Per l'ennesima volta ci troviamo angosciati a seguire gli scenari di guerra del Medio Oriente. Per l'ennesima volta Hamas - con calcolato "azzardo" - decide di sparare razzi su Israele, tentando di colpire anche le città più importanti; per l'ennesima volta Israele reagisce come sa fare, e come ritiene giusto fare; come è giusto che faccia, da molti punti di vista.
Ma la sensazione è inevitabilmente del solito muro contro muro; della "trappola", del cunicolo di angoscia e terrore nel quale anche le giuste ragioni di Gerusalemme rischiano di infangarsi e di diventare non-ragioni, e torti.
Perché fare una guerra male, anche se giusta - lo avete già letto spesso su questo blog - può essere peggio che non farla.
Può essere, scrivo; perché spero che le capacità tecniche, e la lucidità politica di una parte dell'establishment di Israele (più l'esercito che il governo, dal mio punto di vista) sia capace di calcolare e pazientare fino all'estremo, affinché non sia necessario passare ad atti più duri.
Ancora non è chiaro mentre scrivo (sera del 19 novembre 2012, è notizia di pochi minuti fa la telefonata di Obama a Morsi e Netanyahu) quale sarà la prossima mossa di Israele, né quelle di Hamas. L'ipotesi di tregua è importante, e sarebbe da sfruttare, ma i preparativi di Israele sembrano a uno stadio troppo avanzato per non pensare che comunque sia difficilissimo un passo indietro. Ma speriamo in novità positive.
Parlo soprattutto di Israele, non perché pensi - come altri fanno - che sia di Gerusalemme la colpa di quanto avviene; parlo soprattutto di Israele perché stato democratico, e con il quale altri stati democratici possono definire relazioni aperte, esplicite e forti, nel consenso e nel dissenso; non parlo di Hamas, perché il livello con cui si può contrattare con Hamas non appartiene - per il momento - al classico schema delle relazioni internazionali, ma si gioca quasi (quasi!) solo sui rapporti di forza; può essere giocato sul versante delle trattative separate, dei contatti informali; può - e deve, se possibile - essere giocato all'ombra. Nel patteggiamento continuo, snervante e a tratti immorale, ma inevitabile, che comunque c'è sempre, anche con il peggior nemico.
Ma non se ne esce, e non se ne uscirà, finché l'intero scacchiere medioorientale non sarà costretto a un cambiamento di posizione, che è cosa diversa - si badi - dal "semplice" cambiamento delle leadership a cui abbiamo assistito con la cosidetta primavera araba.
Anzi, proprio il fatto che vi siano nuovi vertici in molti paesi non depone a favore di uno scenario tranquillizzante; perché - è brutto da dirsi, ma temo sia vero - nuovi vertici forse devono toccare con mano, sbagliando, cosa può voler dire non cercare la pace. Nuovi vertici possono illudersi - pericolosamente - di saper giocare meglio dei vecchi la partita senza vittoria della tensione israelo-palestinese.
C'è chi - con fantasia politica (che non è un difetto, anzi!) e speranza che ammiro, ma purtroppo non riesco a condividere - ritiene che una mossa risolutiva possa essere accogliere Israele nella Unione europea. Personalmente ne dubito, per vari motivi, primo fra tutti il fatto che una mossa del genere rischierebbe di confermare una alterità di Israele rispetto all'area del Medio Oriente; alterità che va gestita, possibilmente ridotta (favorendo una democratizzazione di tutta l'area); ma non esaltata. Insomma, non possiamo confermare involontariamente il "noi" contro "voi". L'Occidente contro l'Oriente. La scommessa di Israele e Palestina che coabitano - se in senso democratico per ambedue - dovrebbe significare proprio la sconfitta del paradigma "noi contro voi". Dovrebbe...
Il vero nodo è che fino a che rimarranno in piedi le minacce rappresentate da Iran e Siria; fino a che ci sarà una parte di Medio Oriente che scommette sulla forza di Hezbollah, Hamas, e forze salafite; ebbene fino a quel momento, i palestinesi pagheranno anche per il patronaggio politico che opprime la loro causa, facendo finta di appoggiarla e la Palestina e - per ragioni diverse - il Libano saranno ancora terra di guerra per procura.
C'è stato un momento in cui Israele non reagì a razzi caduti sul suo territorio: era in corso la prima guerra del Golfo, e Saddam Hussein tentò una contrattazione violenta con gli USA, minacciando Gerusalemme e colpendo i territori israeliani. Il governo di Shamir - forte del pieno appoggio di Bush (senior) e dell'amministrazione americana, e consapevole della partita più grande in corso in quel momento - non reagì, guadagnandosi uno sguardo nuovo del mondo, che vide, e capì meglio; vide e comprese quale era la forza - non solo militare - di Israele.
Dopo quella guerra ci fu la conferenza di Madrid (palestinesi sotto l'ala giordana, per cominciare almeno a confrontarsi), e - a seguito delle elezioni che videro vincere Rabin - nuovi passi segreti nei confronti dell'OLP; quindi gli accordi di Oslo che portarono lo stesso Rabin e Arafat a stringersi la mano sotto gli occhi di Clinton, con Bush padre e James Backer che assistevano dal prato della Casa Bianca alla loro migliore vittoria.
Ma la situazione - è evidente - non è la stessa; né possiamo augurarci che scoppi una nuova Guerra del Golfo, perché si sistemino le cose, e venga privato di alimento quel terrorismo fanatico che assume vesti di quasi-Stato.
Ora non è possibile, ora il mondo non può, anche per quei cambiamenti di cui si diceva, che rendono difficilissimo costruire una coalizione analoga a quella che appoggiò gli Stati Uniti nella liberazione del Kuwait. E non si può quindi costruire quel "do ut des" che segnò quel patto ("appoggiateci nella liberazione del Kuwait, e faremo in modo di risolvere la questione isrealo-palestinese")
Ma qualcosa di simile c'è da attendersi - prima o poi - in modo più o meno traumatico. La Siria si sta suicidando in una sorta di automassacro, l'Iran continua una battaglia per la supremazia nucleare che - per quanto possa essere un punto controverso - non viene guardata con sospetto solo da Israele, ma anche da tutto l'arco sunnita.
La speranza, ma è parola che non funziona in questo contesto, e in queste ore; meglio sarebbe dire l'unica ipotesi di lavoro con un concreto orizzonte è che qualcosa cambi dall'interno di quei paesi.
Altrimenti, è solo questione di aspettare che il mondo ritrovi il fiato (economico), la forza e l'occasione (la scusa? il blocco di Hormuz, per dire?) per poter mettere in pista aerei, bombe, e soprattutto tempo, che oggi non abbiamo, schiacciati da altre urgenze.
Un nuovo ordine, c'è già in nuce, forse visibile ma non ancora tangibile. E va reso concreto, modificando quegli elementi che lo rendono ancora incompatibile con i nostri valori.
Altrimenti per Israele e l'Occidente - ma in realtà per tutti i paesi dell'area - saranno sempre più spesso guerre senza vittoria, e tregue senza valore.
Morti sempre più inutili. Sempre più inaccettabili.
Francesco Maria Mariotti
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