e addirittura al 100% per la Bulgaria.
 
di Enrico Marro e all'interno Angela Manganaro - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/2LGSj
 
Nel suo «Lungo Telegramma» di 5.500 parole, già nel 1946 George Kennan preannunciava i pericoli delle ambizioni sovietiche, esortando tuttavia l'amministrazione americana ad evitare il confronto militare. Il contenimento dell'Urss, consigliava, sarebbe stato più proficuo: essendo la strategia staliniana una continuazione di quella russa, prima o poi anche il sistema sovietico sarebbe appassito come quello zarista.
Forse globalizzazione e web oggi rendono superfluo un diplomatico dalle capacità straordinarie come Kennan. In ogni caso il dubbio fondamentale sulle ambizioni di Putin non è meno profondo del mistero di Stalin, allora: dove vuole arrivare? La partita di Vladimir Putin si chiude in Crimea o è stato solo il primo passo del ritorno di un'antica politica di espansione europea? Basta Sebastopoli o il piano prevede l'uso della forza militare nel resto dell'Ucraina Orientale e ovunque vivano cospicue minoranze russe?


«Penso che sia ovvio che l’espansione della Nato non ha niente a che fare con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di rendere più sicura l’Europa. Al contrario, rappresenta un grave fattore di provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi si sta svolgendo questa espansione?». Così chiedeva Putin nel febbraio 2007. E nel marzo 2014 ha replicato: «Noi capiamo cosa sta succedendo, ci rendiamo conto che queste azioni (la rivoluzione del 2004 a Kiev) erano dirette contro l’Ucraina e la Russia e contro l’integrazione eurasiatica. E tutto questo mentre la Russia si è sforzata di avviare un dialogo con i nostri colleghi in Occidente. Questi hanno mentito molte volte, preso decisioni alle nostre spalle, ci hanno posto davanti a un fatto compiuto. Questo è accaduto con l’espansione della Nato verso l’Est, così come la diffusione di infrastrutture militari alle nostre frontiere, con l’implementazione del sistema di difesa missilistico. A dispetto di tutte le nostre apprensioni il progetto sta andando avanti”.


(...) Paesi mossi probabilmente da interessi diversi ma convergenti, sia strategici che economici. Il primo obiettivo conseguito è l’aver menomato o forse compromesso il progetto di Vladimir Putin di costituire con le repubbliche dell’ex Urss quell’Unione Euroasiatica considerata un grande competitor dell’Occidente e del mondo arabo. Un grande blocco di libero scambio economico e finanziario con oltre 230 milioni di abitanti, ricchissimo di materie prime che dovrebbe venire varato nel gennaio prossimo e di cui è certo non farà parte l’Ucraina con il suo peso demografico ed economico. Sempre sul piano economico la determinazione dei nuovi “padroni” di Kiev ad associarsi alla Ue consentirà a chi ha capitali da investire (guarda un po’, soprattutto i tedeschi) di mettere le mani sull’economia ucraina e soprattutto sui distretti industriai acquistabili con poca spesa viste le condizioni economiche del Paese. Certo gli apparati sono per lo più obsoleti ma gli investimenti per il loro aggiornamento verrebbe compensato da manodopera qualificata a basso costo e da un mercato di quasi 50 milioni di persone che offrirebbe nuovo “spazio vitale” all’espansione dell’economia tedesca sottraendolo alla Russia(...)

In termini strategici l’ipotesi che l’Ucraina entri nella NATO rappresenta un incubo per Mosca. A chi ritiene che questa possibilità non sia credibile vale la pena ricordare che, per non lasciare dubbi circa gli obiettivi del nuovo governo ucraino, il partito Patria (filo anglo-americano) guidato da Iulia Timoshenko ha depositato in Parlamento un disegno di legge per l’adesione alla Nato la cui approvazione sarebbe dirompente quanto l’annessione della Crimea alla Russia. L’Alleanza Atlantica del resto non si è certo fatta pregare per esprimere il pieno sostegno a Kiev e il rafforzamento della cooperazione militare, assumendo così una posizione di netta contrapposizione nei confronti di Mosca rafforzata dallo schieramento di forze aeree (F-16, F-15 e Awacs) in Polonia e Repubblica Baltiche. Impossibile poi non notare che l’adesione dell’Ucraina alla Nato consentirebbe agli statunitensi di portare “scudi antimissile”, radar e sensori alle porte di Mosca e se venisse rispettata l’integrità territoriale del Paese, includendovi quindi la Crimea, i russi perderebbero le basi aeree e navali di Sebastopoli, candidate in futuro ad essere utilizzate dalla sesta Flotta statunitense che da tempo incrocia con regolarità nel Mar Nero utilizzando i porti bulgari, turchi e rumeni. Un contesto che priverebbe la Russia della profondità territoriale strategica e la esporrebbe ulteriormente sul fronte meridionale già minacciato dai movimenti jihadisti del Caucaso. Le basi in Crimea costituiscono inoltre il trampolino per la proiezione strategica nel Mediterraneo, in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano e soprattutto garantiscono il sostegno al regime siriano di Bashar Assad.

Quanto sta accadendo in Ucraina rappresenta un attacco diretto alla Russia e non si tratta di fare il tifo per Kiev o Mosca o di decidere se ci è più simpatica la treccia bionda della Timoshenko o il machismo dello “zar” Putin. Meglio valutare attentamente qual è la posta in gioco e come stiamo compromettendo la stabilità in Europa attaccando la Russia e creando i presupposti per la destabilizzazione della Bielorussia, il cui regime rappresenta l’ultimo alleato di Mosca in Europa.

Difficile pensare che Putin accetti di perdere l’influenza sull’Ucraina senza cercare quanto meno di contenere i danni garantendosi il controllo della Crimea, forse delle province orientali ucraine in gran parte filo-russe e con esse la possibilità di continuare a destabilizzare Kiev. Certo con “l’operazione Maidan” gli Stati Uniti si sono presi la rivincita dopo aver subito il protagonismo russo rivelatosi vincente nelle crisi siriana e iraniana e Barack Obama può oggi accusare Putin di “essere dalla parte sbagliata della storia” mostrando così una sorpresa per la reazione militare russa in Crimea che sembra essere comune a tutto l’Occidente.(...)

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