Visualizzazione post con etichetta Medio Oriente. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Medio Oriente. Mostra tutti i post

domenica 22 novembre 2015

Combattere Ma Non Perdersi

Nota: il blog non è più aggiornato con continuità; riporto di seguito una riflessione condivisa con alcuni amici via mail riguardante i terribili attentati di Parigi del 13 novembre e scritta tre giorni dopo
FMM

***

Non devi giudicar le cose nel modo secondo il quale le giudica un uomo violento e malvagio o nel modo che costui vorrebbe che tu le giudicassi. Tu devi guardar le cose come sono, secondo verità.
(Marco Aurelio Antonino, Ricordi, Libro Quarto, 11)
 
***
 
Di seguito alcuni articoli e spunti di riflessione apparsi in questi giorni (Romano Prodi, Alberto Negri, Mario Monti, Enrico Letta, David Bidussa e altri). Nel richiamarli, aggiungo solo alcune mie brevi considerazioni:
 
1. Senza nulla togliere alla necessaria solidarietà atlantica ed europea, attenzione a non dimenticare pesi e responsabilità della stessa Francia nella gestione di alcune partite molto delicate. Si leggano le considerazioni di Massimo Nava, che ricorda alcuni errori di Parigi, in particolare dal punto di vista della politica estera (vd. Libia). Se dobbiamo muoverci uniti - e dobbiamo - è necessario che anche la Francia cambi atteggiamento nei confronti di tutti i suoi alleati;
 
2. Enrico Letta - che in questi giorni è stato una delle voci più nitide che si sono ascoltate - raccomanda l'integrazione della sicurezza a livello europeo. Su questo dobbiamo essere decisi e al tempo stesso molto attenti: abbiamo visto che i passaggi di sovranità sono lunghi e perigliosi; il passaggio all'euro è stato percepito - a torto (secondo me) o a ragione - come generatore di due gruppi di paesi, uno più forte economicamente, l'altro più in difficoltà. Questo tipo di percezione non può assolutamente verificarsi sul discorso sicurezza, per cui i passi devono essere fatti con molta attenzione, e condivisione piena. Sarebbe letale se ci accorgessimo che la condivisione delle procedure di sicurezza può diventare fattore di "vantaggio" di uno Stato rispetto ad un altro. Si possono condividere anche le informazioni più riservate? Forse, ma allora deve esserci attenzione massima in questi passaggi, e assoluta reciprocità;
 
3. Mario Monti in un bell'articolo segnala le debolezze di un'Europa che ha difficoltà a ragionare sulle necessità legate alle esigenze di sicurezza e scrive: "Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale." Oggi - guardando alle periferie di Parigi, ma anche alle nostre; guardando alla migrazione di masse sempre più ingenti, vien da pensare a un ruolo insostituibile della scuola (pubblica e privata, ma coordinata assieme) nel creare le condizioni di integrazione. Per questo è necessaria una riflessione non improvvisata sui programmi che le scuole pubbliche e private devono seguire; ed è forse il caso di tentare di rilanciare l'educazione civica, anche intesa come "educazione alla laicità", che dovrebbe prevedere momenti di scambio fra scuole, in modo che nessun allievo della Repubblica italiana - e dei futuri Stati Uniti d'Europa - rischi di rimanere legato a un solo tipo di formazione. Ed è altresì necessario pensare al modo di rendere il "panorama sociale" più integrato, il che vuol dire che nella nostra idea di società non può assolutamente mancare un welfare sostenibile e flessibile (quindi capace di esserci quando necessario, ma anche "retrattile" per evitare gli sprechi);
 
4. Giusto non cadere nella tentazione dello "scontro di civiltà", ma attenzione a non "annacquare" il fattore religioso e culturale, comunque decisivo in questo conflitto: su questo mi sembrano particolarmente importanti i contributi di Claudio Magris (ottimo) e Giovanni Fontana (con quest'ultimo sono meno pienamente in linea, ma la sua mi sembra riflessione importante da condividere).
 
Francesco Maria Mariotti
 
***
 
L'intervento di Romano Prodi a Che tempo che fa del 15 novembre (intorno al minuto 15 fino al minuto 34)
 
 
​Alberto Negri sul Sole24ore
 

"(...) Serve una coalizione globale, un’alleanza di civiltà, da quella occidentale a quella musulmana, per combattere l’Isis. Siamo chiamati a costituire una coalizione militare e di intelligence questa volta davvero efficace non come quella che dal 2014 a oggi ha colto risultati incerti e invece di rinsaldarsi si è quasi sfaldata lasciando spazio all’intervento in Siria della Russia di Putin, senza il quale peraltro oggi al-Baghdadi farebbe colazione sulle rovine di Damasco. Gli aerei sauditi e degli Emirati non volano più e i loro raid adesso li compiono in Yemen contro i ribelli sciiti Houti; la Turchia, storico membro della Nato, fa ancora assai poco perché gli stessi occidentali le hanno dato via libera per quattro anni, alzando la sbarra della frontiera al passaggio di migliaia di jihadisti, molti europei e francesi, che dovevano sbalzare dal potere Assad e che si sono poi arruolati nell’Isis.
La guerra la devono fare anche i nostri riluttanti alleati mediorientali.
Musulmani che si battono sul campo contro l’Isis ce ne sono: i curdi, i più eroici, osteggiati però dalla Turchia; gli iraniani, alleati di Assad come del resto gli Hezbollah libanesi; gli iracheni, che hanno avviato un’offensiva per spezzare le linee di rifornimento dell’Isis. Questi nostri alleati oggettivi anti-Califfato, che l’Occidente ha boicottato per anni mettendoli sotto sanzioni e in lista nera, hanno due difetti, sono sciiti e alleati del regime di Damasco.
Siamo al punto nodale: per una guerra efficace contro l’Isis bisogna congelare anche la storica ostilità tra sciiti e sunniti. Qualche segnale positivo c’è e proviene dal vertice di Vienna sulla Siria, che per certi versi ha anticipato quello di oggi al G-20 di Antalya.(...)"

"(...) Alla vigilia delle elezioni, dopo l’attentato di Ankara con oltre 100 morti, il braccio destro di Tayyp Erdogan, Ahmet Davutoglu, definì il Califfato «ingrato e traditore». Più che una gaffe, questi termini sono apparsi un’ammissione di colpa. Non mancano infatti le prove, se non di amicizia, almeno di compiacenza, della Turchia nei confronti dello Stato islamico. articoli correlati O si fa l’Europa o si muore Russi e americani contro il nemico ormai globale Coordinare intelligence europea e azioni militari Vedi tutti » OAS_RICH('VideoBox_180x150'); Erdogan è uno dei prìncipi dell’ambiguità mediorientale presenti al G-20 di Antalya. La guerra al Califfato è una vicenda in cui la Turchia ha giocato un ruolo essenziale con la complicità delle potenze occidentali e di quelle sunnite che in Siria hanno condotto un conflitto per procura all’Iran sciita. La svolta sono stati i negoziati sul nucleare con Teheran che hanno alimentato ancora di più la preoccupazione delle monarchie del Golfo per l'influenza iraniana. Più si avvicinava un’intesa con l’Iran e maggiori diventavano le offensive dell’Isil. Dopo Mosul, cadevano Ramadi e Falluja. Eppure la guerra della coalizione a guida americana restava inefficace: il 70% dei raid non trovava neppure il bersaglio. Ci si chiedeva come fosse possibile che non si riuscisse a fermare i jihadisti. La realtà è che il Califfato faceva comodo come mezzo di pressione per convincere gli iraniani ad arrivare a un accordo. (...)"
di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/J0GbYV

Mario Monti su ilFoglio
"(...) Beni pubblici e benessere privato. Se l’Unione Europea entra in una fase storica carica di sfide nuove rispetto ai suoi primi settant’anni – sfide legate ai profughi e ai migranti, alla guerra asimmetrica in corso, alla sicurezza interna ed esterna, alla necessità di spendersi seriamente per lo sviluppo sostenibile dell’Africa e del Medio Oriente, anche ad evitare che si scarichino sull’Europa flussi e tensioni insostenibili – ci sono due “confini” che devono essere riconsiderati quello tra beni pubblici e benessere privato e quello tra beni pubblici nazionali e beni pubblici europei.
Soprattutto in alcuni Paesi periferici, come l’Italia, si sta vivendo ora una tardiva onda lunga dell’era reaganiana. Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale. Anziché battersi a fondo perché il funzionamento dello Stato sia più efficiente, più trasparente, meno costoso, ma tuttavia dotato di risorse adeguate per svolgere i suoi compiti essenziali, sembra prevalere una certa rassegnazione. Si mira allora a sostenere il benessere privato, dando priorità alla riduzione delle tasse (“vanno ridotte tutte”, “non verranno mai più aumentate”, “alcune tasse saranno abolite” e “per sempre”) quasi come dovere morale dello Stato verso i cittadini e le imprese. Il loro consenso è assicurato, ma forse così facendo si trascurano interessi essenziali dei singoli Paesi, in un’Europa che deve “armarsi” della capacità di essere sicura, di sconfiggere il terrorismo, di farsi rispettare nel mondo. Inoltre i singoli Paesi, e l’Europa, faranno bene a tornare ad avere una certa attenzione per le disuguaglianze, cresciute a dismisura; e dovranno usare anche i sistemi fiscali per combattere le disuguaglianze eccessive, ancor più se vogliono conservare o accrescere una certa coesione sociale e nazionale dinanzi a un futuro forse caratterizzato da maggiori conflittualità esterne. (...)"
 
Enrico Letta su laStampa
 
"(...) Sicurezza integrata

I Paesi europei hanno difeso le loro prerogative nazionali in materia di intelligence, di sicurezza e di difesa. Non hanno voluto rafforzare la dimensione europea in questo campo. E non possiamo certo dire di sentirci più sicuri grazie a questa nazionalizzazione dei sistemi di sicurezza. Come pensare di essere davvero più sicuri senza una reale integrazione dei sistemi di sicurezza preventiva, e come pensare di vincere questa guerra senza una capacità complessiva coordinata a livello europeo di contrastare i fenomeni terroristici? Oggi questa capacità non c’è. I sistemi sono rimasti troppo nazionali, mentre i terroristi usano tutti i più moderni e integrati meccanismi per attaccarci.
Fare finalmente un passo avanti nella capacità congiunta di reazione dei Paesi europei sarà l’altro passo fondamentale per vincere questa sfida così drammatica. (...)"
 
Massimo Nava su Facebook
 
"(...) La realtá della guerra all'Isis é molto diversa da quanto farebbero pensare i buoni propositi e gli ambiziosi obiettivi.
1) Chi oggi combatte davvero sul campo l'Isis sono Paesi e forze che l'Europa e l'Occidente non considera come alleati o che ha considerato e considera ancora come nemici : la Russia di Putin, senza il quale il Califfato sarebbe giá a Damasco; gli hezebollah (che hanno subito un feroce attentato a Beiruth); l'Iran che puntella il regime di Damasco e i kurdi, massacrati dai turchi e di tanto in tanto sacrificati da tutti.
2) Gli Stati Uniti hanno sempre pensato che lo scontro fra potenze regionali favorisse l'equilibrio della paura. Hanno favorito la guerra Irak Iran negli anni Ottanta e oggi assistono allo scontro e alle guerre per procura fra Iran e Arabia Saudita, cioé fra il mondo sciita e il mondo sunnita.
3) Turchia (Membro Nato!) Arabia Saudita (sostenuta e armata dagli Usa), monarchie del golfo (con le quali tutti facciamo affari) hanno permesso l'espansione del Califfato, hanno agevolato il passaggio dei volontari combattenti dall'Europa, hanno pensato che potesse essere il grimaldello per scardinare il sistema siriano. Aperto il vaso di Pandora, nulla é piú controllabile. L'Isis controlla un grande territorio dove vivono milioni di persone. Ha armi sofisticate e addestratori, ha arruolato pezzi dell'esercito iracheno smantellato dagli americani, si finanzia con il petrolio, la droga e il contrabbando di opere d'arte (molti pezzi naturalmente finiscono sulle piazze occidentali!)
4) La Francia piange i suoi morti e tutti piangiamo per la Francia, ma Parigi dovrebbe hanno avviare una profonda riflessione sugli errori di politica estera e di politica socio-culturale. La battaglia della civiltà e dei valori repubblicani é nobile, ma l'ipocrisia è dietro l'angolo se non si ripensano amici e nemici, clienti di centrali nucleari e armamenti, finanziatori e investitori sul territorio francese. La battaglia della civiltá e dei valori repubblicani é nobile, ma deve essere condotta anche nelle periferie, nel mondo a parte dell'integraziona mancata o sbagliata che é diventata il terreno di proselitismo e di manovra anche dei terroristi. 
L'islamismo radicale é dentro la Francia."


Mario Giro* su Limes
"(...) Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmanistanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento.
Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.
In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.(...)"

David Bidussa su GliStatiGenerali
​"(...) Terzo aspetto. Come si sconfigge il nemico? Anche in questo caso è importante la forma in cui inquadrarlo. Perché sapere come lo si sconfigge è conseguente a inquadrare la natura di Isis, ovvero descrivere che cosa sia in quanto espressione, cultura e pratica politica. Ritenere che ciò che abbiamo di fronte sia un attacco terroristico implica intraprendere un percorso di contrasto che fa della controinformazione, dell’uso spregiudicato dell’intelligence, l’arma essenziale. Tutti i movimenti terroristici in età contemporanea sono stati sconfitti in seguito a un processo di rottura al loro interno, in altre parole “per defezione”. A un certo punto si è prodotta una falla e in forza di una capacità di contrasto e di intelligence qualcuno ha attraversato quella terra di nessuno in cui si era ritirato e “ha parlato”.
È pensabile che accada anche con ISIS? Vorrei pensarlo, ma non credo. ISIS ha la fisionomia del movimento politico, ideologico che si fa esercito, movimento fondato sulla convinzione. Movimento costituito da “soldati politici”.
Una sola esperienza nel corso del Novecento ha avuto questo percorso. L’esperienza politica, culturale, ideologica e mentale rappresentata dal nazismo. Il nazismo non è stato sconfitto da nessuna defezione. I suoi sopravvissuti, non hanno mai intrapreso una strada di pentimento, non hanno mai “abbandonato il campo”. Hanno attraversato il lungo dopoguerra senza mai aprire i conti con il loro passato, semplicemente perché ritenevano di avere ragione, ma di avere avuto il solo torto di essere sconfitti.(...)"

Claudio Magris sul Corriere della Sera
"(...) A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.
È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. (...)"

Giovanni Fontana su DistantiSaluti
"Tutti quelli che, in queste ore, stanno dicendo la sciocchezza che ciò che motiva gli attentati di Parigi è la politica e non la religione provi a rispondere a una semplice domanda: perché, in questa fase d’incertezza, siamo certi che tutti gli attentatori siano mussulmani? Attenzione: non sto dicendo che non esiste un terrorismo non mussulmano, non sono scemo, la storia ne è piena. Sto domandando: se la causa di questi attentati è politica e non religiosa perché sappiamo che tutti gli attentatori di questi attentati sono mussulmani? Saranno francesi, siriani, potrebbero essere marocchini, sauditi, belgi, tunisini, britannici, iracheni, italiani, giordani, kuwaitiani, spagnoli, libici, turchi (queste sono alcune delle nazionalità che hanno commesso attentati suicidi in Iraq e Siria) eppure siamo certi che siano tutti mussulmani. (...)"

Daniele Bellasio su Danton (Blog del Sole24Ore)
"(...) La prima ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è l’antiamericanismo, che poi assume forme di antiisraelismo, se non di antisemitismo, e ovviamente di antioccidentalismo. E’ colpa nostra perché gli americani sono brutti, sporchi e cattivi e siccome noi siamo alleati degli americani siamo anche noi un po’ brutti, sporchi e cattivi.(...)
La seconda ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un nostro merito, un nostro pregio, cioè un aspetto positivo delle culture liberal-democratiche, della civiltà occidentale, ovvero la diffusione di una sana consapevolezza sociale, mai abbastanza profonda ma pur sempre presente, che intravede nella difficoltà a risolvere alcune gravi questioni legate alle diseguaglianze economiche, e appunto sociali, una ragione di autocritica severa, la scaturigine cioè di un senso di colpa che ci fa dire, di fronte a reazioni da noi non controllate e non controllabili, che in fondo è colpa nostra. Se questa riflessione è corretta, se questa sensazione/opinione è frutto di un aspetto positivo della nostra civiltà, dobbiamo prenderne il buono – l’anelito a migliorare le nostre società – senza però dimenticare che allora, proprio e anche per questo motivo, le nostre società sono meritevoli di esistere, di continuare a proteggere i propri valori e a battersi per i propri principi. Senza cambiare la base della nostra convivenza. In poche parole, per continuare a migliorare le nostre società dobbiamo continuare a vivere. E dunque dobbiamo vincere contro chi ci vuole annientare.(...)
La terza ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un’illusione, naturale ma pur sempre un’illusione, cioè la voglia di credere che se noi facciamo qualcosa di diverso da quello che stiamo facendo loro, i terroristi jihadisti, ci lasceranno in pace. In fondo, è una naturale, ovvia, giustificata e giustificabile speranza quella di pensare: “Ci uccidono perché facciamo qualcosa, se smettiamo di fare quel qualcosa non ci uccideranno più”. Ma se è naturale questa illusoria speranza, allora bisogna rispondere con sincerità alla seguente domanda: che cosa dobbiamo smettere di fare perché ci lascino in pace? La drammatica risposta è che dovremmo smettere di essere noi stessi. Vogliamo?

venerdì 11 luglio 2014

Ancora Guerra In Medio Oriente

Difficile ragionare freddamente su quanto succede in Medio Oriente; prevale la stanchezza, e forse lo scetticismo, verso quella che sembra essere una sorta di "guerra eterna" con qualche momento di pausa. 

Ma forse in questo frangente così drammatico possiamo provare a vedere alcuni segni di speranza realistica.

L'atteggiamento dei genitori dei tre ragazzi israeliani uccisi, che hanno solidarizzato con la famiglia del ragazzo palestinese, per esempio; la netta e dura reazione del Governo israeliano contro l'orribile omicidio del ragazzo palestinese, e il coraggio di incriminare i suoi assassini come "terroristi"; le manifestazioni che si sono svolte contro le degenerazioni della violenza.

Tutto questo può voler dire per Israele iniziare un cammino, una riflessione profonda - e dura - sulla necessità di fermare a tutti i costi l'estremismo interno e sui rischi connessi al perdurare di una situazione di stallo nei rapporti con il "mai nato" stato palestinese.

E proprio questo sembra essere il punto dolente, la questione che rimane irresolubile "unilateralmente": con chi discutere? Lo stato palestinese non nascerà fino a quando le forze che vogliono governarlo (che si chiamino Hamas o Fatah, o altro nome) non saranno in grado di stabilire un'unica legge, e un monopolio della forza.

Le diverse reazioni nella galassia palestinese rispetto all'orrore del rapimento e uccisione dei tre giovani israeliani è stato il segno più grave di questa non-unità, e della incapacità (prima ancora della non-volontà) di voler contrastare nettamente qualsiasi violenza.

La possibilità di essere Stato è una condizione politica che i palestinesi devono giocarsi in un conflitto interno, per decidere chi governerà i territori, attuali e futuri. Non c'è pace senza una linea di comando certa; non c'è tregua che tenga, non c'è speranza.

Questa guerra possa essere un inizio, e non solo l'ennesima tragedia.

Francesco Maria

***

(...) Diversi sono gli equilibri geopolitici, nuove sono le minacce, e non esistono più mediatori credibili. Per questo, se la guerra terrestre alla fine ci sarà, avrà tutto l’impeto di una guerra «nuova», non di una semplice ripetizione del dramma. E fermarla sarà molto più difficile (...)​
Ai capi di Hamas, che è sempre stata un ombrello di diverse organizzazioni estremiste, restano soltanto gli aiuti finanziari dal Qatar. Si vede in queste ore che malgrado il suo isolamento ha ricevuto missili più moderni e a più lunga gittata, provenienti forse dall’Iran, ma di sicuro non attraverso la vecchia rotta siriana in fiamme da tre anni. L’Egitto è diventato nemico, Damasco lotta per sopravvivere, Hezbollah è impegnato a sostenere Assad, con i tagliagole dell’Isis si potrebbe parlare ma il loro Califfato non è ancora maturo. Davvero stupisce che Hamas abbia tentato un governo di unione con il frustrato Mahmoud Abbas e la Cisgiordania, che le divisioni interne si siano moltiplicate e che la violenza sia riesplosa, prima con il sequestro e l’uccisione dei tre studenti israeliani cui ha fatto da contraltare l’orrendo assassinio di un adolescente palestinese, poi con la ripresa dei lanci di razzi e missili contro Israele?

E poi c’è Israele, appunto. Irritato per l’atteggiamento occidentale verso l’Iran. Disorientato e anche impaurito dagli sconvolgimenti che rischiano di creare roccaforti jihadiste in Siria e in Iraq mentre anche la Giordania è vicina all’esplosione. Deciso ad escludere ogni dialogo con un governo palestinese che comprendesse Hamas (la cui leadership, è giusto ricordarlo, continua a rifiutare ogni riconoscimento dello Stato ebraico). Tentato in definitiva di dare il colpo di grazia al nemico in difficoltà, ma più insicuro di altre volte in un contesto regionale che non lo favorisce. 

Troppe debolezze perché non ci sia una guerra.



​Ma la preoccupazione del governo israeliano, secondo alcuni esperti, è quella del vuoto. Il vuoto creato in questi anni dall’instabilità nata nella regione dal disfarsi delle rivolte arabe – nel Sinai egiziano, nella Siria della guerra civile – è stato riempito e sfruttato da movimenti estremisti islamici. La Striscia di Gaza è dal 2007 controllata da Hamas e da gruppi palestinesi che hanno costruito un arsenale. “Se Israele colpisce mortalmente Hamas, chi riempirà il vuoto governativo? – ha scritto Nahum Barnea sul quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth – Gaza rischia di trasformarsi in anarchia come la Somalia o rifugio per organizzazioni terroristiche affiliate ad al Qaida. In altre parole, Hamas è male, ma non il male peggiore”. L’editorialista israeliano non è il solo a chiedersi se Netanyahu sia di fronte a un “dilemma”, come scrive il Daily Telegraph: indebolire il gruppo di Gaza perché spara razzi sulle città israeliane o evitare il vuoto di potere? C’è Abu Mazen, certo, ma non ha un potere politico abbastanza solido da riempire una pericolosa assenza di governo​
Siamo alla terza operazione, quella iniziata lunedì. Israele è determinata. Vuole infliggere un durissimo colpo al movimento islamico. Questa volta, però, Hamas, è più isolata. Il Governo di unità formato in giugno con l'Anp dopo otto anni di crisi, è finora un'entità solo sulla carta. Hamas, peraltro, non può più contare sui Fratelli musulmani, sunniti anche loro ma dichiarati fuori legge in Egitto. Da quando si è schierata con i ribelli siriani, i suoi solidi rapporti con alleati strategici come l'Iran, la Siria di Bashar al Assad e gli Hezbollah libanesi (tutte forze sciite) si sono raffreddati. Hamas ha compreso che i raid israeliani, e le inevitabili vittime civili palestinesi, serviranno a ricompattare la popolazione
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/uTcNA1
La crisi scoppiata tra Israele e Hamas in seguito al ritrovamento dei corpi di tre giovani coloni e all’uccisione di un giovane palestinese non accenna a placarsi. La spirale di violenze si è rapidamente estesa dalla Cisgiordania a Gaza, dove le forze di sicurezza israeliane hanno risposto duramente al lancio di oltre 200 razzi delle fazioni palestinesi più estremiste con l’operazione Protective Edge, che da lunedì a oggi ha causato 53 vittime e circa 500 feriti tra gli abitanti della Striscia. In questo contesto di violenza crescente, l’eterogeneo esecutivo di Netanyahu, alla ricerca di una linea, ha minacciato un intervento di terra a Gaza, mobilitando 40 mila riservisti. L’Autorità palestinese di Abu Mazen sembra sempre più debole e marginalizzata, mentre la tensione continua a salire anche in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove sta lentamente tornando lo spettro del terrorismo e di una nuova Intifada. Il riacuirsi della crisi israelo-palestinese ha però nuove e ancor più inquietanti incognite rispetto al passato, soprattutto perché si inserisce in un quadro regionale estremamente instabile. (...)

Nel campo palestinese, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale. Abu Mazen si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani. Ma la pax cisgiordana degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio di tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite.

In questa vicenda è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso. L’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione.

A compiere quel crimine sono probabilmente stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale. Una scheggia, non un referente militare della peraltro divisa leadership di Gaza.

La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. Spirale infinita, ma non uguale a se stessa. A ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso. La crisi potrà essere sedata, magari a lungo. Non risolta.

domenica 8 giugno 2014

"Impotente" Preghiera? Forse Non Solo...

Generalmente sono molto realista in  politica estera e non sono un fan di Papa Francesco, che mi pare avere aspetti non banali di antimodernità nel suo bagaglio culturale, ma va detto che in un paesaggio politico difficile come quello medioorientale, anche un momento di "impotente" preghiera forse può servire; perché magari nel frattempo ci sono i contatti informali, e qualcosa oggi si saranno detti; perché forse l'opinione pubblica di Israele e Palestina potrebbero esserne influenzati; perché in generale tutto può servire a cambiare il clima, e a "far vedere" che un dialogo è possibile. Niente illusioni, ma fra la retorica esagerata dei cronisti di oggi  ("giornata storica"...) e il cinismo esasperato che dice "non serve a nulla", forse questo è stato un passaggio non forte, ma importante. Non potente, ma comunque fatto di cui tener conto. La politica è strana, a volte. E anche la realpolitik non spiega tutto.  

lunedì 16 dicembre 2013

Tensione al confine Israele - Libano

Notizie appena arrivate (scrivo che sono le 0:28...) e che sono da prendere con la massima cautela in attesa di ulteriori dettagli.

FMM

AGI) - Gerusalemme, 15 dic. - Ci sarebbe una vittima tra i soldati israliani che in serata sono finiti nel mirino di truppe libanesi. Lo riferiscono fonti della sicurezza di Beirut citate dal quotidiano locale 'The Daily Star'. In precedenza la tv di Hezbollah, al Manar, aveva sostenuto che un soldato israeliano sarebbe stato ucciso ma mancano conferme indipendenti.(...)


An Israeli soldier was killed on Sunday evening by shots fired from Lebanese territory. The shooter was evidently a Lebanese soldier.
Israel has lodged a complaint with the Lebanese government and with the United Nations, but it does not seem as though this incident will lead to a broader confrontation between the two countries.
The soldier's family has been informed of his death.
Around 8:30 P.M. an Israeli military vehicle moving near the border with Lebanon was struck by six or seven bullets fired from a light firearm, evidently from a relatively short distance. The incident occurred just east of an Israel Defense Forces post in Rosh Hanikra. 
The IDF did not immediately respond to the incident.(...)

martedì 3 dicembre 2013

Accordo con l'Iran: Nuova Monaco o Compromesso Positivo?

Segnalo ​due articoli de ilFoglio sugli accordi di Ginevra fra 5+1 e Iran. Il paragone con gli accordi di Monaco del 1938 è richiamato troppo spesso, nella discussione pubblica, per essere un punto di confronto utilizzabile concretamente. 

Di fatto l'argomento - anche laddove sia fondato - rischia di essere una sorta di "al lupo, al lupo", che dopo reiterazioni continue diventa incapace di colpire e convincere; uno di quei richiami storici troppo distanti e differenti per essere pregnanti. 

Detto ciò, non possono essere sottovalutate le preoccupazioni che nel primo articolo vengono sottolineate. Come spesso in politica estera, le ragioni concrete, misurabili - e sagge, il più delle volte - della diplomazia non bastano - né possono bastare - ad esaurire lo scenario. 

Come già scritto, la posta in palio con la questione nucleare non è infatti "solo" la possibilità di una guerra nucleare (improbabile), ma il potere dell'Iran all'interno della scacchiera medioorientale, e più ancora la stabilità del regime fondamentalista. 

Ecco perché se da una parte è giusto non eccedere in allarmismi che rischiano di essere involontariamente retorici e quindi dannosi, sarebbe assai rischioso - non solo per israele, ma per tutto il mondo - non vedere la partita più complessiva che si gioca con questo accordo, al di là di questo accordo.

FMM

Quando Adolf Hitler si sedette nel 1938 alla Conferenza di Monaco con Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Edouard Daladier aveva dalla sua un non piccolo vantaggio: per dirla sbrigativamente, sui Sudeti aveva ragione lui. Da qui bisogna partire quando si maneggia – spesso incautamente – il parallelo tra il patto di Monaco e accordi come quello siglato a Ginevra tra i 5+1 e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi. Dentro quello schema, invece, ragionò e agì Chamberlain, che non coglieva per nulla – non da solo – il punto focale di quella trattativa, che non era affatto la ragione o no che i tedeschi dei Sudeti avevano di voler essere distaccati dalla Cecoslovacchia e essere inglobati nel Reich tedesco. Su questo punto, come si è detto, i tedeschi dei Sudeti avevano ragione, perché i cechi e gli slovacchi li trattavano come cittadini di seconda categoria e il loro irredentismo pangermanico era giustificato. Anche l’Iran oggi ha tutte le ragioni di aspirare al nucleare civile e anche a pretendere di raffinare l’uranio da solo: l’errore dei 5+1 a Ginevra è oggi, appunto, di ritenere che il punto focale della trattativa sia questo e che quindi l’ambito della discussione sia soltanto quello di imporre agli iraniani di aderire ai protocolli e alle ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), come previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare. Se così fosse, nulla quaestio, si tratta soltanto di discutere dei risultati – in questo ristretto ambito – che avrà la futura road map.(...)

Punto primo, il paragone storico con Monaco 1938 è il grido d’allarme più abusato del repertorio ma non ci aiuta a capire nemmeno un grammo in più di cosa sta succedendo davvero. Stiamo parlando di Israele, che è uno stato sovrano e anche la potenza militare più avanzata di tutto il medio oriente, e stiamo parlando di armi atomiche, di Repubblica islamica iraniana e di sanzioni internazionali che colpiscono soprattutto il mercato del greggio. Queste cose nel 1938 non esistevano e oggi si dovrebbe poterne parlare senza per forza essere costretti a passare di nuovo dai Sudeti. Se poi andiamo a vedere nello specifico, l’accordo di Monaco fu firmato dalle grandi potenze il 30 settembre e il giorno dopo le truppe naziste entrarono marciando in Cecoslovacchia provocando la fuga di almeno centomila persone – tra loro molti ebrei e oppositori politici degli hitleriani. Il pre-accordo di Ginevra è stato raggiunto domenica scorsa e l’effetto è questo: da gennaio ci saranno ottomila centrifughe in funzione in Iran invece che diciannovemila. Si vede la differenza tra i due?

Punto secondo, questo non è l’accordo con l’Iran. E’ un pre-accordo. Nulla è stato deciso. Si è trattato di un patto preliminare tra le potenze mondiali e l’Iran per rallentare il programma atomico da una parte e alleggerire di poco le sanzioni dall’altra e andare in questo modo ai negoziati reali che cominceranno fra sei mesi. Le decisioni che contano saranno prese allora. Qual era l’alternativa a questo pre-accordo di Ginevra? Erano due: non fare ancora nulla oppure fare la guerra.(...)

giovedì 21 novembre 2013

Cristiani In Medio Oriente (da VaticanInsider)

(...) Il Pontefice ha quindi rivolto il suo pensiero al Medio Oriente, «terra benedetta in cui Cristo è vissuto, morto e risorto. In essa – l’ho avvertito anche oggi dalla voce dei Patriarchi presenti – la luce della fede non si è spenta, anzi risplende vivace. Ogni cattolico ha perciò un debito di riconoscenza verso le Chiese che vivono in quella regione. Da esse possiamo, fra l’altro, imparare la fatica dell’esercizio quotidiano di spirito ecumenico e dialogo interreligioso».

 «La Siria, l’Iraq, l’Egitto, e altre aree della Terra Santa, - ha proseguito Bergoglio - talora grondano lacrime. Il Vescovo di Roma non si darà pace finché vi saranno uomini e donne, di qualsiasi religione,colpiti nella loro dignità, privati del necessario alla sopravvivenza, derubati del futuro, costretti alla condizione di profughi e rifugiati. Oggi, insieme ai Pastori delle Chiese d’Oriente, facciamo appello a che sia rispettato il diritto di tutti ad una vita dignitosa e a professare liberamente la propria fede. Non ci rassegniamo a pensare il Medio Oriente senza i cristiani, che da duemila anni vi confessano il nome di Gesù, inseriti quali cittadini a pieno titolo nella vita sociale,culturale e religiosa delle nazioni a cui appartengono».(...)

martedì 12 novembre 2013

Cina - Israele

Una notizia che non è una novità, ma la conferma di una tendenza in atto da tempo. Segnalo più sotto un artcolo del maggio scorso. La Cina ha comunque ancora difficoltà a giocare un ruolo di attore politico  a tutto tondo, soprattutto in uno scenario come quello medioorientale. Però i canali sono ufficialmente aperti. E considerando il desiderio degli Stati uniti di "emanciparsi" dal ruolo di "gendarmi del mondo" forse anche l'Europa dovrebbe fare una riflessione su come proporre al mondo una governance diversa. Prima che si passi da un gendarme a uno peggiore...

FMM

C’è una nuova potenza che potrebbe fare il suo ingresso in questo Medio Oriente dagli equilibri delicati e le alleanze mutevoli. E’ la Cina, a cui Israele già da tempo guarda con attenzione. Il New York Times, nella sezione Sinosphere interamente dedicata alla superpotenza asiatica, racconta oggi del “corteggiamento di Israele alla Cina”, possibile alleato su cui contare per far fronte ai cambiamenti geopolitici della regione. Un rapporto iniziato vent’anni fa, caratterizzato da una certa intermittenza ma che negli ultimi anni ha visto i due paesi stringere diversi accordi commerciali.
 

I cinesi sono molto incerti, e spesso si confessano impreparati a questo ruolo di mediatori che non hanno mai avuto. Ma l'occasione non permette esitazioni. Da questi colloqui, infatti, Pechino spera di ottenere almeno conoscenze e relazioni in più in un'area che è sempre più importante per i suoi interessi nazionali ma che anche un'area in rapido sgretolamento. Francesco Sisci - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/vqkVs

venerdì 8 novembre 2013

Accordo con l'Iran?

Un lancio di agenzia annunciato pochi istanti fa su la7 parlava di un imminente accordo sul nucleare fra USA e Iran (poche ore fa c'era stata la dichiarazione del Ministro degli Esteri iraniano e gli USA avevano parlato di un "primo accordo"). 

Notizie da prendere con le pinze, e anche l'eventuale accordo sarebbe da valutare con attenzione: probabilmente - se accordo sarà - sarà appunto una prima tappa (per quanto importantissima) di un percorso comunque ancora lungo. 

Non deve stupire, comunque, più di tanto, la cosa: pochissimi giorni fa si è avuto notizia di contatti fra Iran, Israele e vari stati arabi sull'argomento (e d'altro canto, al di là della tensione ufficiale, è evidente che - più o meno direttamente - Israele e Iran si stanno "tenendo in contatto" da tempo, soprattutto in una fase storica in cui il mediatore americano spesso non è stato percepito come un interlocutore adeguato)

Per fare un punto della situazione, in attesa di dettagli, segnalo l'articolo di AffarInternazionali, apparso in questi giorni.

FMM


Barack Obama e Hassan Rouhani. Per la prima volta in oltre trent’anni, sembra questa la coppia vincente in grado di battere l’ostilità di Washington e Teheran per raggiungere un accordo, quello sul nucleare iraniano, che darebbe respiro all’economia iraniana e farebbe incassare agli statunitensi un significativo successo sul piano della non-proliferazione e della stabilità regionale.



La chiave per una soluzione della disputa sta nei dettagli di un accordo che dovrebbe permettere a Obama di affermare credibilmente di avere allontanato il rischio di un Iran nucleare e agli iraniani di salvare la faccia, concedendo loro una limitata - e internazionalmente vigilata - capacità di arricchimento dell’uranio. Al centro della disputa vi è proprio quest’ultimo procedimento, necessario tanto alla produzione di energia elettrica quanto a quella di materiale per testate. (...)

sabato 19 ottobre 2013

I Rischi del Rifiuto dell'Arabia Saudita

L'Arabia Saudita rinuncia al seggio nel Consiglio di Sicurezza. La notizia è al tempo stesso interessante ed inquietante. Perché in questi anni l'ONU di fatto è stata superata su molti dossier (vedi la guerra contro l'Iraq di George Bush junior), ma in qualche modo la comunità internazionale tentava di tornare in quel luogo di discussione, per quanto debole e bistrattato. 

Insomma, una delegittimazione de facto, che però tentava sempre di salvare le apparenze, salvare il fatto che l'ONU dovesse rimanere - alla fine dei giochi, magari, ma comunque in qualche modo presente - il luogo deputato in cui discutere le cose del mondo, almeno le principali. In questo senso il rifiuto di Riyad rischia di essere un precedente pericoloso, scivoloso. Utilizzabile anche da altri stati. 

Il rischio è a due facce, pero; perché vale anche per l'Arabia Saudita che potrebbe - se non gioca bene questa carta, anche mediatica - mettersi in un angolo: acquisire visibilità per poco, ma poi non avere forza politica (che è cosa diversa dalla forza economica, che c'è, e con la quale Riyad sta giocando pesantemente per esempio sulla piazza egiziana) per far fruttare questa posizione. In ogni caso, un problema del quale il mondo - e gli Stati Uniti, il cui operato è sempre più discutibile, da questo punto di vista - deve occuparsi.

FMM

Mentre la prima positiva tornata di colloqui sul nucleare iraniano comincia a far credere all’occidente che un accordo con Teheran sia davvero possibile, Riad sbatte la porta in faccia all’Onu rinunciando al seggio appena ottenuto al Consiglio di Sicurezza in polemica con la politica internazionale sulla Siria a suo dire fallimentare. 

Il regno saudita non ha mai fatto mistero di aver mal digerito l’intesa tra Mosca e Washinton sulla distruzione delle armi chimiche di Assad, convinto che si tratti di un escamotage russo per regalare tempo al regime contro cui si battono i ribelli armati in gran parte proprio da Riad. Il nuovo corso inaugurato dal neoeletto presidente Rohani poi, ha moltiplicato i motivi di apprensione allineando sempre più la posizione di re Abdullah a quella israeliana, una comunanza d’interessi e strategie che si estende dall’Egitto (entrambi i paesi guardano con favore al golpe militare che ha deposto Morsi), a Gaza (dove Hamas non è benvisto da nessuno dei due), fino ovviamente all’Iran, di cui l’Arabia Saudita teme le mire espansionistiche nella regione almeno quanto Israele contrasta le ambizioni nucleari. 

Adesso, a sorpresa, il gran rifiuto.(...)

giovedì 3 ottobre 2013

Iran, ucciso il capo della cyberwar

WASHINGTON - Due colpi al cuore. Il cadavere abbandonato in un’area boscosa a Karay, a nord ovest di Teheran. Una vittima eccellente: Mojtaba Ahmadi, capo del dipartimento di cyberwar in Iran. La notizia apparsa sul sito Alborz, vicino ai pasdaran, è stata rilanciata dal quotidiano Daily Telegraph. Ahmadi era uscito sabato scorso per recarsi al lavoro, ma in ufficio non c’è mai arrivato. Probabilmente è stato intercettato dai killer e poi eliminato, quindi il suo corpo è stato abbandonato nelle campagne di Karay.

UCCISO COME GLI SCIENZIATI - Per la polizia i responsabili dell’omicidio sarebbero due persone a bordo di una moto. I guardiani della rivoluzione hanno messo in guardia sul lanciarsi in speculazioni su una eventuale pista “politica”, però non sarebbe una sorpresa se l’omicidio fosse opera di oppositori del regime o di un servizio segreto avversario. Prima di Ahmadi, a partire dal 2007, sono stati uccisi 5 scienziati legati ai programmi militari iraniani, in particolare quelli dei settori nucleare e missilistico. Azioni attribuite al Mossad. Il modus operandi, con i sicari in moto, ricorda quello usato negli attacchi precedenti, anche se in quelle occasioni furono usate delle bombe magnetiche.

http://www.corriere.it/esteri/13_ottobre_03/iran-ucciso-capo-cyberwar-ipotesi-oppositori-o-servizi-stranieri-9cfa8c1c-2bb4-11e3-93f8-300eb3d838ac.shtml

mercoledì 2 ottobre 2013

Da Cinque Quattordici: La Possibile Frammentazione del Medio Oriente (da laStampa.it)

Quale sarà dunque la natura del Medioriente quando il vento della primavera araba si sarà calmato? La giornalista Robin Wright, autrice del volume “Rock the Casbah: Rage and Rebellion Across the Islamic World” e analista del United States Institute of Peace and the Wilson Center, abbozza sul New York Times una mappa ipotetica in cui, al termine del terremoto in corso, da cinque paesi (Siria, Libia, Yemen, Iraq, Arabia Saudita) ne verrebbero fuori quattordici. Senza calcolare la possibilità di città Stato tipo Misurata. Ecco grossomodo le sue linee guida.

lunedì 9 settembre 2013

Il Cannone Santo e La Nascita Di Israele (Claudio Magris sul Corriere della Sera)

(...) Ricordiamo dunque, a chi prende sottogamba la legge e deride chi esige il suo rispetto, una storia che segna, anche simbolicamente, la nascita dello Stato di Israele. Nel giugno del 1948 una nave, l’Altalena, parte da Port de Bouc con 900 volontari e molte armi e munizioni destinate a Israele! divenuta Stato poche settimane prima. E un momento drammatico per Israele, che è in guerra e ha molto bisogno di uomini e di armi, perché è in gioco la sua sopravvivenza. Arrivato alla meta, il capitano della nave esige che un’ingente quantità di armi e munizioni sia consegnata ai reparti dell’Irgun — l’organizzazione militare estremista ebraica, cui apparteneva con funzioni eminenti Begin — anche se formalmente sciolti e incorporati nello Tzahal, le nuove Forze armate di difesa di Israele. Ben Gurion, a capo del governo, non prende nemmeno in considerazione la pretesa, perché, replica, è il governo a decidere l’uso delle armi e ordina alla nave di consegnarle. Al rifiuto del capitano ovvero all’illegalità e alla ribellione che vogliono essere riconosciute come interlocutori — come ad esempio tanti anni dopo le Brigate rosse o, in forme non eclàtanti, bensì subacquee, talora la mafia — il governo israeliano, dopo inutili avvertimenti, risponde bombardando la nave carica di armi di cui esso ha tanto bisogno e mitragliando l’equipaggio, i marinai venuti a combattere per Israele contro gli arabi. Ben Gurion, alla Knesset — il Parlamento israeliano — parla del «cannone santo» che ha stroncato la rivolta, impedendo così che il nuovo Stato nasca bacato dal compromesso col marciume dell’illegalità. Come scrive lo storico israeliano Eli Barnavi, «Altalena in qualche modo è per Israele il biglietto d’ingresso fra gli Stati». (...)
 

mercoledì 7 agosto 2013

Allarme Terrorismo (due articoli di Guido Olimpio sul Corriere)

In occasione di ogni allarme terrorismo si moltiplicano le rivelazioni su nuovi tipi di bombe che i terroristi di Al Qaeda potrebbero usare. Alcune sembrano elaborazioni fantasiose, altre sono più credibili. Difficile distinguere le prime dalle seconde.(...) ESPLOSIVO LIQUIDO - Ora si parla di altre novità. La prima è un esplosivo liquido che, dopo essere stato sciolto nell’acqua, è assorbito dagli abiti dell’attentatore. Poi è lasciato seccare e a quel punto il kamikaze indossa l’abito-bomba. (...)  FASCIA DETONANTE - E’ possibile che un «campione», se non l’ordigno stesso, sia stato consegnato agli americani da un kamikaze che in realtà era un agente dei sauditi. Reclutato da Al Qaeda nella penisola arabica avrebbe dovuto compiere un attacco e invece è scappato portando in dote una «fascia» detonante di nuova concezione. Un’elaborazione delle famose mutande bomba impiegate da uno studente nigeriano al servizio dei qaedisti. Il secondo modello è quello che prevede una delicata operazione chirurgica per impiantare nel corpo del terrorista una piccola carica. Esperti di sicurezza hanno paventato il rischio ed hanno citato proprio i tentativi di Al Asiri. Fino ad oggi, però, non sono emersi dati concreti.


Gli Usa hanno disposto la partenza immediata del personale diplomatico dell'ambasciata dello Yemen. E Londra li segue, decidendo di evacuare anche la loro ambasciata yemenita e di diramare il più alto livello di allarme possibile a tutte le navi che transitano a largo delle coste del Paese arabo. Misure legate al crescente pericolo di attacchi da parte dei qaedisti. La rappresentanza è una di quelle chiuse dal Dipartimento di Stato americano, oltre una ventina in tutto il mondo islamico. Washington temeva un attentato per il 4 Agosto ma è evidente che il rischio non è per nulla passato. Nel frattempo l'amministrazione Obama ha autorizzato una serie di attacchi con droni in Yemen negli ultimi 10 giorni nel tentativo di distruggere il complotto terroristico. Lo riporta il Washington Post citando alcune fonti, secondo le quali quattro attacchi con droni sono avvenuti in rapida successione e sono legati «all'emergenza dell'intelligence che ha indicato come i leader del Al Qaida» abbiamo chiesto al gruppo affiliato in Yemen di attaccare obiettivi occidentali. La catena di eventi che ha innescato l’allarme terrorismo è più complessa di quella fino ad oggi raccontata. Sui media Usa sono trapelate molte versioni, dove ogni agenzia di sicurezza ha cercato di prendersi una parte del merito. Dalla contestata Nsa alla Cia. Proviamo a mettere insieme i tasselli. (...)

lunedì 19 novembre 2012

Guerra Inutile, Senza Un Nuovo Ordine


Per l'ennesima volta ci troviamo angosciati a seguire gli scenari di guerra del Medio Oriente. Per l'ennesima volta Hamas - con calcolato "azzardo" - decide di sparare razzi su Israele, tentando di colpire anche le città più importanti; per l'ennesima volta Israele reagisce come sa fare, e come ritiene giusto fare; come è giusto che faccia, da molti punti di vista.
Ma la sensazione è inevitabilmente del solito muro contro muro; della "trappola", del cunicolo di angoscia e terrore nel quale anche le giuste ragioni di Gerusalemme rischiano di infangarsi e di diventare non-ragioni, e torti. 

Perché fare una guerra male, anche se giusta - lo avete già letto spesso su questo blog - può essere peggio che non farla.
Può essere, scrivo; perché spero che le capacità tecniche, e la lucidità politica di una parte dell'establishment di Israele (più l'esercito che il governo, dal mio punto di vista) sia capace di calcolare e pazientare fino all'estremo, affinché non sia necessario passare ad atti più duri.

Ancora non è chiaro mentre scrivo (sera del 19 novembre 2012, è notizia di pochi minuti fa la telefonata di Obama a Morsi e Netanyahu) quale sarà la prossima mossa di Israele, né quelle di Hamas. L'ipotesi di tregua è importante, e sarebbe da sfruttare, ma i preparativi di Israele sembrano a uno stadio troppo avanzato per non pensare che comunque sia difficilissimo un passo indietro. Ma speriamo in novità positive.

Parlo soprattutto di Israele, non perché pensi - come altri fanno - che sia di Gerusalemme la colpa di quanto avviene; parlo soprattutto di Israele perché stato democratico, e con il quale altri stati democratici possono definire relazioni aperte, esplicite e forti, nel consenso e nel dissenso; non parlo di Hamas, perché il livello con cui si può contrattare con Hamas non appartiene - per il momento - al classico schema delle relazioni internazionali, ma si gioca quasi (quasi!) solo sui rapporti di forza; può essere giocato sul versante delle trattative separate, dei contatti informali; può - e deve, se possibile - essere giocato all'ombra. Nel patteggiamento continuo, snervante e a tratti immorale, ma inevitabile, che comunque c'è sempre, anche con il peggior nemico.

Ma non se ne esce, e non se ne uscirà, finché l'intero scacchiere medioorientale non sarà costretto a un cambiamento di posizione, che è cosa diversa - si badi - dal "semplice" cambiamento delle leadership a cui abbiamo assistito con la cosidetta primavera araba.