venerdì 30 novembre 2012

La Palestina Diventa "Stato Osservatore" dell'ONU: Passo Avanti?


L'odierna decisione dell'ONU può essere valutata in diversi modi: dal punto di vista ideale è sostanzialmente corretta, e benvenuta nel momento in cui tende a voler rafforzare - in teoria - la parte moderata delle forze palestinesi, rappresentate da Abu Mazen. il problema è che in questo caso - avviene spesso, per la verità - l'orizzonte diplomatico e quello più "realpolitik" possono scontrarsi: il riconoscimento della Palestina - contravvenendo alla dimensione bilaterale degli accordi di Oslo - può legittimare un abbandono delle trattativa da parte di Israele, soprattutto se alle prossime elezioni Netanyahu uscisse vincitore; ma soprattutto è da capire se parlando di Palestina parliamo ancora effettivamente di un solo stato o se oramai in campo abbiamo due entità più o meno separate; e ancor più rilevante è capire  - in questo contesto - se la parte che si vorrebbe aiutare (Abu Mazen) è in grado di reggere un eventuale "scontro" con Hamas, o comunque in generale una "competizione" anche solo dal punto di vista politico e diplomatico. Detta brevemente: chi rappresenta effettivamente - non in termini ideali, ma in termini di concreto monopolio della forza e controllo politico, tanto per parlarci chiaro - l'interesse, le speranze, le possibilità di futuro dei palestinesi? 

Se da questo voto Abu Mazen traesse realmente la forza per "riprendere" la guida di tutto il popolo palestinese e del processo di pace, allora l'evento di oggi sarà stato un vero passo in avanti. Ma è purtroppo anche possibile uno scenario molto più confuso e conflittuale, e allora la giornata di oggi potrebbe rivelarsi una amara illusione.

Festeggiamo questo voto, e anche la capacità di muoversi del governo Monti. 
Ma i dubbi di Israele e USA non sono infondati. 
Ed è bene non illudersi sul futuro della pace.

Francesco Maria Mariotti

(segue rassegna stampa)

giovedì 29 novembre 2012

Rischio Ungheria?



Condivido con voi la dichiarazione dell'ottima Debora Serracchiani in occasione dell'interrogazione alla Commissione europea con cui denuncia la richiesta del partito di estrema destra Jobbik, che ha proposto di stilare una lista di tutte le imprese ungheresi di proprietà di ebrei, e una lista di persone con doppia cittadinanza ungherese e israeliana , che rappresenterebbero un 'rischio per 
la sic
urezza nazionale.

"In Ungheria è in corso una minaccia dei comuni valori europei non dovrebbe essere necessario sottolineare la gravità di quanto sta accadendo in Ungheria dove, da parte di formazioni organizzate, il richiamo all'antisemitismo e ai metodi del nazismo è sempre più esplicito e arrogante; I precedenti storici dovrebbero allarmarci, e non farci accontentare delle minimizzazioni che vengono dal Governo ungherese, né farci placare dalla condanna della Commissione europea, pur importante. Bisogna valutare seriamente se questi fatti possano rappresentare la condizione prevista dall'articolo 7 del Trattato dell'Unione Europea, che prevede un meccanismo di prevenzione, in caso di rischio di una violazione dei valori comuni da parte di uno Stato membro, e un meccanismo di sanzione in caso di violazione di questi valori"

Sull'Ungheria puoi leggere anche:





Rivelazioni sulla Libia?


Un articolo interessante dell'Huffington Post sul reale impegno degli italiani nelle operazioni in Libia. E' un po' inusuale che un generale parli nei termini che leggiamo, con il rammarico per non aver potuto dire agli italiani quale era il reale contributo dei nostri soldati alla guerra, "per evitare strumentalizzazioni" (forse non spetterebbe a un esponente dell'esercito fare questo tipo di valutazioni, ma oggi in tutte le democrazie c'è un'esposizione maggiore dell'esercito, anche in termini di "pubbliche relazioni" e il confine tra dichiarazione "tecnica" e "politica" è sempre meno netto).
Comunque personalmente non mi stupisco che vi sia stata "riservatezza" sul nostro effettivo impegno nella guerra in LIbia. 
Come già detto più volte per altre situazioni, le operazioni belliche rappresentano sempre un punto problematico di "gestione delle notizie" per le democrazie. Invito quindi a valutare con freddezza quanto qui viene riportato, e a non "scandalizzarsi" se ci sono state "nascoste" operazioni belliche. 
Collochiamo queste dichiarazioni nello scenario complessivo di un intervento che fin dall'inizio è stato (usiamo un eufemismo) "strano", e - per noi in particolare - molto "difficile".
Francesco Maria Mariotti
I bombardamenti dei caccia italiani sulla Libia sono stati tenuti nascosti per motivi politici. L'ammissione viene da una fonte particolarmente qualificata, lo stesso capo di stato maggiore dell'Aeronautica Militare, il generale Giuseppe Bernardis, che attribuisce questo deficit di comunicazione alla "situazione critica di politica interna" in cui viveva allora il Paese.
Bernardis presenta nel pomeriggio un libro edito dalla Rivista Aeronautica - "Missione Libia 2011. Il contributo dell'Aeronautica Militare" - in cui finalmente si racconta tutto di quella missione. E non ha peli sulla lingua. Negli oltre sette mesi di guerra in Libia, dal 19 marzo al 31 ottobre 2011, "è stata fatta un'attività intensissima - racconta - che è stata tenuta per lo più nascosta al padrone vero dell'Aeronautica Militare, che sono gli italiani, per questioni politiche, per esigenze particolari. C'erano dei motivi di opportunità, ci veniva detto, e noi chiaramente non abbiamo voluto rompere questo tabù che ci era stato imposto. Questo è il motivo per cui questo volume esce solo adesso, un anno dopo".

Rischio Argentina... O Anche Grecia?


A riaprire il caso è stata una querela avanzata da investitori e fondi di investimento statunitensi, tra cui Nml, controllato da Elliott Associates, e Aurelio, che hanno ancora in pancia i vecchi tango-bond e hanno respinto la ristrutturazione proposta dall'Argentina nel 2005 e nel 2010 per applicare una riduzione di circa il 65 per cento del debito, che è stata invece accettata dal 92 per cento dei creditori. Il giudice statunitense Griesa ha dato ragione alle richieste dei fondi speculativi.
 
 
Due eventi collegati a debiti sovrani, tra di loro strettamente connessi nonostante la loro lontananza non solo geografica, minacciano da vicino l'ormai scadente tenuta della finanza internazionale, con gravissime ripercussioni sull'economia e sulla politica mondiale. Il primo pericolosissimo evento riguarda il debito argentino e la decisione presa il 21 novembre scorso dal giudice distrettuale di New York, Thomas Griesa. Il secondo concerne invece la nuova ristrutturazione del debito greco, in discussione tra l'Unione Europea e l'Fmi,
 

martedì 27 novembre 2012

Egitto appeso al Fondo Monetario (ilFoglio)

(...) Due righe eloquenti di commento in fondo a un articolo del Financial Times rivelavano: “Diplomatici e fonti vicine ai negoziati dicono che c’è un forte desiderio internazionale di stabilizzare Mohammed Morsi, il nuovo presidente islamista, ed evitare choc economici che potrebbero provocare disordini nel paese più popoloso del mondo arabo”. Era ufficiale: i Fratelli musulmani avevano anche la benedizione del giornale della City.


Giovedì il presidente Morsi è saltato fuori con una Dichiarazione costituzionale a sorpresa che gli assegna i poteri pieni di un dittatore – “ma sono temporanei”, assicura lui – al di sopra della legge e in Egitto sono scoppiati tre giorni di violenze di strada tra chi vede in lui un nuovo Mubarak (peggio, un Mubarak islamista a capo di un movimento islamista) e le squadre dei Fratelli musulmani. Pietrate, lacrimogeni, uffici politici presi d’assalto, sciopero di giudici e giornalisti. Il Fondo monetario in teoria dovrebbe dare il via libera ai soldi il 19 dicembre, ma ora nello spazio di quattro giorni si è trasformato in uno strumento di pressione politica sui Fratelli musulmani e in un garante della democrazia egiziana (che è senz’altro più di quanto gli si può chiedere). “Non penso che il Fondo rescinderà l’accordo – dice Samir Radawan, ex ministro delle Finanze egiziano– ma se la situazione  peggiora allora il finanziamento sarà sospeso”.

Anche se i soldi arrivassero, un primo problema è che il piano di riforme proposto dal Fondo ai Fratelli musulmani è ambizioso, richiede sacrifici e un grande consenso: ci sarà da tagliare i sussidi su gas e benzina, aumentare le tasse, svalutare la moneta nazionale, trovare nuovi modi di risparmiare (il governo ha già proposto l’imposizione di un coprifuoco notturno a negozi e ristoranti, per ridurre i consumi di elettricità). Come farà Morsi a procedere, ora che l’intesa con l’opposizione lascia il posto alla violenza? – il Faraone lo chiamano, come chiamavano Mubarak, oppure Morsilini, crasi con l’italiano Benito. Un secondo problema è che anche se tutto rientrasse nella normalità dal punto di vista politico e il piano internazionale andasse liscio – sostiene Amr Adly, commentatore critico sulle politiche del Fondo – il peso maggiore cadrebbe sugli egiziani più poveri, e insomma il paese affonderebbe in una condizione peggio che pre-rivoluzionaria. (...)
 

Il Nostro Servizio Sanitario Nazionale, Di Cui Andiamo Fieri


Contrariamente a quanto riportato dai media, il Presidente ha voluto attirare l’attenzione sulle sfide cui devono far fronte i sistemi sanitari per contrastare l’impatto della crisi. Ciò vale, peraltro, per tutti i settori della pubblica amministrazione. Le soluzioni ci sono, e vanno ricercate attraverso una diversa organizzazione più efficiente, più inclusiva e più partecipata dagli operatori del settore. Le garanzie di sostenibilità del servizio sanitario nazionale non vengono meno. Per il futuro è però necessario individuare e rendere operativi modelli innovativi di finanziamento e organizzazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie. (...) “Abbiamo la consapevolezza di vivere un momento difficile. La crisi ha colpito tutti e ha impartito lezioni a tutti. E' importante riflettere sulle lezioni impartite dalla crisi. Il campo medico non è un'eccezione. Le proiezioni di crescita economica e quelle di invecchiamento della popolazione mostrano che la sostenibilità futura dei sistemi sanitari - incluso il nostro servizio sanitario nazionale, di cui andiamo fieri e di cui il Ministro Balduzzi, che tanto incisivamente lavora per migliorarlo ulteriormente, è giustamente fiero - potrebbe non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento e di organizzazione dei servizi e delle prestazioni. La posta in palio è chiaramente altissima e anche l'innovazione medico-scientifica, soprattutto nella fase di “industrializzazione”, deve partecipare attivamente alla sfida considerando il parametro della costo-efficacia un parametro di valutazione non più residuale, bensì di importanza critica.”(...)

sabato 24 novembre 2012

Un'ipotesi di "intervento" in Siria (da ilFoglio)

La Nato può imporre una “no fly zone” contro gli aerei e gli elicotteri del presidente siriano Bashar el Assad grazie all’impiego creativo delle batterie di missili Patriot che saranno schierate lungo il confine tra Siria e Turchia. L’ipotesi è ancora prematura, ma potrebbe essere il primo intervento diretto e internazionale contro il governo di Damasco, dopo venti mesi di guerra civile e oltre 40 mila morti.
Come funziona? I missili Patriot sono un’arma prettamente difensiva e lavorano più o meno come il tanto celebrato Iron Dome che in questi giorni ha bloccato la gragnuola di ordigni lanciati contro Israele: un radar vede il missile in volo e guida un contromissile – il Patriot – a intercettare il primo mentre è ancora in aria. Il risultato è uno scoppio in cielo, uno sbuffo di fumo e niente più – in teoria, perché in realtà il sistema Patriot è molto meno preciso di Iron Dome. L’idea è di usarli invece come arma offensiva: guidati dagli aerei spia americani, come gli E-3 Awacs, gli Rc-135 Rivet Joint e gli E-8 Jstars, “occhi e orecchie in volo”, i Patriot possono intercettare gli aerei e gli elicotteri di Assad fino a una profondità di 80 chilometri dentro la Siria. Questa fascia protetta corrisponde più o meno al territorio che è già in mano ai ribelli siriani (...)

 L’imposizione di una vera “no fly zone” sulla Siria assomiglia a un incubo per i paesi occidentali, che infatti fino a oggi si sono guardati bene dal ripetere contro Damasco un intervento a protezione dei civili e dei ribelli sul modello di quello già sperimentato con successo in Libia. La “no fly zone” equivale a un atto di guerra, perché prevede come primo passo la neutralizzazione dei sistemi difensivi del nemico, e quindi il bombardamento preparatorio dei radar, delle piste e della contraerea nemica, e in seguito la possibilità di duelli aerei (soggetto possibile per l’incubo: un pilota abbattuto e catturato, e poi mostrato dalla tv di stato siriana). Inoltre l’intervento diretto minaccia di provocare una reazione a catena con i paesi che sostengono Assad, come l’Iran e la Russia. L’espediente Patriot invece è meno invasivo: le batterie rimangono al di qua del confine e tutta l’operazione potrebbe scattare in risposta a una scaramuccia di routine come spesso accade sulla frontiera, attraversata quasi ogni giorno da colpi di mortaio e di artiglieria in entrambe le direzioni. La Turchia potrebbe invocare l’articolo 5 del Trattato atlantico, che impone ai paesi Nato di intervenire a difesa di un membro. (...)

Ecco come sarà l’azione diretta della Nato contro i bombardieri di Assad (ilFoglio.it)

venerdì 23 novembre 2012

Bilancio UE, i dubbi e il veto possibile

"Se le richieste sul bilancio 2014-2020 non dovessero essere accolte, l'Italia è pronta a mettere il veto". E' quanto confermato la notte scorsa dal premier Mario Monti, parlando con i giornalisti al termine della prima sessione del vertice europeo, sospeso dopo la presentazione della nuova proposta sul budget. "Quella sul bilancio – ha proseguito il premier – è una decisione che va presa all'unanimità e occorre che tutti i Paesi siano d'accordo". "Sicuramente – ha avvertito – se l'Italia si ritenesse significativamente insoddisfatta, non esiterebbe a non votare a favore, quindi a votare contro, così come farebbero altri paesi". Monti ha sottolineato: "Siamo tutti qui per cercare di trovare una soluzione che sia accettabile per l'Italia, Paese che sette anni fa, in occasione del precedente negoziato, non ne uscì certo bene, quindi dobbiamo e vogliamo rimontare posizioni". "Si può raggiungere un accordo  – ha assicurato il premier rispondendo ad una domanda – ma non è detto che ci si riesca e non sarebbe un dramma non riuscirci". Perché questo, secondo Monti, "è un negoziato molto complesso che avviene ogni sette anni e credo che sarebbe la prima volta nell'ipotesi che si chiudesse al primo tentativo".

Bilancio UE, ancora dubbi (ilfoglio)

Un veto contro un bilancio pluriennale insufficiente e troppo sbilanciato nella spartizione delle risorse, in breve più favorevole alle ragioni degli euroscettici, inglesi e svedesi, che a quelle della solidarietà con Paesi e regioni in ritardo di sviluppo o tartassati da recessione, disoccupazione, ristrutturazioni e riforme, più che uno sgarbo all'Europa sarebbe un forte richiamo al suo perduto senso di responsabilità politica, economica e sociale. Che sia familiare, nazionale o europeo, un bilancio è lo specchio dei progetti e delle ambizioni individuali e collettive.
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su Perché alzare la voce serve

È davvero strano, e anche un po' surreale, constatare che la Grecia, l'ultima della classe dell'euro, ormai ha davvero fatto tutti i compiti a casa, parola di Eurogruppo, e invece chi si ostina a non fare i propri sono gli altri, i primi della classe, che pure non cessano di impartirle lezioni di buona creanza europea.
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su Se Atene fa i compiti, e gli altri no

lunedì 19 novembre 2012

Guerra Inutile, Senza Un Nuovo Ordine


Per l'ennesima volta ci troviamo angosciati a seguire gli scenari di guerra del Medio Oriente. Per l'ennesima volta Hamas - con calcolato "azzardo" - decide di sparare razzi su Israele, tentando di colpire anche le città più importanti; per l'ennesima volta Israele reagisce come sa fare, e come ritiene giusto fare; come è giusto che faccia, da molti punti di vista.
Ma la sensazione è inevitabilmente del solito muro contro muro; della "trappola", del cunicolo di angoscia e terrore nel quale anche le giuste ragioni di Gerusalemme rischiano di infangarsi e di diventare non-ragioni, e torti. 

Perché fare una guerra male, anche se giusta - lo avete già letto spesso su questo blog - può essere peggio che non farla.
Può essere, scrivo; perché spero che le capacità tecniche, e la lucidità politica di una parte dell'establishment di Israele (più l'esercito che il governo, dal mio punto di vista) sia capace di calcolare e pazientare fino all'estremo, affinché non sia necessario passare ad atti più duri.

Ancora non è chiaro mentre scrivo (sera del 19 novembre 2012, è notizia di pochi minuti fa la telefonata di Obama a Morsi e Netanyahu) quale sarà la prossima mossa di Israele, né quelle di Hamas. L'ipotesi di tregua è importante, e sarebbe da sfruttare, ma i preparativi di Israele sembrano a uno stadio troppo avanzato per non pensare che comunque sia difficilissimo un passo indietro. Ma speriamo in novità positive.

Parlo soprattutto di Israele, non perché pensi - come altri fanno - che sia di Gerusalemme la colpa di quanto avviene; parlo soprattutto di Israele perché stato democratico, e con il quale altri stati democratici possono definire relazioni aperte, esplicite e forti, nel consenso e nel dissenso; non parlo di Hamas, perché il livello con cui si può contrattare con Hamas non appartiene - per il momento - al classico schema delle relazioni internazionali, ma si gioca quasi (quasi!) solo sui rapporti di forza; può essere giocato sul versante delle trattative separate, dei contatti informali; può - e deve, se possibile - essere giocato all'ombra. Nel patteggiamento continuo, snervante e a tratti immorale, ma inevitabile, che comunque c'è sempre, anche con il peggior nemico.

Ma non se ne esce, e non se ne uscirà, finché l'intero scacchiere medioorientale non sarà costretto a un cambiamento di posizione, che è cosa diversa - si badi - dal "semplice" cambiamento delle leadership a cui abbiamo assistito con la cosidetta primavera araba.

giovedì 15 novembre 2012

Sarà Una Grossa Escalation (Europaquotidiano.it)


Con le elezioni in programma all'inizio dell'anno prossimo, nessun partito israeliano vorrà mostrarsi incerto sul da farsi, di fronte a un “attacco allo stato ebraico”. Il problema è – al solito – che fare.
Il ministro della difesa Ehud Barak ha fatto sapere di aver allertato trentamila riservisti dell'esercito. Alcuni mezzi militari si sono già avvicinati al confine con Gaza. Lo stesso Nathan Thrall spiega però che le opzioni di terra – un'invasione completa della Striscia, oppure solo di alcune aree – comportano rischi enormi e potrebbero non raggiungere l'obiettivo di fermare Hamas.
Il presidente egiziano Mohamed Morsi ha annunciato che invierà il suo primo ministro a Gaza, già da domani. In Egitto i rapporti tra esercito e Fratelli musulmani sono ancora tesi: una guerra al confine è un'ipotesi che spaventa, e Morsi farà il possibile per evitarla.
I media israeliani stasera parlano della possibilità di un'invasione di terra già domani. E in queste ore una nuova scarica di razzi di Tsahal sta colpendo Gaza. Senza un intervento politico, l'escalation non può che andare avanti.


Israele - Gaza: guerra "elettorale" o messaggio all'Iran?


La guerra di Bibi può al massimo confermare gli elettori attuali, ma certamente non gli consentirà di conquistarne di nuovi. Senza contare gli aspetti veri e propri di merito militare: Hamas negli ultimi undici anni ha lanciato verso Israele qualcosa come 12.000 razzi, e l’operazione ha lo scopo dichiarato di eliminare tale capacità d’attacco. Se il governo israeliano ha ritenuto necessario colpire Hamas, lo ha fatto aspettando che terminassero le elezioni americane, per evitare eccessivi imbarazzi al nuovo presidente – chiunque egli fosse stato.
Alla fine, i motivi esteri sembrano prevalere su quelli elettorali domestici. L’operazione «Pillar of Defence» è un ballon d’essai per dare una svolta agli eventi mediorientali, e in particolare per rendere chiaro all’Iran il fatto che la condiscendenza americana verso i piani nucleari sta cambiando. C’è una prova assoluta di questo: il Dipartimento di Stato americano mercoledì ha emanato un comunicato in cui si attribuiva ad Hamas l’intera responsabilità del conflitto. Le parole esatte sono state: «Sosteniamo il diritto d’Israele di difendersi, e incoraggiamo Israele a intraprendere qualsiasi iniziativa per evitare vittime civili». Finalmente – sospirano a Gerusalemme Ovest – Obama ha preso posizione in favore d’Israele.
Leggi il resto: Stefano Casertano su Linkiesta

Evidentemente, una rappresaglia così violenta in questo momento, rende il quadro regionale ancora più teso, come se non bastasse la guerra civile siriana con il rischio che essa contagi il Libano e intacchi il già precario equilibrio giordano. Ed è appena il caso di accennare al fatto che l’omicidio di 9 persone a Gaza non potrà che costringere lo stesso Morsi ad assumere una posizione molto dura nei confronti del governo di Tel Aviv. Si tratta cioè di un vero e proprio regalo fatto alla componente più radicale dei Fratelli Musulmani (di cui Hamas è una lontana filiazione) e dei salafiti. Tutto questo proprio nel momento in cui il presidente Obama sembrava intenzionato a proseguire nella coraggiosa e cauta apertura di credito verso il regime egiziano, proprio allo scopo di concorrere alla stabilizzazione dell’intera regione. La cosa più triste, pensando alla tradizione democratica di Israele e alla straordinaria levatura morale di tanti dei suoi intellettuali, è dover prevedere che questo attacco sarà probabilmente interpretato dalle opinioni pubbliche arabe come una risposta indiretta alle «primavere» di questi due anni. Il fatto, sottolineato da tutti i commentatori, che esse avessero sostanzialmente disertato i più consueti «luoghi» dell’odio anti-israeliano, rischia di diventare solo un ricordo.

Ma c'è un precedente, anche per il tipo di operazione che l'esercito israeliano sta realizzando: l'operazione Piombo Fuso di quattro anni fa. Anche allora, l'Idf aveva intrapreso un assalto su Hamas, presentato pubblicamente come destinato a ripristinare la tranquillità a Sud. Ma anche se la pianificazione militare era stata esemplare, il campo di applicazione dell'operazione non sembrava essere stato pienamente determinato da quelli che lo avevano programmato.
L'esercito israeliano pensava di ferire Hamas o di estromettere Hamas? Lo stesso Idf non lo sapeva, perché i suoi amministratori politici - in particolare il ministro della difesa Ehud Barak - vacillavano. E mentre l'operazione si svolgeva in tre settimane d'inverno, la mancanza di chiarezza diveniva evidente, e dannosa.
Due anni prima, l’incertezza dei capi politici sugli obiettivi militari aveva avuto ripercussioni ancora più gravi nei 34 giorni della seconda guerra del Libano. Con un primo ministro inesperto come Ehud Olmert, e un non adatto ministro della difesa Amir Peretz, così un'operazione limitata si è trasformata in una vera e propria guerra, con conseguenze prevedibilmente tristi.
Barak ha detto mercoledì che gli obiettivi dell'operazione Pillar of Defense servivano a sostenere la capacità deterrente di Israele, ad attaccare le infrastrutture di lancio dei razzi, a danneggiare gravemente le cellule terroristiche di Gaza e a ridurre gli attacchi contro i cittadini di Israele. Obiettivi lodevoli, naturalmente, che la maggior parte degli israeliani avrebbe facilmente condiviso. Ma piuttosto vaghi, troppo.
Leggi il resto: La saggezza di Israele sarà capire quando fermarsi

mercoledì 14 novembre 2012

Ora Tocca Alla GIordania? (G.Olimpio)

Dalla pagina FB di Guido Olimpio:


Tutto ribolle/ Ora Giordania.

Commando armato ha attaccato posto di polizia a Irbid. Un terrorista ucciso, una dozzina di agenti feriti. Nel paese da giorni ci sono proteste contro il re. Poche settimane fa erano stati arrestati militanti qaedisti legati ai ribelli jihadisti in Siria. Un brutto segnale. 
(14 nov)

Cambiare E Rassicurare (Bersani)


Questo è un paese che ha voglia di farsi trascinare in un cambiamento o siamo davvero così conservatori come sembriamo?
È una domanda con cui mi sono trovato a confrontarmi molto spesso. Sono stato sovente impegnato in esperienze di governo e, ogni volta che ho iniziato a gestire una responsabilità, mi sono chiesto: «Quale cambiamento posso produrre in questo mio nuovo ruolo?». Perché si sa che si deve cambiare, il mondo gira e non sta fermo. Bisogna però pensare a come promuovere questo cambiamento. il dilemma, infatti, è se il cambiamento bisogna annunciarlo o se, invece, non sia più efficace produrlo e poi spiegarlo a cose fatte. in questo paese non puoi conservare, devi cambiare, ma è anche vero che non puoi mettere per principio in agitazione la gente annunciando un cambiamento fine a se stesso. Questo è un paese che ha una storia antichissima e buone ragioni per conservare dei meccanismi che spesso hanno delle radici: radici familiari, localistiche, di mestiere, che possono prendere aspetti corporativi, difensivi, e quindi conservativi, con cui però devi fare i conti. Sono radici vere, antiche, solide. Allora, pronunciare vacuamente la parola «cambiamento» non funziona in un paese come questo. Devi farti avanti con un cambiamento e con una rassicurazione: chi ha interpretato benissimo questo ruolo è stato papa Giovanni.

lunedì 12 novembre 2012

Gli Stati Uniti saranno i più grandi produttori di petrolio al mondo? (da ilPost)


(...) Il rapporto AIE dice che «gli Stati Uniti, che attualmente importano circa il 20 per cento del loro fabbisogno energetico, diventeranno del tutto autosufficienti in termini netti», con un notevole cambiamento degli attuali flussi commerciali di petrolio. I principali paesi esportatori dirotteranno parte delle loro forniture verso l’Asia, con probabili cambiamenti anche nei rapporti politici internazionali.
Come spiegano sul Financial Times, gli Stati Uniti potrebbero quindi cambiare il loro atteggiamento in politica estera. Potrebbero disinteressarsi progressivamente alle principali rotte e oleodotti per trasportare il petrolio per il loro consumo interno. Altri paesi orientali, a partire dalla Cina, potrebbero invece fare il contrario per assicurarsi un maggiore controllo di una risorsa fondamentale per i loro ritmi di sviluppo. D’altra parte il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ripete da anni di essere convinto che l’indipendenza dal petrolio straniero sia indispensabile per la politica estera ed economica del paese.
Secondo la AIE gli Stati Uniti raggiungeranno l’autonomia sostanzialmente grazie a due fattori: da un lato l’aumentata produzione di petrolio grazie ai nuovi sistemi per la sua estrazione, dall’altro le politiche energetiche adottate in questi ultimi anni tese a ridurre e ottimizzare i consumi. Semplificando, si produrrà più petrolio e se ne consumerà molto di meno, cosa che consentirà agli Stati Uniti di perdere la loro dipendenza dagli esportatori di petrolio. Stando alle stime AIE, i volumi di importazione di petrolio nei prossimi dieci anni crolleranno dagli attuali 10 milioni di barili al giorno ad appena 4 milioni di barili. Entro il 2035, inoltre, gli Stati Uniti stessi potrebbero diventare esportatori di petrolio.
I dati e le previsioni fornite dalla AIE non convincono però tutti gli analisti.(...)

L’anonimato e i diritti dei neonati (V.Zagrebelsky, la Stampa)


La legge sulla fecondazione medicalmente assistita esclude la possibilità della madre di dichiarare di voler rimanere anonima e persino stabilisce che, nel caso di inseminazione eterologa, il coniuge o il convivente che ha consentito non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità.  

La volontà di generare un figlio non può dunque essere revocata. Questa la legge vigente. Ma ora alla Camera dei Deputati è stata approvata (ancora in Commissione) una modifica, che ammette il «parto anonimo»: la madre vuole rimanere anonima e per il figlio si apre la procedura di adozione.  

Ma tutti hanno diritto al rispetto dell’identità personale. I limiti che la legge impone alla possibilità di conoscere l’identità dei genitori e la propria ascendenza devono quindi essere mantenuti nello stretto necessario, quando essa confligga con la tutela di altri diritti fondamentali. In tal senso si è da tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha esaminato recentemente il caso italiano e la legge che vieta che venga svelata al figlio l’identità della madre, che partorendo abbia dichiarato di voler mantenere l’anonimato. La violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini biologiche è stata vista nel fatto che – a differenza delle regole vigenti negli altri Paesi europei che permettono il parto anonimo - la legge italiana non ammette eccezioni o limiti temporali. Il diritto del figlio è annullato dalla decisione della madre di abbandonarlo e di rimanere per sempre inconoscibile. (...)

L’anonimità della madre, tanto più se unita all’impossibilità assoluta di superarla, dovrebbe essere riservata a situazioni estreme. E’ incomprensibile quindi che la si ammetta anche nel caso di donna che partorisca a seguito di fecondazione medicalmente assistita: dopo quindi una scelta consapevole, una volontà di generare fermamente manifestata nella lunga e gravosa procedura medica. Proprio per questo è probabile che questa nuova possibile scelta non venga mai esercitata. La riforma assume allora un più che discutibile valore di principio: un generale diritto di rifiutare il figlio al momento del parto. E’ stato detto in proposito che «tutte le madri sono eguali». Vero, ma le condizioni in cui si diventa madri non lo sono. E i figli hanno diritti.  

venerdì 9 novembre 2012

Cosa E' Successo In Afghanistan?


Propongo di seguito un articolo del Foglio e un'ulteriore riflessione del Sole24Ore a proposito della morte dell'alpino Chierotti. Personalmente sarei cauto, prima di definire il comportamento dei vertici dell'esercito e del governo come "reticente" o "scarsamente affidabile": sono molti gli elementi che possono aver fatto propendere per un atteggiamento di prudenza nel "racconto" di quanto avvenuto.

Come già scrivevo due anni fa (vd. post più sotto), il problema di fondo è la difficoltà politica di gestire una "sporca guerra" che non deve apparire troppo sporca, e che in teoria dovrebbe veder vicina la sua conclusione. Una "doppiezza" che accompagna la missione in Afghanistan fin dal suo sorgere, e che sembra essere una costante degli interventi "umanitari" - o analoghi - che hanno segnato lo stile della politica estera occidentale. 

Sarebbe urgente comunque - al di là di questo specifico episodio - riprendere in mano il dossier afghano e in generale l'impianto complessivo della nostra politica estera; se la crisi economica rischia di portarci da un lato a una "fuga" poco razionale dall'impegno all'estero, l'alternativa non può essere nel silenzio sui fatti (per evitare problemi) o nel farsi dirigere dall'emergenza di turno (per raccogliere un plauso momentaneo), ma in un discorso pubblico sempre più consapevole e maturo, il meno possibile "doppio" e "ambiguo"

Il meno possibile, ho scritto: perché comunque sempre - per il bene degli stati e soprattutto delle democrazie - il discorso pubblico sulla guerra è ambivalente e in parte nascosto. Il peggior nemico della trasparenza democratica è l'idolatria del "nessun segreto", che nessuna comunità umana, in realtà, può sopportare.

Francesco Maria Mariotti

giovedì 8 novembre 2012

Non solo Washington (Rassegna stampa)


Non c'è solo Washington, nel mondo; è sempre stato così, naturalmente; ma oggi lo è ancora di più, e la palese "freddezza" dei mercati nei confronti della rielezione di Obama è segno tangibile dei nuovi limiti con cui gli Stati Uniti si muovono nel mondo. Non c'è più solo Washington, e oggi dobbiamo guardare naturalmente a Pechino, con il cambio della guardia ai vertici del Partito Comunista, avvicendamento per molti aspetti pieno di incognite; ma anche al Giappone (peraltro coinvolto in dispute con il Dragone) in crisi, e che troppo spesso viene facilmente preso a modello come economia in grado di "autosoreggersi"; tanti altri scenari - Turchia, Siria, Libano, Iran - si presentano in un mondo sempre meno "ordinato" e sempre più apparentemente "policentrico".

E in questa situazione, per noi oggi rimane aperta la ferita della Grecia, segno di un'Europa che da un lato sembra diventare consapevole degli errori che si sono fatti sul corpo vivo di Atene, ma al tempo stesso è ancora incapace di vedere una strada diversa, probabilmente impossibile fino a che Europa non sarà il nome di una nazione unita.
Tutto questo in una rassegna stampa speciale, i cui capitoli leggete nei link qui sotto.


Francesco Maria Mariotti


sulle elezioni americane leggi anche: 








Obama, l'America e noi


Gli americani non sono riusciti a fidarsi del businessman Romney nemmeno dopo quattro anni di recessione e ripresa anemica, con la disoccupazione quasi all’8% - un livello altissimo per gli Usa - e una montagna di debito che sembra il Mount Rushmore. Ci sono, ovviamente, altre ragioni per la vittoria abbastanza facile di Obama - la grande partecipazione di ispanici, neri e donne; un partito repubblicano che ha preso posizioni troppo estreme su temi quali l’aborto e l’immigrazione, ed il «fattore umano» di un Presidente che sembra nato per fare campagna elettorale ed uno sfidante che sembra nato per stare nell’ufficio d’angolo con vista sui grattacieli. Prima delle elezioni scrissi che gli americani avrebbero votato con il portafogli. Martedì, il Paese ha puntato il portafogli verso Obama e gli ha detto: «Hai quattro anni per riempirlo!». 
 
L'amministrazione Obama, proprio perché punta sulla stabilità fra le due sponde dell'Atlantico, ha bisogno dell'amico italiano. Ha bisogno di un paese leale, governato da esponenti credibili. E nelle relazioni internazionali, come è noto, i rapporti personali contano parecchio. Negli ultimi due anni Obama ha costruito un legame tutt'altro che convenzionale prima con Giorgio Napolitano e poi con Mario Monti, il premier succeduto a Berlusconi. Non è casuale. L'Italia non può non rappresentare un tassello importante nella strategia europea della Casa Bianca, visto che i falchi sono a Berlino ed è con loro che bisogna fare i conti. In questo anno l'amico italiano ha fatto la sua parte, mentre l'amico americano non ha mai smesso d'incoraggiare una soluzione concordata, senza strappi ideologici, dei problemi comuni dell'Unione. E in tal senso molto ha contato, come si può capire, la relazione fra Bernanke e Mario Draghi.
 
 
Adesso occorre vedere quali uomini Obama sceglierà per gestire l'economia e il cruciale rapporto fra industria e finanza. Non c'è dubbio infatti che la crisi del 2007-2008 è stata figlia di una iperfinanziarizzazione del sistema, tenacemente perseguita ad esempio da Bob Rubin, ministro del Tesoro di Bill Clinton e nume tutelare poi di tutta la squadra economica di Obama dopo la vittoria del 2008. Rubin era stato in molte negoziazioni commerciali importanti, con l'Asia soprattutto, il propugnatore di un progetto che vedeva cessioni all'Asia di sempre maggiori quote di manifatturiero in cambio di un ruolo privilegiato per Wall Street nella cogestione delle risorse finanziarie asiatiche. Allora Obama fu affrontato da un frustrato senatore democratico, Byron Dorgan del North Dakota, per anni voce quasi solitaria al Senato contro i rischi della troppa deregulation, di cui Rubin e Summers furono artefici di Mario Margiocco
 

Cina, il Dragone tira fuori gli artigli?


Dopo anni di discorsi improntati al pacifismo, anche quando il Parlamento approvava aumenti a doppia cifra del budget militare, ieri per la prima volta il Dragone ha tirato fuori gli artigli. «Cina deve diventare una potenza marittima per difendere risolutamente i suoi diritti e i suoi interessi territoriali» ha ammonito Hu. dal nostro corrispondente Luca Vinciguerra - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/tWMRZ

"Se non affrontiamo il problema della corruzione - ha detto Hu Jintao parlando nella sala dell'Assemblea del Popolo su piazza Tiananmen, addobbata con bandiere rosse e un'enorme falce e martello - essa potrebbe provocare una crisi del Partito e anche un crollo dello Stato". "La riforma della struttura politica è una parte importante delle riforme generali e dobbiamo prendere iniziative positive e prudenti in questa direzione", ha aggiunto Hu."La Cina non copierà mai un sistema politico occidentale". ha detto Hu Jintao, aggiungendo che la Cina continuerà sulle riforme della struttura politica per "rendere la democrazia popolare più estesa".


Eppure, di riforme in Cina ci sarebbe grande bisogno, spiega al Foglio Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università di Torino e vicepresidente di T.wai (Torino World Affairs Institute): “Crescendo, l’economia cinese ha creato gravi danni ambientali, sanitari e sociali. Si è trattato di una crescita diseguale, e questo ha provocato malcontento nella popolazione. Non a caso, il numero delle proteste è passato da 8.700 casi nel 1993 ai 230 mila di oggi, anche se le statistiche dell’ultimo periodo non sono ufficiali”. La crescita economica tanto sbandierata dalle autorità, poi, “è in realtà più contenuta, le cifre sono in parte gonfiate, tant’è che puntualmente a ogni trimestre vengono ritoccate al ribasso”, dice. Fare riforme con l’economia che non galoppa più come nell’ultimo decennio è difficile: “La sfida che ha davanti la prossima leadership è ardua. Tutti si attendevano che Hu Jintao e Wen Jiabao, soprattutto nel loro secondo mandato, potessero approfittare della crescita record per avviare le riforme necessarie. Invece nulla di tutto questo è avvenuto, anche perché – e lo stiamo capendo ora – Hu Jintao aveva un controllo molto parziale del Comitato centrale”. D’altronde, “se è vero che l’ex presidente ottantaseienne Jiang Zemin è influente ancora oggi nel Partito, è lecito pensare che sia stato ben più incisivo negli scorsi anni”, aggiunge Andornino. Se Pechino non è riuscita a cambiare rotta nell’ultimo decennio, quando ne aveva le possibilità ed era spinta dal successo finanziario, è probabile che non lo farà neppure da qui al 2022: “C’è la necessità di compiere scelte politiche decise e chiare, e questo la nomenclatura alla guida del paese non è in grado di farlo. Sono troppi gli interessi in gioco. Inoltre, al momento non è credibile che Xi Jinping possa cambiare le cose da solo, anche perché fa pur sempre parte di una leadership collettiva e non individuale”.




Se Tokio sembra Atene (Luigi Zingales, ilSole24Ore)


E' come se lo stato giapponese finanziasse il proprio debito in moneta, ma i suoi cittadini ossequiosi, invece di spendere questa moneta, la risparmiassero, mettendola sotto il materasso. Questa partita di giro, però, non può continuare tanto più a lungo. La coorte più numerosa di giapponesi, quelli nati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, sta per andare in pensione. 

Turchia, voglia di presidenzialismo (e di spese militari...)


Chiusa la parentesi americana, ci occupiamo di ben altro tipo di presidente.  La notizia è di lunedì ma i primi dettagli stanno emergendo solo oggi. Potrebbe essere ancora prematuro parlarne, ma sembrerebbe proprio che il nostro primo ministro Recep Tayyip Erdogan abbia fretta di assicurarsi lo scranno più alto della Repubblica e con determinati poteri. Il vicepremier Bekir Bozdag ha detto che l'Akp, il partito di Erdogan, ha inviato la sua proposta di sistema presidenzialista all'ufficio dello speaker del parlamento. I dettagli sono ancora abbastanza vaghi, ma sembrerebbe che il cambio rispetto al sistema attuale sia piuttosto radicale, con un presidente che nomina ministri, pone il veto sulle leggi e un governo che non avrà nemmeno più il voto di fiducia. Vi confesso che per natura non sono una grande sostenitrice del sistema presidenziale, a meno che questo non sia applicato in un Paese fortemente federalista come gli Stati Uniti. Se poi mi ricordo che, come riporta Hurriyet, a inizio ottobre Erdogan ha dato l'ultimatum alla Commissione che si occupa della nuova costituzione di finire entro l'anno, altrimenti l'Akp va avanti da solo, ecco vi confesserò che non mi sento molto ottimista.


Il Governo turco ha annunciato un consistente aumento delle spese militari che nel 2013 raggiungeranno i 45,3 miliardi di nuove lire (20 miliardi di euro), sei miliardi in più rispetto all'anno in corso. L'incremento record, pari al 16,3 per cento, viene spalmato sui bilanci delle forze armate (+ 11,8 per cento) , dell'intelligence e della sicurezza interna e guardia costiera e viene giustificato dalla recrudescenza delle operazioni contro il movimento curdo PKK

Siria, Libano, Iran...


Siria e Libano su un piano inclinato (AffarInternazionali)


Ogni qualvolta ci si accinga a parlare di accadimenti in Medioriente, quella parte del mondo in cui niente è come sembra, ci si rende conto dell’estrema complessità del tema. Siria e Libano, ad esempio, sono paesi dove la realtà statuale è emersa abbastanza di recente - risale a una novantina d’anni fa – i cui confini politici sono stati disegnati a tavolino dalla Società delle Nazioni, o comunque dall’Occidente, con stecca, squadra e tratti di inchiostro a china. 

Così come in tutta la regione, dall’Arabia Saudita al Kuwait, dall’Oman alla Giordania. Ora si dice che il conflitto in Siria stia contagiando il Libano. Ma stiamo davvero assistendo a qualcosa di nuovo? Chi può avere interesse a farlo? Solo la storia può venire in soccorso.



Iraneide (dalla pagina FB di Guido Olimpio - 8 novembre 2012)

All'alba del 1 novembre due caccia iraniani Su25 hanno sparato su un drone americano disarmato. Non lo hanno colpito. Il drone era a circa 16 miglia dalla costa iraniana nel Golfo Persico. Gli iraniani volevano creare un incidente alla vigilia del voto? O qualcuno non e' contento delle trattative segrete condotte dal regime con gli Usa sul nucleare?

L'Egitto che guarda a Obama (AffarInternazionali)


Se nei palazzi alti l’entusiasmo è alle spalle, i cittadini egiziani sono più cauti. Da un lato la maggior parte di loro è delusa nel vedere che gli aiuti americani continuano a gonfiare le tasche dei militari. Dall’altra, considerata anche la crisi economica che attanaglia il paese, esercito e governo chiedono che Obama sblocchi quei sussidi che non arrivano al Cairo da quando, lo scorso settembre, è stata presa d’assalto l’ambasciata americana. 


Quando dall’economia si passa alla politica estera, la percezione diffusa alla vigilia del voto era che chiunque fosse salito alla Casa Bianca non avrebbe cambiato lo storico atteggiamento Usa nei confronti dell’Egitto, del conflitto israelo-palestinese e della politica regionale.

Affamati di cambiamenti e scettici riguardo alle prospettive statunitensi, gli egiziani si preoccupano piuttosto della transizione in corso all’interno del loro paese. A far discutere è soprattutto la nuova Costituzione.


Terrore Qaedista in Mali


AL ABAMAKO (Mali)- Bulldozer, mazze e picconi. Sono le armi con cui gli integralisti islamici, che occupano Timbuctu dal marzo scorso, stanno distruggendo l’immenso patrimonio artistico della «Perla del deserto». Ultimo bersaglio, il monumento all’Indipendenza che sorge al centro della città, preso di mira sabato dai qaedisti del Mali. Una statua di Al Faruk, leggendario protettore della «città dei 333 santi», incorniciata da una costruzione triangolare in muratura.

CONFLITTO INTERRELIGIOSO - Nell’oscurantismo praticato con sistematica violenza dai gruppi terroristici che hanno imposto la sharia su quasi due terzi del territorio del Mali, soltanto Allah può essere venerato. Così come in Tunisia e Libia distruggono mausolei sacri al sufismo (corrente spirituale dell’islam) e luoghi di culto musulmani e cristiani patrimoni dell’umanità “protetti” dall’Unesco. Tutto quello che è prova di culti più antichi e radicati del loro bieco salafismo o integralismo islamico, anche all’interno dello stesso islam, viene distrutto.

L'Europa che non vogliamo


La maggior parte degli ottantamila venuti a protestare contro l’ennesima stangata è arrivata nel primo pomeriggio, ha srotolato gli striscioni e si è unita alle canzoni partigiane cretesi sparate da qualche altoparlante o ha intonato slogan contro il governo. Molti sono al di là della rabbia, sono disperati. Nico Drakotos, 33 anni, non sa come andare avanti. Regge assieme ad altri uno striscione che dice “basta con l’austerità” - ha moglie e un figlio ma non percepisce lo stipendio da settembre. “Mi sono rimasti 15 euro sul conto in banca, come faccio a dare da mangiare a mio figlio?”. Accanto a lui, Caterina Terina, 34 anni e una laurea in ingegneria. Fa parte di quel 25% di greci disoccupati e sta pensando di emigrare in un paese arabo: “Lì c’è tanta richiesta di ingegneri”. È “molto arrabbiata con il governo” ma una delle cose che la preoccupano di più è il successo crescente dei neonazisti di Alba dorata. Lei abita vicino a Agios Pandaleimonas, il quartiere dove il partito di Michaliolakos ha un grande seguito. “I miei vicini di casa - racconta - pensano che siano innocui, anzi, che facciano del bene al popolo. È questo il pericolo: che crescano i movimenti antidemocratici. Sta già succedendo.” 


Il Ruolo Del Cittadino Non Finisce Con Il Voto (il discorso di Obama - da ilFoglio.it)

(...) Stanotte avete votato per l’azione, non – come al solito – per la politica. Ci avete eletto perché ci concentrassimo sul vostro lavoro, non sul nostro. E nelle settimane e nei mesi a venire mi aspetto di aprire un dialogo e lavorare con i leader di entrambi i partiti per discutere delle sfide che possiamo vincere solo lavorando assieme. Ridurre il deficit. Riformare il codice tributario. Emendare il sistema dell’immigrazione. Renderci liberi dal petrolio straniero. Abbiamo un sacco di lavoro da fare.

Ma questo non vuol dire che il vostro lavoro sia concluso. Il ruolo del cittadino nella nostra democrazia non finisce con il voto. L’America non si è mai affidata a quello che può essere fatto per noi. L’America si affida a quello che possiamo fare per noi, assieme, attraverso il processo a volte duro e frustrante, ma necessario, dell’autogoverno. Questo è il nostro principio fondatore. La nazione ha più benessere di qualsiasi altra, ma non è questo ciò che ci rende ricchi. Abbiamo l’esercito più potente della storia, ma non è questo ciò che ci rende forti. Le nostre università, la nostra cultura, sono invidiate da tutto il mondo, ma non è questo che continua a far arrivare il mondo presso le nostre coste.


Quello che rende eccezionale l’America sono i legami che tengono unita la nazione più variegata del mondo. La convinzione che il nostro destino sia comune; che questa nazione funzioni soltanto quando accettiamo che esistono certi obblighi l’uno verso l’altro e verso le generazioni future. La libertà per la quale così tanti americani hanno lottato e per la quale sono morti si accompagna a responsabilità così come ai diritti. E fra questi, l’amore, la carità, il dovere, il patriottismo. Ecco cosa rende grande l’America.(...)

mercoledì 7 novembre 2012

"Non è stato un incidente" - Tammy Duckworth (Linkiesta)


«Non è stato un incidente, non c’è stata nessuna casualità, un incidente è quando due macchine si scontrano per errore: io invece sono stata abbattuta, tirata giù, sono stata colpita da un razzo. Ho solo pensato che non potevo permettere a un ribelle iracheno, che aveva avuto il suo giorno fortunato, di decidere anche del resto della mia vita. Si era già preso le mie gambe non poteva prendersi anche la possibilità che io tornassi a camminare, volare o ridere. Quel potere non potevo lasciarlo a lui, lo volevo io, e così un giorno alla volta ho riconquistato la mia esistenza. C’erano mattine che non volevo alzarmi dal letto, in cui avevo paura, in cui stavo molto male, ma ho sempre trovato qualcuno che mi diceva – Tammy, muovi il culo, è ora di alzarsi».

La democratica Tammy Duckworth stavolta ce l'ha fatta. Sconfitta nel 2006 da un avvocato repubblicano che la definì “poco patriottica”, la quarantaquattrenne veterana di guerra che ha perso entrambe le gambe nel 2004 pilotando un elicottero Black Hawk di ritorno da Baghdad, ha vinto in Illinois contro il repubblicano Joe Walsh (che invece l'ha accusata di non essere un vero eroe di guerra perché gli eroi non fanno vanto della loro condizione).

È la prima donna veterana di guerra a entrare al Congresso. Quattro anni fa, a poche settimane dalla storica elezione di Obama, la Duckworth era stata immortalata in una foto del “New York Times”, in un dolente abbraccio col Presidente in occasione delle celebrazioni del Veteran day. Oggi però è un giorno di festa, che si aggiunge a una data particolare e ravvicinata: il suo Life Day, che dal 2008 cade il 12 novembre, «faccio un party perché sono ancora viva. Il destino di un pilota di elicotteri che viene colpito è morire bruciato». La storia del tenente colonnello Tammy Duckworth, nata in Thailandia nel 1968 da una ragazza di origine cinese e un marine americano, è stata raccontata da Mario Calabresi nel suo libro “La fortuna non esiste” (Mondadori 2009).

martedì 6 novembre 2012

Chi è Mireille Ballestrazzi?

Per la prima volta una donna - Mirelle Ballestrazzi - ai  vertici dell'Interpol; di seguito alcuni articoli - in particolare uno dal Corriere (che fino a questa notte riportava il cognome con un refuso) - per conoscere un po' meglio il nuovo presidente. E anche alcuni link al sito dell'Interpol per capire meglio la struttura di questa organizzazione.

Francesco Maria Mariotti

A Roma verrà eletto anche il nuovo presidente dell'organismo; per la prima volta toccherà ad una donna, la francese Mireille Ballestrazzi. Interpol, ha spiegato da parte sua Manganelli, «è il più grande network di polizie del mondo, serve a realizzare un vero coordinamento tra le forze dell'ordine che è il requisito per rendere produttivo il nostro lavoro ed è un grande onore essere chiamati ad ospitare l'Assemblea». 


Nel suo curriculum di poliziotta c’è la caccia a Jacques Mesrine, il «pericolo pubblico numero uno» di Francia, o anche «l’uomo dai mille volti» (per via dell’abilità a camuffarsi a seconda delle necessità), ucciso dalla squadra speciale della polizia parigina creata proprio per catturarlo il 2 novembre 1979 a Porte de Clignancourt. Uno dei personaggi più noti della storia criminale francese degli anni Settanta, responsabile di omicidi, rapine e sequestri di persona. Ma il commissario Mireille Balestrazzi, attualmente vice direttore dell’Interpol, è stata anche la protagonista di altre indagini che hanno avuto una risonanza internazionale, come il recupero a Porto Vecchio, in Corsica, di nove tele di inestimabile valore (Monet, Renoir, Morisot e Narusé) rapinate da un commando di banditi dal museo Marmottan di Parigi nell’85. Quadri destinati, come si ipotizzò allora, alla mafia giapponese. (...) Storie da prima pagina come anche quella che ha in questi giorni a Roma sempre come protagonista la stessa poliziotta di allora, già capo della polizia ad Ajaccio e poi dell’equivalente italiano del Nucleo patrimonio artistico. Sarà infatti Balestrazzi il nuovo direttore dell’Interpol, la prima donna ad assumere l’incarico nella storia dell’organismo internazionale di polizia criminale. (...)




Struttura e governance dell'Interpol (Comitato Esecutivo - in questa pagina Ballestrazzi è ancora Vicepresidente)

domenica 4 novembre 2012

FRATELLI - Dal Blog "Diario da Herat" - Festa delle Forze Armate Italiane

  FRATELLI 

 Mariano il 15 luglio 1916
 
 
Di che reggimento siete
Fratelli?
 
Parola tremante 
nella notte
 
Foglia appena nata
 
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
 
Fratelli
 
  Giuseppe Ungaretti

Speriamo di non finire come gli USA (Mario Deaglio su La Stampa)

Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Mitt Romney, ha affermato, un paio di giorni addietro, che il suo Paese rischia di finire come l’Italia. Gli italiani potrebbero replicare che sperano di non finire come gli Stati Uniti: l’emergenza dell’uragano Sandy - per quanto correttamente gestita, a differenza di quella dell’uragano Katrina del 2005 - ha posto in luce una realtà di infrastrutture pubbliche deboli al punto che il maggior centro finanziario del mondo ha dovuto chiudere per due giorni, quasi quanto per l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001
Pur spendendo per la sanità, in rapporto al prodotto interno lordo, circa il doppio di quanto spende l’Italia, gli Stati Uniti presentano indicatori sanitari nettamente peggiori: la speranza di vita alla nascita è di 78 anni contro gli 81 dell’Italia e il numero delle donne morte di parto è di 21 ogni centomila nati contro 4 dell’Italia. Se poi passiamo all’economia, scopriamo che il deficit pubblico degli Stati Uniti è pari circa l’8 per cento del prodotto interno lordo, quello dell’Italia a circa il 3 per cento.  

Naturalmente l’America di Obama/Romney può vantare iniziativa e innovazione, un mercato finanziario agile e una moneta rispettata, un’eccellenza tecnologica in molti settori, una forza militare senza rivali. Che a vincere sia Romney oppure Obama, però, le debolezze strutturali, sovente trascurate, finiranno per pesare e renderanno molto faticosa la vita del prossimo inquilino della Casa Bianca. Se poi, come è ben possibile, il partito del Presidente non avrà il controllo del Congresso, per l’America si porrà, come per diversi Paesi europei, un problema di governabilità reso più complicato dalla crisi.