Propongo di seguito un articolo del Foglio e un'ulteriore riflessione del Sole24Ore a proposito della morte dell'alpino Chierotti. Personalmente sarei cauto, prima di definire il comportamento dei vertici dell'esercito e del governo come "reticente" o "scarsamente affidabile": sono molti gli elementi che possono aver fatto propendere per un atteggiamento di prudenza nel "racconto" di quanto avvenuto.
Come già scrivevo due anni fa (vd. post più sotto), il problema di fondo è la difficoltà politica di gestire una "sporca guerra" che non deve apparire troppo sporca, e che in teoria dovrebbe veder vicina la sua conclusione. Una "doppiezza" che accompagna la missione in Afghanistan fin dal suo sorgere, e che sembra essere una costante degli interventi "umanitari" - o analoghi - che hanno segnato lo stile della politica estera occidentale.
Sarebbe urgente comunque - al di là di questo specifico episodio - riprendere in mano il dossier afghano e in generale l'impianto complessivo della nostra politica estera; se la crisi economica rischia di portarci da un lato a una "fuga" poco razionale dall'impegno all'estero, l'alternativa non può essere nel silenzio sui fatti (per evitare problemi) o nel farsi dirigere dall'emergenza di turno (per raccogliere un plauso momentaneo), ma in un discorso pubblico sempre più consapevole e maturo, il meno possibile "doppio" e "ambiguo".
Il meno possibile, ho scritto: perché comunque sempre - per il bene degli stati e soprattutto delle democrazie - il discorso pubblico sulla guerra è ambivalente e in parte nascosto. Il peggior nemico della trasparenza democratica è l'idolatria del "nessun segreto", che nessuna comunità umana, in realtà, può sopportare.
Francesco Maria Mariotti
“Vedi quella montagnola? Là sotto è caduto Chierotti. I nostri ragazzi hanno fatto il loro dovere distinguendo chi era il nemico e chi no”, sottolinea il colonnello Cristiano Chiti, comandante della Task force italiana di Bakwa. Secondo la polizia afghana, due attentatori sarebbero partiti dal Pakistan con l’obiettivo di ucciderlo. Il distretto di Bakwa, 32 mila anime, può contare su esperti ceceni della guerra santa internazionale arruolati fra gli insorti. Non solo: i signori della droga la fanno da padroni in posti come Gaizabad, dove avrebbero dei laboratori per la raffinazione dell’oppio in eroina. Bakwa è uno dei pochi distretti afghani dove non funzionano i telefonini. L’ultimo imprenditore che ha tirato su un ponte per i cellulari è stato ammazzato. Così il lucroso giro delle telefonate a pagamento via satellite può continuare. A Bakwa la misera popolazione paga un pedaggio per tutto, a cominciare dall’accesso a Juma, bazar superfornito. La gabella intascata da talebani e signori della droga è di 500 afghani a persona, circa 8 euro, una cifra considerevole da queste parti.
L'aspetto più grave e preoccupante riguarda però la scarsa affidabilità delle fonti ufficiali italiane che, a Herat come a Roma, risultano ancora una volta incomplete, lacunose quando non restìe a fornire informazioni e dettagli circa gli scontri che coinvolgono le nostre truppe a volte uccidendo o ferendo militari italiani. Non è la prima volta che fonti giornalistiche fanno luce su scontri e caduti italiani nella guerra afghana sulla quale tutti i governi, incluso evidentemente quello dei tecnici, hanno cercato di tenere nascosti aspetti spinosi che nulla hanno a che vedere con il segreto militare.
(Ripropongo di seguito una riflessione di due anni fa, scritta quando fu ucciso il tenente Romani, FMM)
Come gli agenti segreti, a volte anche i soldati esistono solo nel momento della loro morte. Così è stato per il tenente Romani, appartenente a un corpo scelto, denominato Task Force 45. Di questo corpo si è già parlato in passato (vd.articoli che seguono); la sua esistenza non era quindi in realtà "totalmente top secret", ma sicuramente il ruolo che ricopre nell'intervento in Afghanistan è molto delicato e non pubblicizzabile nello stile del racconto (necessario e vero, ma spesso troppo accentuato, quasi retorico) dei "nostri ragazzi che aiutano i bambini afghani ad andare a scuola"
Il tragico evento che ci ha privato di uno dei nostri combattenti ci permette di vedere un po' più da vicino una guerra speciale, tanto da non poter essere "raccontata"; una guerra vera e propria, difficilmente "vendibile" all'opinione pubblica come missione umanitaria, ma inevitabilmente connessa alla parte più nota del nostro impegno miltare, e comunque non meno nobile (o quanto meno, anche per chi non riuscisse a credere alla nobiltà della guerra, non meno necessaria).
Il problema è che la "doppiezza" inevitabile di questo impegno rischia di accrescere le difficoltà nel gestire momenti difficili come quello di oggi e - più cinicamente, ma è necessario dirlo - anche nel "riscuotere" i "dividendi politici" di una guerra nella quale saremo impegnati ancora per molto tempo (...)
La Guerra Che (Non) C'è, La Politica Che Non Parla (20 settembre 2010)
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