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domenica 21 luglio 2019

Libia: battaglia finale?

Dal profilo Facebook di Guido Olimpio

"(AGI) - Tripoli, 20 lug. - Le forze del maresciallo Khalifa Haftar hanno dichiarato «l'ora zero» della propria offensiva volta alla conquista della capitale libica, Tripoli. Come riferisce Arab News, lo scrive lo stesso Esercito nazionale libico (Lna) sulla propria pagina Facebook, nella quale si lancia un appello ai giovani «unirsi alle nostre forze». Sull'altro fronte, già ieri il Governo di accordo nazionale libico di Fayez al Serraj aveva annunciato di aver raccolto informazioni che dimostrerebbero che Francia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti si preparano a potenziare le forze fedeli ad Haftar. Alcune informazioni pervenute all'esecutivo di Tripoli - l'unico riconosciuto dalla comunità internazionale - indicano che il nuovo attacco sarà effettuato con aeromobili e armi di alta qualità. Non solo: stando alle stesse fonti, l'offensiva sarebbe imminente."


sabato 15 giugno 2019

Le strategie parallele intorno al Golfo dell'Oman

"(...)  “Primo, stanno succedendo certi eventi in maniera continua, succedono a poca distanza di tempo gli uni dagli altri, e sono tutte situazioni di conflitto asimmetrico. C’è questo elemento di ambiguità strategica, che è effettivamente tipico delle Guardie rivoluzionarie (le forze armate teocratiche iraniane note anche come IRGC, ndr) che va sotto il nome tecnico di Plausible deniability, che però non possiamo considerarlo appannaggio esclusivo delle IRGC”, spiega l’analista della Gulf State Analytics (che si occupa di fare consulenza strategica per grandi aziende che vogliono muoversi nel Golfo) e Phd Candidate all’Università di Exeter.

E poi? “La seconda cosa che possiamo dire con certezza è che chi sta compiendo questi atti va identificato tra coloro che a tutti i costi vogliono un’escalation della situazione. E di questo genere di posizioni ce ne sono da entrambe le parti del Golfo. Dobbiamo considerare che questo genere di operazioni potrebbe essere anche condotto in modo parallelo all’autorità centrale, perché parliamo di paesi, come l’Iran stesso, dove vivono diversi attori che hanno agende quasi indipendenti, gli hardliner per esempio sono in netto contrasto con i riformisti. Una struttura interna dicotomica che ritroviamo anche in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi”, che sono i due Paesi nemici della Repubblica islamica iraniana nel Golfo Persico.

“Sia ad Abu Dhabi che a Riad – continua Bianco – ci sono diversi elementi che vedrebbero crescere la propria influenza in caso di scontro, ma tanti altri che vorrebbero utilizzare il clima di pressione/tensione soltanto per costringere gli iraniani a sedersi a un tavolo negoziale da una posizione di debolezza. Cosa che Teheran non vuole assolutamente, come è chiaro”.

Un altro aspetto che l’analista italiana sottolinea riguarda una previsione fatta da diversi esperti di Iran: “In tanti prevedevano che si sarebbe rafforzata la parte dei falchi dopo il ritiro americano dal Jcpoa (l’accordo sul nucleare stretto nel 2015, ndr) e che sarebbe stato possibile che coloro che pensavano che la diplomazia non fosse la strada giusta per Teheran avrebbero spinto verso lo scontro”. E sembra quello che sta succedendo. Ma a Riad e ad Abu Dhabi qual è l’interpretazione della situazione? “Dall’altra parte del Golfo sia emiratini che sauditi pensano che in Iran il punto di vista predominante sia che l’escalation non conviene, perché provocare gli Stati Uniti, una grande potenza globale, non viene vista come un’opzione possibile per Teheran, e per questo credono che prima o poi gli iraniani si siederanno di nuovo, indeboliti, al tavolo dei negoziati”.(...)"

https://formiche.net/2019/06/golfo-iran-arabia-saudita-azioni-asimmetriche/

venerdì 14 giugno 2019

Attacco al largo dell'Oman: cosa succede nel Golfo? (ISPIOnLine)

"(...) Il ruolo del Giappone
Nelle ore in cui è avvenuto l’attacco era in corso la visita di Stato a Teheran del premier giapponese Shinzo Abe, la prima da parte di un primo ministro del Giappone dalla rivoluzione iraniana del 1979. Non si trattava però della prima volta di Abe a Teheran: suo padre Shintaro Abe compì una missione analoga nel 1983 nelle vesti di ministro degli Esteri, cercando di mediare tra Iran e Iraq nella guerra che per otto anni ha opposto i due paesi, e il giovane Shinzo, allora segretario del padre, viaggiò al suo seguito.

Il Giappone, del resto, è uno dei paesi che più importa(va) petrolio da Teheran, tanto da essere stato tra gli otto paesi che lo scorso anno avevano ricevuto le esenzioni per poter continuare ad acquistare greggio iraniano. Da questo maggio, però, per volontà dell’amministrazione Trump, anche Tokyo ha dovuto cessare le importazioni da Teheran e aumentare così i rifornimenti da altri paesi della regione, in particolar modo da Arabia Saudita e Emirati. Se Abe è intervenuto a mediare è proprio perché il Giappone ha un interesse fondamentale nella sicurezza e nella stabilità della regione mediorientale, e perché gode di buoni rapporti tanto con Washington (Abe è uno dei leader che più ha saputo dialogare con Trump) quanto con Teheran. Significativo poi che questo tentativo di mediazione sia portato avanti da una potenza occidentale, alleata degli USA, ma che non ha preso parte al negoziato sul nucleare iraniano che ha portato alla firma del JCPOA. L’Unione Europea, del resto, ha visto fallire tutti i tentativi fatti finora a questo scopo, e sembra concentrata oltre che sull’imminente passaggio di consegne presso il Servizio di azione esterna, sul tentativo di rendere operativo INSTEX, lo strumento per il commercio con Teheran, che però potrebbe non essere sufficiente a stabilizzare una situazione che nell’ultimo mese è precipitata. La missione di Abe di queste ore sembra dunque essere stata quella di mediare un accordo di “congelamento” della situazione. Trump dovrebbe quindi permettere all’Iran di riprendere in parte le proprie esportazioni di petrolio, e in cambio l’Iran non riprenderebbe le proprie attività nucleari, come ha invece minacciato di fare a partire da luglio. Solamente una volta contenuta l’emergenza si potrà cercare una mediazione più ampia su altri aspetti del contenzioso tra Washington e Teheran.

Quali scenari?
Se non è possibile stabilire con certezza le responsabilità dell’accaduto, altrettanto difficile è tratteggiare degli scenari certi. Molto dipenderà da come la crisi evolverà nelle prossime ore, ovvero se le parti in causa cercheranno di abbassare la tensione, oppure se al contrario si alzeranno i toni e si formalizzeranno accuse ufficiali. Analizzando il precedente dell’attacco dello scorso mese, a un repentino innalzamento della tensione hanno fatto seguito dichiarazioni  di apertura – sia da parte dell’Iran che da parte degli Stati Uniti – che hanno scongiurato il rischio di un’escalation, ma che non hanno risolto la situazione. Il livello di tensione attuale nella regione è infatti talmente elevato da rendere estremamente difficile la de-escalation, quantomeno perché qualsiasi strategia trovata dovrà permettere a entrambi i paesi di “salvare la faccia”: se è chiaro che nessuno dei due vuole un conflitto, e che entrambi hanno l’interesse a dialogare, è vero anche che per entrambi è difficile tornare sui propri passi. Trump dovrebbe ammettere che la sua strategia della “massima pressione” non solo non ha funzionato, ma ha prodotto conseguenze che hanno ulteriormente destabilizzato la regione, rivelandosi negative per gli stessi Stati Uniti. Dal canto suo, l’Iran dovrebbe giustificare che ha bisogno di riprendere il negoziato nonostante gli USA non abbiano tolto le sanzioni. La possibile via di uscita dall’impasse rimane però quella della diplomazia. Non è un caso che il Giappone abbia dichiarato che la situazione verrà discussa nel corso del G20 di Osaka, il 28 e 29 giugno prossimo, quando Paesi molto diversi tra loro – ma uniti dalla volontà di preservare la sicurezza e la stabilità di una delle aree più strategiche del globo – potranno discutere con gli USA e cercare una possibile mediazione. Qualunque sarà il risultato di questa mediazione, però, è difficile immaginare che Washington possa uscire dall’impasse, se non tornando sui propri passi sul tema delle sanzioni, in particolare quelle sul petrolio. Questo però equivarrebbe a ridefinire l’attuale strategia statunitense verso il Medio Oriente: una decisione difficile, ma sono sempre più numerosi i segnali che questa possa presto rivelarsi necessaria."

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/attacco-al-largo-delloman-cosa-succede-nel-golfo-23312

venerdì 24 maggio 2019

Manca poco alla conquista di Tripoli da parte di Haftar?

Manca poco alla conquista di Tripoli da parte di Haftar? O sono colpi di "creazione stato di fatto ante-accordi"? Comunque un'eventuale "pace" sarebbe fragilissima. Prepararci al peggio, sperando che l'Europa che viene in qualche modo sia più protagonista (ma dobbiamo esserlo noi, innanzitutto)

FMM

Haftar a Parigi
https://specialelibia.it/2019/05/23/haftar-a-parigi-e-lingresso-delllna-a-tripoli-potrebbe-essere-questione-di-ore/

Il bombardamento di poche ore fa
http://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2019/05/24/libia-raid-aereo-di-haftar-su-parlamento-dellest-_ddcc3598-ea55-4519-9768-d4942a30dddb.html

domenica 19 maggio 2019

Haftar a Roma rilancia le opzioni italiane nella crisi libica (AnalisiDifesa)

"(...) “La situazione è complessa, confidiamo nella via politica come unica soluzione” ha detto Conte ai cronisti senza sbilanciarsi su quanto espresso da Haftar. Anche se il generale non ha offerto spazio all’ipotesi di tregua (esclusa il 13 maggio dal ministro degli Esteri di Tobruk, Abdulhadi Ibrahim Iahweej) la sua visita a Roma  conferma che il successo militare non è attualmente un’opzione credibile. Benché il suo Esercito Nazionale Libico abbia aperto un nuovo fronte vicino a Sirte con l’obiettivo di deviare da Tripoli alcune brigate di Misurata oggi schierate a difesa della capitale, è evidente che il blitz contro Tripoli scatenato a inizio aprile è fallito e la guerra di logoramento in atto ora non sembra risolvibile sul piano militare.Sembrano essersene accorti anche gli sponsor principali di Haftar. La Russia, fin da subito scettica circa le possibilità di successo dell’attacco a Tripoli, sostiene con Roma la necessità di cercare soluzioni politiche mentre anche Egitto e soprattutto Emirati Arabi Uniti sembrano voler assumere un profilo più defilato. Proprio gli emirati, con le forniture di armi e munizioni e probabilmente anche con il sospetto impiego dei loro droni di costruzione cinese schierati in Cirenaica e impiegati per colpire di notte a Tripoli le postazioni delle milizie fedeli ad al-Sarraj, hanno offerto un contributo determinante all’attacco alla capitale. Il generale ha dimostrato di tenere inconsiderazione il ruolo dell’Italia, confermatasi partner indispensabile per tutti i protagonisti della crisi libica al punto che secondo alcune fonti Conte avrebbe fatto notare al suo interlocutore che il sostegno di molti Paesi stranieri potrebbe non essere eterno. Non a caso lo stesso giorno in cui Conte ha visto Haftar l’ambasciatore italiano in Libia, Giuseppe Buccino ha incontrato a Tripoli il ministro dell’Interno del GNA, Fathi Bashaga. Buccino, a cui, ha espresso l’appoggio dell’Italia al governo di Accordo nazionale. Il 14 maggio il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha dichiarato che il presidente Emmanuel Macron vuole incontrare il maresciallo Khalifa Haftar per premere verso un cessate-il-fuoco e riprendere i colloqui di pace in Libia. (...)"

sabato 18 maggio 2019

Haftar e Italia

"(...) “L ‘Italia prosegue nella sua strada di mediazione tra le parti” afferma l’editorialista e analista Michela Mercuri, docente di Storia Contemporanea dei Paesi mediterranei ed esperta di Libia.
Cambio di alleanze in vista in Libia?
L’Italia guarda da un lato a Tripoli, area in cui ha i suoi interessi energetici e quelli legati al flussi migratori, dall’altro lato le nostre intelligence hanno da tempo un canale aperto con Haftar. Fare valere la nostra posizione nel l’ovest, con l’Ambasciata a Tripoli, e i rapporti con Misurata dove abbiamo un ospedale da campo, potrebbe essere la carta per agganciare di più Haftar e suoi alleati.
Strategia in atto?
Non seguire pedissequamente gli americani come fatto nel 2011 ma “contrattare ” con gli alleati di Haftar facendo valere questo nostro ” valore aggiunto”, aprendo ai russi e soprattutto agli attori del golfo che sponsorizzano le fazioni sul terreno
Haftar al posto di Serrraj?
Non credo ci sia un accordo fra Roma e Haftar che preveda la esclusione degli attori dell’ovest. Vista la posizione sul terreno di Haftar è più logico credere che potrebbe, suo malgrado, accettare un accordo che gli salvi la faccia trovando un minimo intesa con i misuratini
Perché finora il Feldmaresciallo non ha sfondato sul fronte di Tripoli?
Non ha il consenso della popolazione di Tripoli e dei misuratini che si sono dimostrati molto più decisivi di quanto lui stesso potesse immaginare. Forse è stato mal consigliato dai suoi alleati sauditi ed Emirati, che gli avevano garantito una avanzata più “agile”. Da più di un mese è in una fase di stallo. Le vittime aumentano e con esse l’astio dei tripolini. In queste condizioni conquistare Tripoli è assai improbabile.(...) "

venerdì 5 aprile 2019

Libia Fuori Controllo? L'Ora Di Haftar?

"La Libia di nuovo ostaggio della guerra. Nel giorno in cui il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, mette piede a Tripoli per la sua prima storica visita nel Paese, Khalifa Haftar dichiara guerra alla capitale. Così il presidente Fayez al Sarraj è costretto a dichiarare l’emergenza nazionale e mettere in allerta i caccia pronti al decollo, mentre le unità anti-terrorismo di Misurata si preparano a stroncare l’avanzata delle unità dell’Esercito nazionale libico comandato dal generale. «Eccoci, Tripoli. Eccoci, Tripoli. Eroi, l’ora é suonata, é venuto il momento» del «nostro appuntamento con la conquista», tuona l’uomo forte della Cirenaica in un messaggio in cui annuncia l’avvio dell’«Operazione per la liberazione di Tripoli». Nell’audio, postato sulla pagina Facebook dell’Ufficio stampa del Comando generale delle Forze armate libiche, il generale dice anche: «Colui che depone le armi é salvo. Colui che resta a casa é sicuro. Colui che sventola bandiera bianca é in sicurezza». (...) La vicenda ha messo in allarme titta la comunità internazionale: Guterres, ha esortato le fazioni libiche ad evitare una escalation per consentire lo svolgimento della conferenza nazionale prevista fra dieci giorni a Ghadames. «Non ci può essere una conferenza nazionale in queste circostanze», ha detto il segretario generale nella punto stampa che era stato programmato proprio da Tripoli nel corso del suo viaggio nel Paese maghrebino. Viaggio che avrebbe dovuto proprio rilanciare gli sforzi del suo inviato, Ghassan Salame, a sostegno dellla «roadmap» per la stabilizzazione della Libia il cui passaggio chiave sarebbe stata la conferenza nazionale prevista a Ghadames dal 14 al 16 aprile. (...)"


"I governi di Francia, Italia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui si dicono profondamente preoccupati per i combattimenti vicino a Garian, in Libia, e sollecitano tutte le parti ad allentare immediatamente le tensioni, che ostacolano le prospettive di mediazione politica delle Nazioni Unite. “In questo momento delicato di transizione in Libia – afferma la nota – le posizioni militari e le minacce di un’azione unilaterale rischiano di spingere la Libia verso il caos. Crediamo fermamente che non esista una soluzione militare al conflitto in Libia. I nostri governi si oppongono a qualsiasi azione militare in Libia e ritengono responsabile qualsiasi fazione libica che faccia scaturire ulteriori conflitti civili”. I governi hanno rinnovato il loro supporto all’Inviato Speciale delle Nazioni Unite, Ghassan Salame, (...)".

domenica 10 novembre 2013

U.S. officials en route to Israel for urgent discussion on Iran (HaAretz)

A delegation of high-ranking U.S. officials is set to arrive in Jerusalem on Sunday to update the Netanyahu government on the weekend talks in Geneva about Iran’s nuclear program.

The delegation will be led by Wendy Sherman, the U.S. undersecretary for political affairs, who heads the U.S. negotiating team on the matter.

The talks between Iran and six world powers began Thursday and continued into Saturday, in an unscheduled extension.

Sherman is expected to brief her Israeli counterpart on the talks in Geneva and on the gaps that remain. The U.S. delegation is due to meet with Israel’s national security adviser, Yossi Cohen, and with intelligence officials as well as senior officials in the foreign affairs and defense ministries.

U.S. Secretary of State John Kerry will be flying to Abu Dhabi to meet with Sheikh Abudllah bin Zayed Al Nahyan, the foreign minister of the United Arab Emirates, to discuss the Iran negotiations. Along with Saudi Arabia and Bahrain, the UAE is a staunch opponent of an agreement between Iran and the world powers. According to foreign news reports, Israel has been working with the UAE on the Iran issue.(...)

martedì 20 agosto 2013

Egitto: la terza fase delle rivoluzioni arabe (Gilles Kepel su Huffingtonpost.it)

(...) Morsi non ha voluto tenere conto del carattere composito del suo elettorato, e a coloro che l'avevano eletto perché odiavano i militari ha dato l'impressione che la confraternita di cui era solo uno strumento - la "ruota di scorta", come veniva soprannominato all'epoca della campagna elettorale - volesse infiltrarsi nello Stato e impossessarsene per sempre.
Così facendo, Morsi e i Fratelli Musulmani hanno attirato e cristallizzato contro di sé il malcontento di una metà dell'Egitto di cui attualmente non è dato di sapere se sia maggioritaria o minoritaria, ma che in ogni caso, scendendo in piazza il 30 giugno, ha dimostrato che il paese è ormai diviso in due.
Ora, di fronte alla destituzione di Morsi, i Fratelli Musulmani, che esistono dal 1928 e hanno trascorso gran parte della loro esistenza in clandestinità, e hanno costruito una contro-società radicata negli strati più profondi del tessuto sociale egiziano - talvolta con il favore dei regimi, come quello di Sadat, che si appoggiava a loro per combattere la sinistra - hanno una notevole capacità di contrasto.
Oggi, le due metà antagoniste dell'Egitto sono capaci di ostacolarsi a vicenda, e c'è da temere che nessuna delle due sia in grado di imporre la propria volontà in un contesto polarizzato in cui l'esercito non ha esitato a fare ricorso alle armi in una settimana in cui probabilmente sono rimaste uccise un migliaio di persone.
Tutto lascia pensare che i gruppi armati che sono andati formandosi tra le fronde marginali dei Fratelli Musulmani ricompariranno, e questo processo reca in sé i fermenti di una guerra civile. (...)
Jean Marcou ha ragione quando sottolinea che l'Egitto non è la Siria. Tuttavia, resto molto colpito quando apprendo quel che oggi si dice, si scrive, in arabo su un fronte e sull'altro in Egitto.
C'è una violenza verbale che dall'inizio delle rivolte arabe non avevo mai sentito, se non in Siria. Ma a differenza della Siria, in cui è il combustibile religioso ed etnico ad alimentare la guerra civile, lo scontro in Egitto è innanzi tutto una sorta di Kulturkampf [guerra culturale], che vede schierati gli islamisti da un lato e quelli che gli si oppongono dall'altro. E in questo senso ciò che accade in Egitto è il punto parossistico di un conflitto esistenziale sul futuro delle società arabe e sul posto che vi occuperà la religione, un conflitto che si ritrova oggi in Libia, in Tunisia e in Turchia.


D'altronde è proprio questo che spiega la virulenza del primo ministro turco Erdogan, proveniente lui stesso da una filiazione dei Fratelli Musulmani, il quale, oltre a offrire sostegno ai suoi fratelli egiziani, reagisce con la forza alle difficoltà che incontra nel proprio paese, da quando i democratici e i laici turchi che avevano votato per l'Akp perché mossi dall'odio per un esercito kemalista che consideravano fascistoide oggi sono ossessionati dall'idea che Erdogan diventi un dittatore islamista, come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di giugno in piazza Taksim.(...) 

mercoledì 12 dicembre 2012

Siria come la Libia?

Andiamo verso una nuova Libia? Il riconoscimento americano della Coalizione degli insorti come rappresentante legittimo del popolo siriano, seguita oggi anche dalla dichiarazione europea di Marrakesh dello stesso tenore, segna una svolta forse ancora maggiore dello schieramento dei Patriot della Nato ai confini della Turchia. Anche se la Francia e altri Paesi che fanno parte del gruppo "Amici della Siria" affermano di non essere pronti di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/nc8uh

Se i generali parlano con i ribelli via Skype. Dai media sale un ronzio inverificabile sulla possibilità di un’imminente azione militare a favore dei ribelli. Il numero domenicale del Times – quello di solito dedicato agli scoop – sostiene che l’Amministrazione Obama sta cedendo ai ribelli uno stock di armi pesanti comprato dalla Libia, residuato funzionante degli arsenali di Gheddafi, e ora intende appoggiare i ribelli in guerra, lasciando perdere gli aiuti “non letali”. Pochi giorni prima il Times aveva intervistato una fonte militare dentro il Pentagono, che aveva assicurato: “Siamo in standby, siamo pronti a intervenire nel giro di pochi giorni”. Ieri altra stampa inglese, Guardian e Independent, raccontavano di un meeting – poche settimane fa – tra il capo di stato maggiore britannico, il generale David Richards, e generali di Francia, Stati Uniti e Turchia, più due paesi arabi che già hanno partecipato alle operazioni in Libia, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti (manca l’Italia). Il giornale francese Figaro venerdì ha pubblicato la notizia che militari francesi sono entrati in Siria per parlare con i ribelli e avere un quadro esatto, e gli incontri sono avvenuti tra il confine libanese e la capitale Damasco. Anche militari americani e inglesi si sono incontrati con i ribelli, scrive il Figaro, ma dietro il confine turco, “per paura di rapimenti”. Il Pentagono passerebbe giornate a parlare con i ribelli dentro la Siria via Skype. Decidere di chi fidarsi e di chi no potrebbe essere il compito più pericoloso, più che la reazione armata di Assad. 
http://www.ilfoglio.it/soloqui/16151

mercoledì 28 dicembre 2011

Lo Stretto di Hormuz


Ai tempi dello shah, prima della caduta dei Pahlavi nel 1979, l'Iran era il gendarme del Golfo e la fedele sentinella dell'Occidente nello Stretto di Hormuz, un braccio di mare largo 30 chilometri: nel 1973 Teheran, per evitare sorprese agli approvvigionamenti mondiali di petrolio, mandò persino un agguerrito corpo di spedizione in Oman per stroncare una ribellione di ispirazione maoista. Da 32 anni la repubblica islamica vuole essere riconosciuta come la potenza egemone del Golfo e insieme ai programmi nucleari può agitare lo spauracchio della chiusura dello Stretto: (...)


(...)Un parlamentare della commissione per la Sicurezza nazionale, Zohreh Elahian, lunedì aveva detto anche lui che “Le manovre della marina nel Golfo persico e nel mare dell’Oman dimostrano la potenza e la supremazia dell’Iran sulle acque della regione” e “i media occidentali ammettono che siamo in grado di chiudere lo Stretto di Hormuz, se fossimo costretti”. La minaccia era arrivata esplicitamente già a luglio da parte del comandante delle Guardie rivoluzionarie dell’Iran, Mohammad Ali Jafari, e ancora prima a febbraio da Ali Fadavi, capo delle forze navali delle Guardie rivoluzionarie (il grosso della marina è finito da tempo sotto il controllo dei pasdaran, il resto ha compiti residuali, da Guardia costiera).
La maggior parte del greggio esportato da Arabia Saudita, Iran, Emirati arabi uniti, Kuwait e Iraq – assieme a tutto il gas naturale del Qatar – passa attraverso il tratto largo meno di otto chilometri davanti alle coste iraniane. Gli Emirati, per aggirare il rischio di un blocco, hanno appena terminato la costruzione di un oleodotto che può saltare lo strettoia marina con un milione e mezzo di barili al giorno, la metà della sua produzione.
L’Iran teme l’arrivo nel 2012 di un nuovo round di sanzioni internazionali contro le sue esportazioni di petrolio, per colpa del programma atomico che le Nazioni Unite hanno definito “anche militare” e che il paese non ha intenzione di fermare. Per ora il progressivo accumularsi di misure internazionali ha colpito l’economia iraniana con durezza, ma le risorse naturali – gas e greggio – hanno evitato che fossero “crippling”, storpianti, come chiede il governo israeliano, e hanno protetto il regime. Il viceministro per il Petrolio, Ahmad Qalebani, ha anzi appena annunciato 17 nuovi contratti con partner anche stranieri prima della fine dell’anno iraniano (il 21 marzo 2012) per sfruttare nuovi giacimenti. Ma se le sanzioni investissero l’esportazione di greggio la pressione potrebbe essere insostenibile. (...)