(...) Morsi non ha voluto tenere conto del carattere composito del suo elettorato, e a coloro che l'avevano eletto perché odiavano i militari ha dato l'impressione che la confraternita di cui era solo uno strumento - la "ruota di scorta", come veniva soprannominato all'epoca della campagna elettorale - volesse infiltrarsi nello Stato e impossessarsene per sempre.
Così facendo, Morsi e i Fratelli Musulmani hanno attirato e cristallizzato contro di sé il malcontento di una metà dell'Egitto di cui attualmente non è dato di sapere se sia maggioritaria o minoritaria, ma che in ogni caso, scendendo in piazza il 30 giugno, ha dimostrato che il paese è ormai diviso in due.
Ora, di fronte alla destituzione di Morsi, i Fratelli Musulmani, che esistono dal 1928 e hanno trascorso gran parte della loro esistenza in clandestinità, e hanno costruito una contro-società radicata negli strati più profondi del tessuto sociale egiziano - talvolta con il favore dei regimi, come quello di Sadat, che si appoggiava a loro per combattere la sinistra - hanno una notevole capacità di contrasto.
Oggi, le due metà antagoniste dell'Egitto sono capaci di ostacolarsi a vicenda, e c'è da temere che nessuna delle due sia in grado di imporre la propria volontà in un contesto polarizzato in cui l'esercito non ha esitato a fare ricorso alle armi in una settimana in cui probabilmente sono rimaste uccise un migliaio di persone.
Tutto lascia pensare che i gruppi armati che sono andati formandosi tra le fronde marginali dei Fratelli Musulmani ricompariranno, e questo processo reca in sé i fermenti di una guerra civile. (...)
Jean Marcou ha ragione quando sottolinea che l'Egitto non è la Siria. Tuttavia, resto molto colpito quando apprendo quel che oggi si dice, si scrive, in arabo su un fronte e sull'altro in Egitto.
C'è una violenza verbale che dall'inizio delle rivolte arabe non avevo mai sentito, se non in Siria. Ma a differenza della Siria, in cui è il combustibile religioso ed etnico ad alimentare la guerra civile, lo scontro in Egitto è innanzi tutto una sorta di Kulturkampf [guerra culturale], che vede schierati gli islamisti da un lato e quelli che gli si oppongono dall'altro. E in questo senso ciò che accade in Egitto è il punto parossistico di un conflitto esistenziale sul futuro delle società arabe e sul posto che vi occuperà la religione, un conflitto che si ritrova oggi in Libia, in Tunisia e in Turchia.
D'altronde è proprio questo che spiega la virulenza del primo ministro turco Erdogan, proveniente lui stesso da una filiazione dei Fratelli Musulmani, il quale, oltre a offrire sostegno ai suoi fratelli egiziani, reagisce con la forza alle difficoltà che incontra nel proprio paese, da quando i democratici e i laici turchi che avevano votato per l'Akp perché mossi dall'odio per un esercito kemalista che consideravano fascistoide oggi sono ossessionati dall'idea che Erdogan diventi un dittatore islamista, come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di giugno in piazza Taksim.(...)
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