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domenica 22 novembre 2015

Combattere Ma Non Perdersi

Nota: il blog non è più aggiornato con continuità; riporto di seguito una riflessione condivisa con alcuni amici via mail riguardante i terribili attentati di Parigi del 13 novembre e scritta tre giorni dopo
FMM

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Non devi giudicar le cose nel modo secondo il quale le giudica un uomo violento e malvagio o nel modo che costui vorrebbe che tu le giudicassi. Tu devi guardar le cose come sono, secondo verità.
(Marco Aurelio Antonino, Ricordi, Libro Quarto, 11)
 
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Di seguito alcuni articoli e spunti di riflessione apparsi in questi giorni (Romano Prodi, Alberto Negri, Mario Monti, Enrico Letta, David Bidussa e altri). Nel richiamarli, aggiungo solo alcune mie brevi considerazioni:
 
1. Senza nulla togliere alla necessaria solidarietà atlantica ed europea, attenzione a non dimenticare pesi e responsabilità della stessa Francia nella gestione di alcune partite molto delicate. Si leggano le considerazioni di Massimo Nava, che ricorda alcuni errori di Parigi, in particolare dal punto di vista della politica estera (vd. Libia). Se dobbiamo muoverci uniti - e dobbiamo - è necessario che anche la Francia cambi atteggiamento nei confronti di tutti i suoi alleati;
 
2. Enrico Letta - che in questi giorni è stato una delle voci più nitide che si sono ascoltate - raccomanda l'integrazione della sicurezza a livello europeo. Su questo dobbiamo essere decisi e al tempo stesso molto attenti: abbiamo visto che i passaggi di sovranità sono lunghi e perigliosi; il passaggio all'euro è stato percepito - a torto (secondo me) o a ragione - come generatore di due gruppi di paesi, uno più forte economicamente, l'altro più in difficoltà. Questo tipo di percezione non può assolutamente verificarsi sul discorso sicurezza, per cui i passi devono essere fatti con molta attenzione, e condivisione piena. Sarebbe letale se ci accorgessimo che la condivisione delle procedure di sicurezza può diventare fattore di "vantaggio" di uno Stato rispetto ad un altro. Si possono condividere anche le informazioni più riservate? Forse, ma allora deve esserci attenzione massima in questi passaggi, e assoluta reciprocità;
 
3. Mario Monti in un bell'articolo segnala le debolezze di un'Europa che ha difficoltà a ragionare sulle necessità legate alle esigenze di sicurezza e scrive: "Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale." Oggi - guardando alle periferie di Parigi, ma anche alle nostre; guardando alla migrazione di masse sempre più ingenti, vien da pensare a un ruolo insostituibile della scuola (pubblica e privata, ma coordinata assieme) nel creare le condizioni di integrazione. Per questo è necessaria una riflessione non improvvisata sui programmi che le scuole pubbliche e private devono seguire; ed è forse il caso di tentare di rilanciare l'educazione civica, anche intesa come "educazione alla laicità", che dovrebbe prevedere momenti di scambio fra scuole, in modo che nessun allievo della Repubblica italiana - e dei futuri Stati Uniti d'Europa - rischi di rimanere legato a un solo tipo di formazione. Ed è altresì necessario pensare al modo di rendere il "panorama sociale" più integrato, il che vuol dire che nella nostra idea di società non può assolutamente mancare un welfare sostenibile e flessibile (quindi capace di esserci quando necessario, ma anche "retrattile" per evitare gli sprechi);
 
4. Giusto non cadere nella tentazione dello "scontro di civiltà", ma attenzione a non "annacquare" il fattore religioso e culturale, comunque decisivo in questo conflitto: su questo mi sembrano particolarmente importanti i contributi di Claudio Magris (ottimo) e Giovanni Fontana (con quest'ultimo sono meno pienamente in linea, ma la sua mi sembra riflessione importante da condividere).
 
Francesco Maria Mariotti
 
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L'intervento di Romano Prodi a Che tempo che fa del 15 novembre (intorno al minuto 15 fino al minuto 34)
 
 
​Alberto Negri sul Sole24ore
 

"(...) Serve una coalizione globale, un’alleanza di civiltà, da quella occidentale a quella musulmana, per combattere l’Isis. Siamo chiamati a costituire una coalizione militare e di intelligence questa volta davvero efficace non come quella che dal 2014 a oggi ha colto risultati incerti e invece di rinsaldarsi si è quasi sfaldata lasciando spazio all’intervento in Siria della Russia di Putin, senza il quale peraltro oggi al-Baghdadi farebbe colazione sulle rovine di Damasco. Gli aerei sauditi e degli Emirati non volano più e i loro raid adesso li compiono in Yemen contro i ribelli sciiti Houti; la Turchia, storico membro della Nato, fa ancora assai poco perché gli stessi occidentali le hanno dato via libera per quattro anni, alzando la sbarra della frontiera al passaggio di migliaia di jihadisti, molti europei e francesi, che dovevano sbalzare dal potere Assad e che si sono poi arruolati nell’Isis.
La guerra la devono fare anche i nostri riluttanti alleati mediorientali.
Musulmani che si battono sul campo contro l’Isis ce ne sono: i curdi, i più eroici, osteggiati però dalla Turchia; gli iraniani, alleati di Assad come del resto gli Hezbollah libanesi; gli iracheni, che hanno avviato un’offensiva per spezzare le linee di rifornimento dell’Isis. Questi nostri alleati oggettivi anti-Califfato, che l’Occidente ha boicottato per anni mettendoli sotto sanzioni e in lista nera, hanno due difetti, sono sciiti e alleati del regime di Damasco.
Siamo al punto nodale: per una guerra efficace contro l’Isis bisogna congelare anche la storica ostilità tra sciiti e sunniti. Qualche segnale positivo c’è e proviene dal vertice di Vienna sulla Siria, che per certi versi ha anticipato quello di oggi al G-20 di Antalya.(...)"

"(...) Alla vigilia delle elezioni, dopo l’attentato di Ankara con oltre 100 morti, il braccio destro di Tayyp Erdogan, Ahmet Davutoglu, definì il Califfato «ingrato e traditore». Più che una gaffe, questi termini sono apparsi un’ammissione di colpa. Non mancano infatti le prove, se non di amicizia, almeno di compiacenza, della Turchia nei confronti dello Stato islamico. articoli correlati O si fa l’Europa o si muore Russi e americani contro il nemico ormai globale Coordinare intelligence europea e azioni militari Vedi tutti » OAS_RICH('VideoBox_180x150'); Erdogan è uno dei prìncipi dell’ambiguità mediorientale presenti al G-20 di Antalya. La guerra al Califfato è una vicenda in cui la Turchia ha giocato un ruolo essenziale con la complicità delle potenze occidentali e di quelle sunnite che in Siria hanno condotto un conflitto per procura all’Iran sciita. La svolta sono stati i negoziati sul nucleare con Teheran che hanno alimentato ancora di più la preoccupazione delle monarchie del Golfo per l'influenza iraniana. Più si avvicinava un’intesa con l’Iran e maggiori diventavano le offensive dell’Isil. Dopo Mosul, cadevano Ramadi e Falluja. Eppure la guerra della coalizione a guida americana restava inefficace: il 70% dei raid non trovava neppure il bersaglio. Ci si chiedeva come fosse possibile che non si riuscisse a fermare i jihadisti. La realtà è che il Califfato faceva comodo come mezzo di pressione per convincere gli iraniani ad arrivare a un accordo. (...)"
di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/J0GbYV

Mario Monti su ilFoglio
"(...) Beni pubblici e benessere privato. Se l’Unione Europea entra in una fase storica carica di sfide nuove rispetto ai suoi primi settant’anni – sfide legate ai profughi e ai migranti, alla guerra asimmetrica in corso, alla sicurezza interna ed esterna, alla necessità di spendersi seriamente per lo sviluppo sostenibile dell’Africa e del Medio Oriente, anche ad evitare che si scarichino sull’Europa flussi e tensioni insostenibili – ci sono due “confini” che devono essere riconsiderati quello tra beni pubblici e benessere privato e quello tra beni pubblici nazionali e beni pubblici europei.
Soprattutto in alcuni Paesi periferici, come l’Italia, si sta vivendo ora una tardiva onda lunga dell’era reaganiana. Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale. Anziché battersi a fondo perché il funzionamento dello Stato sia più efficiente, più trasparente, meno costoso, ma tuttavia dotato di risorse adeguate per svolgere i suoi compiti essenziali, sembra prevalere una certa rassegnazione. Si mira allora a sostenere il benessere privato, dando priorità alla riduzione delle tasse (“vanno ridotte tutte”, “non verranno mai più aumentate”, “alcune tasse saranno abolite” e “per sempre”) quasi come dovere morale dello Stato verso i cittadini e le imprese. Il loro consenso è assicurato, ma forse così facendo si trascurano interessi essenziali dei singoli Paesi, in un’Europa che deve “armarsi” della capacità di essere sicura, di sconfiggere il terrorismo, di farsi rispettare nel mondo. Inoltre i singoli Paesi, e l’Europa, faranno bene a tornare ad avere una certa attenzione per le disuguaglianze, cresciute a dismisura; e dovranno usare anche i sistemi fiscali per combattere le disuguaglianze eccessive, ancor più se vogliono conservare o accrescere una certa coesione sociale e nazionale dinanzi a un futuro forse caratterizzato da maggiori conflittualità esterne. (...)"
 
Enrico Letta su laStampa
 
"(...) Sicurezza integrata

I Paesi europei hanno difeso le loro prerogative nazionali in materia di intelligence, di sicurezza e di difesa. Non hanno voluto rafforzare la dimensione europea in questo campo. E non possiamo certo dire di sentirci più sicuri grazie a questa nazionalizzazione dei sistemi di sicurezza. Come pensare di essere davvero più sicuri senza una reale integrazione dei sistemi di sicurezza preventiva, e come pensare di vincere questa guerra senza una capacità complessiva coordinata a livello europeo di contrastare i fenomeni terroristici? Oggi questa capacità non c’è. I sistemi sono rimasti troppo nazionali, mentre i terroristi usano tutti i più moderni e integrati meccanismi per attaccarci.
Fare finalmente un passo avanti nella capacità congiunta di reazione dei Paesi europei sarà l’altro passo fondamentale per vincere questa sfida così drammatica. (...)"
 
Massimo Nava su Facebook
 
"(...) La realtá della guerra all'Isis é molto diversa da quanto farebbero pensare i buoni propositi e gli ambiziosi obiettivi.
1) Chi oggi combatte davvero sul campo l'Isis sono Paesi e forze che l'Europa e l'Occidente non considera come alleati o che ha considerato e considera ancora come nemici : la Russia di Putin, senza il quale il Califfato sarebbe giá a Damasco; gli hezebollah (che hanno subito un feroce attentato a Beiruth); l'Iran che puntella il regime di Damasco e i kurdi, massacrati dai turchi e di tanto in tanto sacrificati da tutti.
2) Gli Stati Uniti hanno sempre pensato che lo scontro fra potenze regionali favorisse l'equilibrio della paura. Hanno favorito la guerra Irak Iran negli anni Ottanta e oggi assistono allo scontro e alle guerre per procura fra Iran e Arabia Saudita, cioé fra il mondo sciita e il mondo sunnita.
3) Turchia (Membro Nato!) Arabia Saudita (sostenuta e armata dagli Usa), monarchie del golfo (con le quali tutti facciamo affari) hanno permesso l'espansione del Califfato, hanno agevolato il passaggio dei volontari combattenti dall'Europa, hanno pensato che potesse essere il grimaldello per scardinare il sistema siriano. Aperto il vaso di Pandora, nulla é piú controllabile. L'Isis controlla un grande territorio dove vivono milioni di persone. Ha armi sofisticate e addestratori, ha arruolato pezzi dell'esercito iracheno smantellato dagli americani, si finanzia con il petrolio, la droga e il contrabbando di opere d'arte (molti pezzi naturalmente finiscono sulle piazze occidentali!)
4) La Francia piange i suoi morti e tutti piangiamo per la Francia, ma Parigi dovrebbe hanno avviare una profonda riflessione sugli errori di politica estera e di politica socio-culturale. La battaglia della civiltà e dei valori repubblicani é nobile, ma l'ipocrisia è dietro l'angolo se non si ripensano amici e nemici, clienti di centrali nucleari e armamenti, finanziatori e investitori sul territorio francese. La battaglia della civiltá e dei valori repubblicani é nobile, ma deve essere condotta anche nelle periferie, nel mondo a parte dell'integraziona mancata o sbagliata che é diventata il terreno di proselitismo e di manovra anche dei terroristi. 
L'islamismo radicale é dentro la Francia."


Mario Giro* su Limes
"(...) Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmanistanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento.
Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.
In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.(...)"

David Bidussa su GliStatiGenerali
​"(...) Terzo aspetto. Come si sconfigge il nemico? Anche in questo caso è importante la forma in cui inquadrarlo. Perché sapere come lo si sconfigge è conseguente a inquadrare la natura di Isis, ovvero descrivere che cosa sia in quanto espressione, cultura e pratica politica. Ritenere che ciò che abbiamo di fronte sia un attacco terroristico implica intraprendere un percorso di contrasto che fa della controinformazione, dell’uso spregiudicato dell’intelligence, l’arma essenziale. Tutti i movimenti terroristici in età contemporanea sono stati sconfitti in seguito a un processo di rottura al loro interno, in altre parole “per defezione”. A un certo punto si è prodotta una falla e in forza di una capacità di contrasto e di intelligence qualcuno ha attraversato quella terra di nessuno in cui si era ritirato e “ha parlato”.
È pensabile che accada anche con ISIS? Vorrei pensarlo, ma non credo. ISIS ha la fisionomia del movimento politico, ideologico che si fa esercito, movimento fondato sulla convinzione. Movimento costituito da “soldati politici”.
Una sola esperienza nel corso del Novecento ha avuto questo percorso. L’esperienza politica, culturale, ideologica e mentale rappresentata dal nazismo. Il nazismo non è stato sconfitto da nessuna defezione. I suoi sopravvissuti, non hanno mai intrapreso una strada di pentimento, non hanno mai “abbandonato il campo”. Hanno attraversato il lungo dopoguerra senza mai aprire i conti con il loro passato, semplicemente perché ritenevano di avere ragione, ma di avere avuto il solo torto di essere sconfitti.(...)"

Claudio Magris sul Corriere della Sera
"(...) A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.
È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. (...)"

Giovanni Fontana su DistantiSaluti
"Tutti quelli che, in queste ore, stanno dicendo la sciocchezza che ciò che motiva gli attentati di Parigi è la politica e non la religione provi a rispondere a una semplice domanda: perché, in questa fase d’incertezza, siamo certi che tutti gli attentatori siano mussulmani? Attenzione: non sto dicendo che non esiste un terrorismo non mussulmano, non sono scemo, la storia ne è piena. Sto domandando: se la causa di questi attentati è politica e non religiosa perché sappiamo che tutti gli attentatori di questi attentati sono mussulmani? Saranno francesi, siriani, potrebbero essere marocchini, sauditi, belgi, tunisini, britannici, iracheni, italiani, giordani, kuwaitiani, spagnoli, libici, turchi (queste sono alcune delle nazionalità che hanno commesso attentati suicidi in Iraq e Siria) eppure siamo certi che siano tutti mussulmani. (...)"

Daniele Bellasio su Danton (Blog del Sole24Ore)
"(...) La prima ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è l’antiamericanismo, che poi assume forme di antiisraelismo, se non di antisemitismo, e ovviamente di antioccidentalismo. E’ colpa nostra perché gli americani sono brutti, sporchi e cattivi e siccome noi siamo alleati degli americani siamo anche noi un po’ brutti, sporchi e cattivi.(...)
La seconda ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un nostro merito, un nostro pregio, cioè un aspetto positivo delle culture liberal-democratiche, della civiltà occidentale, ovvero la diffusione di una sana consapevolezza sociale, mai abbastanza profonda ma pur sempre presente, che intravede nella difficoltà a risolvere alcune gravi questioni legate alle diseguaglianze economiche, e appunto sociali, una ragione di autocritica severa, la scaturigine cioè di un senso di colpa che ci fa dire, di fronte a reazioni da noi non controllate e non controllabili, che in fondo è colpa nostra. Se questa riflessione è corretta, se questa sensazione/opinione è frutto di un aspetto positivo della nostra civiltà, dobbiamo prenderne il buono – l’anelito a migliorare le nostre società – senza però dimenticare che allora, proprio e anche per questo motivo, le nostre società sono meritevoli di esistere, di continuare a proteggere i propri valori e a battersi per i propri principi. Senza cambiare la base della nostra convivenza. In poche parole, per continuare a migliorare le nostre società dobbiamo continuare a vivere. E dunque dobbiamo vincere contro chi ci vuole annientare.(...)
La terza ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un’illusione, naturale ma pur sempre un’illusione, cioè la voglia di credere che se noi facciamo qualcosa di diverso da quello che stiamo facendo loro, i terroristi jihadisti, ci lasceranno in pace. In fondo, è una naturale, ovvia, giustificata e giustificabile speranza quella di pensare: “Ci uccidono perché facciamo qualcosa, se smettiamo di fare quel qualcosa non ci uccideranno più”. Ma se è naturale questa illusoria speranza, allora bisogna rispondere con sincerità alla seguente domanda: che cosa dobbiamo smettere di fare perché ci lascino in pace? La drammatica risposta è che dovremmo smettere di essere noi stessi. Vogliamo?

venerdì 9 maggio 2014

Nella Woodstock del jihad c'è pure chi rimpiange un re (da ilFoglio)

"Il ritorno della famiglia reale dei Senussi è la soluzione per garantire che la sicurezza e la stabilità siano restaurate in Libia". Lo ha detto il ministro degli Esteri libico Mohammed Abdelaziz a conclusione del summit dei capi della diplomazia della Lega Araba riuniti in Kuwait lo scorso marzo. Sebbene l'idea di un ritorno alla monarchia non sia una novità assoluta dopo il rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi, è stata la prima volta che un membro del governo abbia sollevato l'ipotesi; dal 2012 il “Movimento per il ritorno della monarchia dei Senussi” in Libia ha raccolto sempre più consensi: è un gruppo composto da nostalgici, perlopiù stanziati all’estero, che ha aperto anche una pagina Facebook con oltre 11 mila apprezzamenti. “Abdelaziz ha dato voce finalmente a un sentimento largamente condiviso da molti libici”, hanno fatto sapere alcuni membri del movimento. La nostalgia dei Senussi, che rimasero al potere dall’indipendenza del 1951 fino al colpo di stato di Gheddafi nel 1969, nasconde l'incapacità dei tanti governi che si sono insediati dal 2011 ad oggi. Ora la Libia è un “melting pot” di milizie che rifiutano di riconoscere le autorità di Tripoli e di confluire in un esercito nazionale. Ognuna di esse è il braccio armato di una vasta costellazione di gruppi tribali, un tempo tenuti insieme solo dalle teorie nazionaliste ed egualitariste di Gheddafi. Non solo.(...)
 

martedì 19 novembre 2013

Libia - Jihadisti Fra Gli Immigrati?

(ASCA) – Bruxelles, 18 nov – “Tra i disperati non escludo che ci siano anche persone appartenenti a gruppi jihadisti”. Lo afferma il ministro degli Esteri, Emma Bonino, in conferenza stampa a Bruxelles al termine del consiglio Affari esteri. “Non parlo di minaccia terroristica, ma di minaccia alla sicurezza”, precisa. La minaccia arriva dalla Libia, paese “con elevato grado di fragilita’ e senza controllo del territorio”(...)



(ASCA) – Bruxelles, 18 nov – I servizi segreti e di sicurezza italiani “ci hanno sempre messo in guardia” sui rischi che rappresenta la Libia per il nostro paese. Lo afferma il ministro della Difesa, Mario Mauro, in conferenza stampa a Bruxelles. La situazione, spiega, non e’ delle migliori. “La Libia e’ un paese con cinque milioni di persone e 30 brigate armate l’una contro l’altra, alcune anche impegnate nei traffici”. Quella libica, riconosce, “e’ una realta’ frammentata in cui si infiltrano gruppi di diverse tendenze, ma ne abbiamo parlato con i servizi che ci hanno sempre messo in guardia”. Il problema, ammette Mauro, “e’ di complessita’ estrema”(...)


venerdì 14 settembre 2012

Armi, soldi dal Golfo e «consulenti» dall'estero: i camaleonti della Jihad (Guido Olimpio, sul Corriere della Sera)


Si camuffano. Solo pochi ostentano l'appartenenza a correnti salafite. Non dichiarano di essere jihadisti, preferiscono invece il più generico «rivoluzionari». Formazioni come Ansar Al Sharia fanno da ombrello a nuclei più sfuggenti (le Brigate Abdul Rahman) con intrecci che possono portare lontano o vicino. Ci sono quelli che hanno contatti con la rete qaedista internazionale ed altri - come è avvenuto in Iraq dopo la sconfitta di Saddam - che sono dei lealisti pentiti. Tra questi ex membri dei Comitati rivoluzionari. È su questa nebulosa che si concentra l'attenzione delle forze di sicurezza come degli 007. Infatti, ieri notte a Bengasi, sono scoppiati scontri tra la Brigata Folgore (governativa) e i militanti di Ansar dopo che quest'ultimi si sono rifiutati di consegnare il loro arsenale, un'importante risorsa per fare cassa.
Gli estremisti possono contare su diverse fonti di finanziamento. La prima è il traffico di armi. Il capoluogo della Cirenaica ha un mercato (nero) fiorente di fucili, granate, lanciarazzi rubati negli arsenali di Gheddafi. La polizia non è mai riuscita a stroncarlo. Anzi c'è chi dice che il governo abbia lasciato fare nella speranza di esaurire le scorte. Resta il fatto che le armi libiche sono state trovate - solo per citare alcuni Paesi - in Nigeria, Siria, Tunisia, Mali e Sinai. Quelli che hanno attaccato il consolato Usa non hanno usato le doppiette bensì camioncini con mitragliere antiaeree. E ne hanno a volontà, da vendere a chi ha il contante pronto. Disponibilità che si porta dietro un'altra conseguenza: i baratti di materiale bellico facilitano la collaborazione tra estremisti che agiscono sull'intero quadrante regionale.(...)