(...) A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire? (...)
"Una simile pace dovrebbe permettere a tutti gli uomini di navigare senza impedimenti oceani e mari." (Carta Atlantica, 14 agosto 1941)
Pagine
- HOME PAGE
- DISCLAIMER
- Chi Sono
- The King's Speech of September 3, 1939
- Carta Atlantica, 14 agosto 1941
- IO GIURO (Youtube)
- Haka dei soldati neozelandesi in memoria dei commilitoni morti
- LIBIA
- BCE
- EUROPA
- ISRAELE
- IRAN
- SIRIA
- DONNE (Diritti, Eguaglianza, Differenza)
- FONDAMENTALISMO ISLAMICO
- Nassiriya 10 Anni Dopo
- POESIE
Visualizzazione post con etichetta Iraq. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Iraq. Mostra tutti i post
mercoledì 25 giugno 2014
mercoledì 18 giugno 2014
Che fare In Iraq?
New York. Che fare? La più rivoluzionaria delle domande rimbalza nei corridoi dell’Amministrazione Obama a proposito della lacerante situazione in Iraq, figlia legittima di anni di traccheggiamenti nell’adiacente ginepraio siriano. Di fronte alle crisi internazionali di questi anni, la Casa Bianca ha insistito fino allo sfinimento sull’efficacia dello “smart power” e la varietà degli strumenti a disposizione del governo – dai droni alla diplomazia fino agli aiuti economici e al sostegno militare alle popolazioni ribelli – secondo l’idea obamiana che “non tutti i problemi hanno una soluzione militare”, ma l’avanzata repentina dei terroristi dell’Isis in Iraq restringe il ventaglio delle opzioni americane a tre alternative, nessuna delle quali è particolarmente desiderabile per Washington. La prima opzione è un intervento militare diretto; la seconda è una scivolosa alleanza di natura tattica con l’Iran nel nome del comune nemico sunnita; la terza è non fare nulla, un classico della politica estera obamiana.(...)
(...) Le colpe degli Usa Senza alcun dubbio gli Stati Uniti e i loro alleati hanno le loro colpe. La scellerata gestione del sistema iracheno nei mesi seguiti alla sconfitta di Saddam Hussein ha avuto un peso determinante nel fallimento del progetto di “nuovo Iraq” sorto in ambito neo-con. La terra dei due fiumi sarebbe dovuta divenire un faro di speranza, democrazia e stabilità nel cuore di una regione che – nonostante i molti alleati di Washington – era ottenebrata da autoritarismi, sperequazioni e violazioni quotidiane dei diritti umani più basilari. Essa sarebbe dovuta essere esempio e monito al tempo stesso, oltre che un alleato eccezionale dal punto di vista economico, politico e di sicurezza. Nel giro di pochi mesi, però, questo scenario è collassato sotto il peso di scelte errate, destinate a segnare l’Iraq per anni a venire: scioglimento delle forze armate, processo di de-baathificazione, passaggio immediato a un’economia di mercato e articolazione degli interessi della popolazione irachena su basi etno-settarie su tutte. Tali misure furono associate alla Coalition provisional authority di Paul Bremer III, ma gli errori americani furono più legati alla scarsa conoscenza degli equilibri locali e alla inadeguatezza dei preparativi per il “post-Saddam” che alle responsabilità – seppur importanti – di una singola persona o istituzione. Eppure, al momento del loro ritiro nel dicembre 2011 (una scelta frutto più dell’intransigenza della dirigenza irachena che dell’effettiva volontà di disengagement americana) gli Stati Uniti erano riusciti con gran dispendio di risorse ed energie a lasciare un Iraq, se non completamente pacificato, quantomeno non minacciato da un’insurrezione su ampia scala, con i resti dello milizie qaediste in fuga od operanti nell’ombra a Mosul e dintorni.
La responsabilità di al-Maliki Nel giro di pochi mesi, però, nonostante le rassicurazioni fornite a Washington, Nuri al-Maliki – il premier sciita alla guida del Paese dal 2006 – impresse una svolta significativa alla propria linea politica, dando il via ad una lotta senza esclusione di colpi contro le forze di opposizione, soprattutto quelle in quota arabo-sunnita. A farne le spese fu, nel dicembre del 2011, l’ex vice-presidente iracheno Tariq al-Hashimi, accusato di essere il mandante di una serie di attentati terroristici e condannato in contumacia, in seguito alla sua fuga in Kurdistan e da lì in Turchia e Arabia Saudita. Esattamente un anno più tardi, a cadere nella tela del primo ministro fu Rafi al-Issawi, allora ministro delle Finanze, che – a differenza di al-Hashimi – non sembrava altrettanto coinvolto nel bagno di sangue che aveva travolto il Paese tra il 2005 e il 2008. L’arresto di al-Issawi rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso. (...)
domenica 15 giugno 2014
In Iraq ora l’esercito attacca l’ISIS (da ilPost.it)
Tra sabato 14 e domenica 15 giugno l’esercito iracheno ha attaccato i miliziani dell’ISIS, un gruppo di estremisti islamici, ed è riuscito a riconquistare diverse città vicino a Baghdad e nel nord del paese. Un portavoce del governo ha dichiarato che negli scontri di sabato sarebbero stati uccisi 279 miliziani islamici, una cifra che però non può essere confermata. Si tratta di un capovolgimento di fronte piuttosto improvviso, visto che soltanto pochi giorni fa in molti temevano che la stessa Baghdad dovesse prepararsi ad affrontare un assedio da parte dei miliziani dell’ISIS.
Negli ultimi giorni, infatti, la situazione in Iraq è peggiorata molto rapidamente. L’ISIS, che opera sia in Iraq che in Siria, ha lanciato all’inizio di giugno un’offensiva che in pochi giorni ha portato alla caduta di numerose città, tra cui Mosul, la seconda città dell’Iraq che si trova nel nord del paese, e Tikrit, la città natale dell’ex dittatore Saddam Hussein, vicino a Baghdad. L’esercito iracheno non è riuscito a opporsi a questa rapida avanzata. A Mosul circa 30 mila soldati iracheni sono fuggiti o si sono arresi davanti a 800 miliziani dell’ISIS e a una rivolta degli abitanti sunniti della città.
In realtà sembra che le conquiste compiute dall’ISIS negli ultimi giorni siano frutto di una serie di circostanze particolari (ne abbiamo parlato qui). L’ISIS è un gruppo sunnita, come la minoranza che abita in particolare la parte settentrionale del paese. I sunniti iracheni negli ultimi anni sono diventati particolarmente ostili al governo del primo ministro Nuri al-Maliki, che ha portato avanti una serie di politiche a favore della maggioranza sciita (a Mosul, ad esempio, mentre gran parte dei soldati era sunnita, i comandanti erano tutti sciiti). L’ISIS è riuscita a sfruttare questa divisione e ha ottenuto notevoli successi militari nelle zone a maggioranza sunnita. Probabilmente però non riuscirà a minacciare seriamente la capitale Baghdad, dove è molto più forte la presenza degli sciiti.(...)
sabato 14 giugno 2014
Obama Non S'Arruola (da ilFoglio.it)
Ieri il presidente americano, Barack Obama, ha parlato dal prato della Casa Bianca con un elicottero militare alle spalle per dire una cosa poco significativa e una molto significativa: ha detto che la decisione sui (probabili) bombardamenti in Iraq contro lo Stato islamico che avanza verso Baghdad saranno decisi nei prossimi giorni e che non saranno in alcun caso inviate truppe – e questo non aggiunge nulla di nuovo – e ha anche detto che per intervenire vuole vedere cambiamenti da parte della leadership irachena, quindi soprattutto dal primo ministro Nouri al Maliki. “Il problema in Iraq dev’essere risolto dagli iracheni”. Obama accusa il governo sciita di Baghdad di essere troppo settario e duro con la minoranza sunnita, che così finisce per vedere nell’arrivo dello Stato islamico una liberazione (a Mosul i corrispondenti locali raccontano che la gente non teme il gruppo erede dei combattenti del comandante giordano Abu Mussab al Zarqawi, e teme la risposta del governo con gli aerei e l’artiglieria). E’ una novità rispetto all’aiuto quasi incondizionato garantito finora al governo di Maliki.(...)
La situazione in Iraq
Tra giovedì 12 e venerdì 13 giugno la situazione in Iraq è peggiorata ulteriormente, con una nuova avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) – gruppo estremista sunnita che opera sia in Iraq che in Siria – in direzione della capitale Baghdad. L’ISIS ha preso il controllo di due città nella provincia di Diyala, poco più a est di Baghdad, e ha compiuto diverse esecuzioni pubbliche a Mosul, capoluogo della provincia di Ninawa, città conquistata negli ultimi giorni.
All’improvvisa e violenta offensiva dell’ISIS si è aggiunta una reazione intensa dei soldati curdi “Peshmerga”, che rispondono al governo regionale del Kurdistan iracheno, una regione che da tempo vuole separarsi dal resto dell’Iraq: i curdi hanno conquistato la città di Kirkuk – capoluogo della provincia di Kirkuk, a circa 250 chilometri a nord di Baghdad – sfruttando la debolezza del governo iracheno causata dall’offensiva dell’ISIS. E infine all’ISIS e ai curdi si sono aggiunti anche gli sciiti, il gruppo minoritario dell’islam (ma maggioritario in Iraq) a cui appartiene anche il primo ministro iracheno Nuri al-Maliki. Venerdì, di fronte alle difficoltà dell’esercito iracheno a confrontarsi con le recenti minacce, migliaia di combattenti sciiti si sono diretti verso Samarra, città a circa 110 chilometri a nord di Baghdad finita sotto il controllo dell’ISIS nella notte tra giovedì e venerdì. (...)
"(...) Non manderemo truppe in Iraq" ma offriremo ulteriore aiuto. Lo afferma il presidente americano, Barack Obama. "Le forze di sicurezza irachene - ha continuato - purtroppo hanno dimostrato di non essere capaci di difendere alcune città. E il popolo iracheno è ora in pericolo". Obama ha aggiunto: "Fondamentalmente il futuro dell'Iraq dipende dagli iracheni. Proseguiremo con un'intensa azione diplomatica nella regione". Il presidente Usa ha detto che la linea di politica estera degli Stati Uniti resta quella di combinare "azioni militari mirate" se necessario con "lo sforzo insieme alla comunità internazionale" per risolvere le crisi insieme e ricorrendo alla diplomazia.
mercoledì 26 marzo 2014
La Guerra Senza La Guerra
A proposito di guerra che cambia veste; o che - meglio - appare "impossibile", come appare "impossibile" la politica nel mondo contemporaneo; due articoli per riflettere: uno sulla tensione finanziaria che segna questo dramatico passaggio con la Russia, e che sembra essere la principale leva di pressione su Mosca. Il secondo per riflettere sull'"arma" delle sanzioni (valide? non sempre; se sì, non da sole...)
Buona lettura
Francesco Maria
***
Ora che la fuga di capitali è iniziata, la Russia teme il peggio. In questo caso, lo scenario più avverso è rappresentato da un totale isolamento finanziario da parte degli investitori internazionali. La paura di un incremento nelle sanzioni dopo l’annessione della Crimea, finora il punto più alto della crisi ucraina, è significativa. Dopo il congelamento di fondi, dopo lo stop alle transazioni per i correntisti di date banche, potrebbe arrivare lo stop ai contratti in essere e chissà cos’altro. L’obiettivo è quello di indebolire Mosca. (...)
L’escalation della crisi ucraina potrebbe avere il suo impatto maggiore su un altro versante, quello del rating sovrano. Ieri è stata Fitch a porre l’attenzione su questo punto, dopo gli avvisi di Standard & Poor’s e Moody’s. Il rischio di un prolungato periodo di tensioni fra Occidente e Russia, infatti, potrebbe infatti avere conseguenze sui rating russi, che sia quello governativo o che sia quello delle imprese. Se così fosse, per la Russia e per le sue società private, comprese le banche, sarebbe assai più oneroso scendere sui mercati obbligazionari. Non è un caso che ieri il ministero russo delle Finanze abbia cancellato l’asta di titoli di Stato settimanale. «Le condizioni di mercato non sono favorevoli», ha spiegato in un comunicato stampa. Per questa settimana è stato deciso così, ma il tempo è tiranno. Ed è improbabile che tutte le aste da qui alla fine dell’anno vengano cancellate. Prima o poi la Russia dovrà affrontare il mercato obbligazionario. In quel caso, gli investitori potrebbero chiedere rendimenti sensibilmente maggiori o, peggio, disertare l’evento. Uno scenario che Mosca vuole evitare a tutti i costi ma che, se non ci fosse un appianamento delle tensioni, rischia di diventare realtà entro poche settimane.
(...) Dalla fine della Guerra fredda le sanzioni mirate, a differenza di quelle indiscriminate, si sono sviluppate come strumenti sempre meno “punitivi” e sempre più di “pressione” per convincere leadership e governi avversari a cambiare una determinata politica. Il loro obiettivo è diventato principalmente minacciare e dare una specie di avvertimento agli avversari: per esempio indebolendo il loro potere economico – come la capacità di fare investimenti – o incrinando le loro alleanze con i più stretti collaboratori. In genere chi ha applicato le sanzioni mirate negli ultimi anni lo ha fatto in maniera progressiva, cioè adottando diversi round sanzionatori di intensità sempre maggiore, mantenendo aperta la possibilità di trovare una soluzione alla crisi con la diplomazia.
Questo è quello che è successo per esempio con le sanzioni applicate dagli Stati Uniti a esponenti del mondo politico ed economico della Russia tra il 17 marzo – giorno in cui Putin ha firmato un decreto per riconoscere la Crimea “stato indipendente e sovrano” – e il 21 marzo - giorno della firma del trattato di annessione della Crimea alla Russia. Con il primo giro di sanzioni, considerato piuttosto blando, il governo americano sperava probabilmente di spingere Putin a fare un passo indietro in Crimea e a rinunciare all’annessione; o in alternativa aveva capito che Putin non avrebbe rinunciato ma non aveva altri strumenti per rispondere (l’intervento armato per la Crimea è sempre stato fuori discussione dall’inizio). Nei giorni successivi il segretario di stato americano, John Kerry, ha continuato a sentire a cadenza giornaliera il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, minacciando di intensificare le sanzioni se non ci fosse stato un cambio di atteggiamento da parte della Russia. Di fronte al rifiuto russo di accordarsi ai termini degli Stati Uniti, Obama ha approvato un secondo giro di sanzioni – questa volta molto più duro e potenzialmente più efficace – che ha colpito la “cerchia ristretta” degli alleati di Putin, ma senza colpire direttamente Putin o Lavrov.
In pratica gli americani hanno dimostrato che le loro minacce devono essere prese sul serio, ma di nuovo non hanno chiuso la porta alla diplomazia: ora, per esempio, stanno usando la minaccia di estendere le sanzioni ad alcuni settori dell’economia russa nel caso in cui Putin ordinasse un’azione militare in Ucraina. Come è successo anche in passato, è troppo presto per dire se le sanzioni americane ed europee contro la Russia funzioneranno o meno: i precedenti ci dicono però che in entrambi i casi sarà una faccenda tutt’altro che lineare e di facile lettura, in cui incideranno svariati fattori, diversi tra loro e a volte imprevedibili, oltre alle sanzioni stesse.
venerdì 27 dicembre 2013
L’arte della guerra nell’era dei contractor (da RivistaStudio)
«Difficile è il passo sul filo tagliente di un rasoio: così i saggi dicono che è ardua la via della salvezza». È un brano della Katha Upanishad, una delle più antiche scritture hindu, detta anche “La Morte come Maestra”. È citato in apertura del romanzo di Somerset Maugham Il filo del rasoio.
Sei sempre sul filo del rasoio parlando o scrivendo di coloro che agiscono nell’underworld o nel mondo del Grande Gioco globale. Poco a poco non distingui vero, falso, verosimile. Alla fine scopri che tutto può esserlo al tempo stesso. Dipende dal mondo in cui ti ritrovi, dalla storia che leggi o vivi.
In questo caso il primo passo sul filo si compie con un libro da poco uscito:Civilian Warriors: The Inside Story of Blackwater and the Unsung Heroes of the War on Terror. È la storia della Blackwater, società di PMC, private military contracting, il più potente esercito mercenario. È stato scritto da Erik Prince, l’uomo che nel 1997 ha fondato la società con un capitale di sei milioni di dollari e l’ha rivenduta nel 2010 dopo aver guadagnato circa due miliardi. È la “My Way” di Prince, che si era incamminato sul filo del rasoio militando nei Navy SEAL e quindi aveva deciso di investire il suo patrimonio «per servire Dio, la famiglia e gli Stati Uniti». Creando «lo strumento definitivo nella guerra al terrore».(...)
sabato 23 novembre 2013
La frattura che si allarga nell’Islam (laStampa.it)
(...) La realtà è ben diversa, non solo perché – dal Marocco alle Filippine – vediamo una grande varietà di modi di essere musulmani (a seconda della storia di ciascun popolo, delle particolarità culturali, delle appartenenze etniche) ma anche perché esistono, oltre alle differenze, vere e proprie fratture, di cui la più importante è la contrapposizione sunniti-sciiti.
E’ una contrapposizione che ricorda, nella sua radicalità e ricorrente carica di violenza, quella che è esistita per secoli fra il ramo cattolico e quello protestante della cristianità. Lo scontro fra queste due diverse interpretazioni del messaggio cristiano aveva in origine radici dottrinali, teologiche, anche se ben presto si intrecciò con dimensioni politiche, dinastiche, territoriali. Nel caso dell’Islam, una religione della «ortoprassi» piuttosto che della «ortodossia», la spaccatura fu fin dall’inizio determinata non da divergenze teologiche, ma da una questione di potere: quella della successione a Maometto, che gli sciiti volevano per discendenza familiare e i sunniti secondo i tradizionali meccanismi tribali di selezione dei capi. (...)
giovedì 21 novembre 2013
Cristiani In Medio Oriente (da VaticanInsider)
(...) Il Pontefice ha quindi rivolto il suo pensiero al Medio Oriente, «terra benedetta in cui Cristo è vissuto, morto e risorto. In essa – l’ho avvertito anche oggi dalla voce dei Patriarchi presenti – la luce della fede non si è spenta, anzi risplende vivace. Ogni cattolico ha perciò un debito di riconoscenza verso le Chiese che vivono in quella regione. Da esse possiamo, fra l’altro, imparare la fatica dell’esercizio quotidiano di spirito ecumenico e dialogo interreligioso».
«La Siria, l’Iraq, l’Egitto, e altre aree della Terra Santa, - ha proseguito Bergoglio - talora grondano lacrime. Il Vescovo di Roma non si darà pace finché vi saranno uomini e donne, di qualsiasi religione,colpiti nella loro dignità, privati del necessario alla sopravvivenza, derubati del futuro, costretti alla condizione di profughi e rifugiati. Oggi, insieme ai Pastori delle Chiese d’Oriente, facciamo appello a che sia rispettato il diritto di tutti ad una vita dignitosa e a professare liberamente la propria fede. Non ci rassegniamo a pensare il Medio Oriente senza i cristiani, che da duemila anni vi confessano il nome di Gesù, inseriti quali cittadini a pieno titolo nella vita sociale,culturale e religiosa delle nazioni a cui appartengono».(...)
lunedì 11 novembre 2013
Nassiriya 10 Anni Dopo
Alcuni link per ricordare la strage di Nassiriya, del 12 novembre 2003.
Dieci anni da una strage che ci fece comprendere la durezza di quella guerra e della guerra in genere, e che toccò in maniera indelebile tutti gli italiani, unendo la nazione indipendentemente dal consenso all'intervento militare in Iraq.
FMM
(...) L'attentato provoca 28 morti, 19 italiani e 9 iracheni. Gli italiani sono:
- i carabinieri
- Massimiliano Bruno, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
- Giovanni Cavallaro, sottotenente
- Giuseppe Coletta, brigadiere
- Andrea Filippa, appuntato
- Enzo Fregosi, maresciallo luogotenente
- Daniele Ghione, maresciallo capo
- Horacio Majorana, appuntato
- Ivan Ghitti, brigadiere
- Domenico Intravaia, vice brigadiere
- Filippo Merlino, sottotenente
- Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
- Alfonso Trincone, Maresciallo aiutante
- i militari dell'esercito
- Massimo Ficuciello, capitano
- Silvio Olla, maresciallo capo
- Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore
- Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo scelto
- Pietro Petrucci, caporal maggiore
- i civili
- Marco Beci, cooperatore internazionale
- Stefano Rolla, regista (...)
Il Ministero della Difesa, in occasione del 10° anniversario della strage di Nassiriya avvenuta il 12 novembre 2003, celebra la “Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace”.
Nell’ambito delle commemorazioni, sarà consegnata ai familiari delle vittime della strage di Nassiriya -nella quale persero la vita 19 persone: 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito, un regista e un responsabile della cooperazione del Ministero degli Affari Esteri - la “Medaglia della Riconoscenza”(...)
Nell’ambito delle commemorazioni, sarà consegnata ai familiari delle vittime della strage di Nassiriya -nella quale persero la vita 19 persone: 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito, un regista e un responsabile della cooperazione del Ministero degli Affari Esteri - la “Medaglia della Riconoscenza”(...)
Il ministero della Difesa ricorderà martedì il decimo anniversario della strage di Nassiriya del 12 novembre 2003, con la "Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace". (...) in particolare, sarà consegnata ai familiari delle vittime della strage - nella quale persero la vita 19 persone: 12 carabinieri, 5 militari dell'Esercito e 2 giornalisti - la "Medaglia della Riconoscenza".
(...) Il 16 ottobre 2003, il Consiglio di Sicurezza approvava all'unanimità la risoluzione (1511 sull'Iraq del 16 ottobre 2003) che gettava le basi per una partecipazione internazionale e delle Nazioni Unite alla ricostruzione politica ed economica dell'Iraq e al mantenimento della sicurezza.
Tale risoluzione, adottata ai sensi del capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, si concentrava su tre aree principali: la leadership irachena e il passaggio dei poteri dall'Autorità Provvisoria della Coalizione al popolo iracheno; il mantenimento di condizioni di sicurezza a opera di una forza multinazionale sotto comando unificato; la partecipazione internazionale e delle Nazioni Unite al finanziamento dei progetti di ricostruzione e di ripresa.
Essa contemplava tra l'altro che "il conseguimento della sicurezza e della stabilità è fondamentale per riuscire a portare a termine con successo il processo politico" e per far si che le Nazioni Unite lavorassero nel Paese, la risoluzione autorizzava una "forza multinazionale sotto comando unificato a prendere tutti i provvedimenti necessari per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità in Iraq".
La risoluzione disponeva, altresì, che l'Autorità Provvisoria della Coalizione "restituisca, prima possibile, le responsabilità e l'autorità di Governo alla popolazione dell'Iraq" e chiedeva all'Autorità, al Consiglio di Governo iracheno e al Segretario Generale delle Nazioni Unite di tenere informato il Consiglio di Sicurezza sui progressi compiuti.(...)
mercoledì 2 ottobre 2013
Da Cinque Quattordici: La Possibile Frammentazione del Medio Oriente (da laStampa.it)
Quale sarà dunque la natura del Medioriente quando il vento della primavera araba si sarà calmato? La giornalista Robin Wright, autrice del volume “Rock the Casbah: Rage and Rebellion Across the Islamic World” e analista del United States Institute of Peace and the Wilson Center, abbozza sul New York Times una mappa ipotetica in cui, al termine del terremoto in corso, da cinque paesi (Siria, Libia, Yemen, Iraq, Arabia Saudita) ne verrebbero fuori quattordici. Senza calcolare la possibilità di città Stato tipo Misurata. Ecco grossomodo le sue linee guida.
lunedì 19 agosto 2013
Dieci anni fa la strage alla sede Onu di Bagdad. E torna il«testamento» di Jean-Sélim Kanaan (da Corriere.it)
«Una potente esplosione, da un camion bomba condotto da un terrorista kamikaze, si è verificata martedì presso il quartier generale dell'Onu a Bagdad, nei locali del Canal Hotel. Secondo fonti Onu vi sono almeno 20 morti e un centinaio di feriti. Tra le vittime dell'attentato c'è anche Sergio Vieira de Mello, rappresentante speciale per l'Iraq del segretario generale dell'Onu Kofi Annan. Tra i morti vi sono anche operatori stranieri». Così, il pomeriggio del 19 agosto 2003, Corriere.it dava - in base alle prime, confuse ricostruzioni - la notizia della più grande tragedia della storia delle Nazioni Unite. I morti furono 23, e tra le vittime «straniere» c'era un ragazzo di 33 anni nato e cresciuto a Roma. Il nome esotico, Jean-Sélim Kanaan, riassumeva una ricchezza di identità dai tratti romanzeschi come la vita breve che ne è scaturita: padre egiziano cristiano copto, funzionario Onu; madre francese di fede protestante; infanzia tra il francese colto del liceo Chateaubriand e il romanesco puro delle strade della Capitale. Un pezzo di adolescenza a Pechino al seguito del padre, che in Cina muore, come si dice in questi casi, prematuramente, freddo avverbio che non rende il vuoto che lascia in un ragazzo la perdita della figura che gli segna la vita.
UNA STORIA SIMBOLO - Perché, a 10 anni dalla carneficina irachena, è giusto ricordare la storia di Jean-Sélim? Perché poche storie come la sua simboleggiano le guerre dell'ultimo ventennio e le contraddizioni dell'«ingerenza umanitaria», formula vaga con cui il mondo civile modula di volta in volta la sua capacità di vincere l'indifferenza. Ecco, «La mia guerra all'indifferenza» era il titolo che Jean-Sélim Kanaan aveva scelto un anno prima di morire per il libro in cui aveva raccontato la sua esperienza di giovanissimo volontario nelle ong prima e di brillante funzionario dopo. Un libro magnifico nella sua autenticità che ora il Saggiatore ripropone con una doppia prefazione: quella di Adriano Sofri, che dieci anni fa ebbe il merito di far sapere all'Italia chi fosse Jean-Sélim, e quella di Laura Dolci-Kanaan, la moglie italiana incontrata in Bosnia. Pagine di dolore asciutto, scritte per il compagno e il figlio nato poche settimane prima del camion bomba, che insieme a quelle del protagonista andrebbero lette nelle scuole - e per fortuna capita già spesso.
mercoledì 7 novembre 2012
"Non è stato un incidente" - Tammy Duckworth (Linkiesta)
«Non è stato un incidente, non c’è stata nessuna casualità, un incidente è quando due macchine si scontrano per errore: io invece sono stata abbattuta, tirata giù, sono stata colpita da un razzo. Ho solo pensato che non potevo permettere a un ribelle iracheno, che aveva avuto il suo giorno fortunato, di decidere anche del resto della mia vita. Si era già preso le mie gambe non poteva prendersi anche la possibilità che io tornassi a camminare, volare o ridere. Quel potere non potevo lasciarlo a lui, lo volevo io, e così un giorno alla volta ho riconquistato la mia esistenza. C’erano mattine che non volevo alzarmi dal letto, in cui avevo paura, in cui stavo molto male, ma ho sempre trovato qualcuno che mi diceva – Tammy, muovi il culo, è ora di alzarsi».
La democratica Tammy Duckworth stavolta ce l'ha fatta. Sconfitta nel 2006 da un avvocato repubblicano che la definì “poco patriottica”, la quarantaquattrenne veterana di guerra che ha perso entrambe le gambe nel 2004 pilotando un elicottero Black Hawk di ritorno da Baghdad, ha vinto in Illinois contro il repubblicano Joe Walsh (che invece l'ha accusata di non essere un vero eroe di guerra perché gli eroi non fanno vanto della loro condizione).
È la prima donna veterana di guerra a entrare al Congresso. Quattro anni fa, a poche settimane dalla storica elezione di Obama, la Duckworth era stata immortalata in una foto del “New York Times”, in un dolente abbraccio col Presidente in occasione delle celebrazioni del Veteran day. Oggi però è un giorno di festa, che si aggiunge a una data particolare e ravvicinata: il suo Life Day, che dal 2008 cade il 12 novembre, «faccio un party perché sono ancora viva. Il destino di un pilota di elicotteri che viene colpito è morire bruciato». La storia del tenente colonnello Tammy Duckworth, nata in Thailandia nel 1968 da una ragazza di origine cinese e un marine americano, è stata raccontata da Mario Calabresi nel suo libro “La fortuna non esiste” (Mondadori 2009).
martedì 16 ottobre 2012
Dalla crisi siriana potrebbe nascere un Medio Oriente tutto nuovo (Carlo Jean su l'Occidentale)
La posizione della Turchia è particolarmente interessante. Ci coinvolge direttamente, dato che Ankara fa parte della NATO ed esercita un’influenza crescente in Africa Settentrionale e in Medio Oriente e che la sua politica estera dei “zero problems with the neighbours” va riformulata, si spera in senso favorevole all’Occidente. Essa non ha retto di fronte alla realtà. Oggi, la Turchia conosce tensioni, oltre che con Cipro, anche con Israele, Siria, Iran e Iraq. La sua presenza militare nel Kurdistan iracheno, il sostegno alla rivolta siriana e la violenta reazione all’arrivo sul suo territorio di alcuni colpi di mortaio sparati dalla Siria stanno accrescendo le tensioni con tutti. La politica finora seguita di tenersi fuori dalla mischia, per svolgere il ruolo del mediatore imparziale – tanto vantaggioso per i suoi interessi commerciali – non tiene più. Le scelte che deve fare Erdogan sono difficili. I dilemmi che lo confrontano non riguardano solo la politica estera, ma anche quella interna turca. Per la prima, teme che una vittoria della rivolta in Siria comporti l’autonomia delle province curde del Nord-Est del paese, già basi della guerriglia anti-turca del PKK, oggi particolarmente attiva dal Kurdistan iracheno.
Per contro, una vittoria di Assad porrebbe un Iran trionfante ai suoi confini meridionali, facendo fallire ogni progetto neo-ottomano. Sotto il profilo interno, un intervento diretto in Siria susciterebbe l’opposizione non solo dei kemalisti, preoccupati della crescente islamizzazione dell’AKP, ma anche degli Alevi (oltre il 10% dei turchi), setta sciita “cugina” degli Alawiti siriani, ma di cui Erdogan ha bisogno per avere la maggioranza necessaria per modificare la costituzione in senso presidenziale. La sua cautela è infine motivata dalla riluttanza degli USA e dell’Europa a impegnarsi in Siria. Inoltre, non è ben chiaro il motivo per il quale Assad non eviti di sfidare la Turchia. Taluni pensano che gli attacchi provengano dagli insorti, non dalle forze lealiste. I primi sanno che un intervento militare turco farebbe superare la situazione di stallo e determinerebbe il loro successo.
lunedì 25 giugno 2012
La Siria non è la Libia (dal Sole24Ore)
Quanto alle mosse della politica estera della Turchia e allo slogan "zero problemi con i vicini" coniato dal suo ineffabile ministro degli Esteri Davutoglu si stanno rivelando pericolosamente illusori. In realtà Ankara ha visto sgretolare proprio questo pilastro con cui intendeva tornare da protagonista in Medio Oriente. Ha rotto con Israele per l'incidente della Mavi Marmara, i rapporti con Grecia e Cipro sono sempre tesi, si sta scontrando con l'Iraq per la questione curda, ha rapporti complicati con l'Iran e la Siria è stata l'ultima delusione del primo ministro Erdogan che sognava di condizionare il suo ex amico Bashar Assad al quale aveva passato persino i codici di identificazione dei caccia dopo l'attacco israeliano del settembre 2007 al reattore siriano di Deir Ez Zor. di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/nyZrj
mercoledì 28 dicembre 2011
Lo Stretto di Hormuz
Ai tempi dello shah, prima della caduta dei Pahlavi nel 1979, l'Iran era il gendarme del Golfo e la fedele sentinella dell'Occidente nello Stretto di Hormuz, un braccio di mare largo 30 chilometri: nel 1973 Teheran, per evitare sorprese agli approvvigionamenti mondiali di petrolio, mandò persino un agguerrito corpo di spedizione in Oman per stroncare una ribellione di ispirazione maoista. Da 32 anni la repubblica islamica vuole essere riconosciuta come la potenza egemone del Golfo e insieme ai programmi nucleari può agitare lo spauracchio della chiusura dello Stretto: (...)
(...)Un parlamentare della commissione per la Sicurezza nazionale, Zohreh Elahian, lunedì aveva detto anche lui che “Le manovre della marina nel Golfo persico e nel mare dell’Oman dimostrano la potenza e la supremazia dell’Iran sulle acque della regione” e “i media occidentali ammettono che siamo in grado di chiudere lo Stretto di Hormuz, se fossimo costretti”. La minaccia era arrivata esplicitamente già a luglio da parte del comandante delle Guardie rivoluzionarie dell’Iran, Mohammad Ali Jafari, e ancora prima a febbraio da Ali Fadavi, capo delle forze navali delle Guardie rivoluzionarie (il grosso della marina è finito da tempo sotto il controllo dei pasdaran, il resto ha compiti residuali, da Guardia costiera).
La maggior parte del greggio esportato da Arabia Saudita, Iran, Emirati arabi uniti, Kuwait e Iraq – assieme a tutto il gas naturale del Qatar – passa attraverso il tratto largo meno di otto chilometri davanti alle coste iraniane. Gli Emirati, per aggirare il rischio di un blocco, hanno appena terminato la costruzione di un oleodotto che può saltare lo strettoia marina con un milione e mezzo di barili al giorno, la metà della sua produzione.
L’Iran teme l’arrivo nel 2012 di un nuovo round di sanzioni internazionali contro le sue esportazioni di petrolio, per colpa del programma atomico che le Nazioni Unite hanno definito “anche militare” e che il paese non ha intenzione di fermare. Per ora il progressivo accumularsi di misure internazionali ha colpito l’economia iraniana con durezza, ma le risorse naturali – gas e greggio – hanno evitato che fossero “crippling”, storpianti, come chiede il governo israeliano, e hanno protetto il regime. Il viceministro per il Petrolio, Ahmad Qalebani, ha anzi appena annunciato 17 nuovi contratti con partner anche stranieri prima della fine dell’anno iraniano (il 21 marzo 2012) per sfruttare nuovi giacimenti. Ma se le sanzioni investissero l’esportazione di greggio la pressione potrebbe essere insostenibile. (...)
Iscriviti a:
Post (Atom)