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venerdì 14 giugno 2019

Attacco al largo dell'Oman: cosa succede nel Golfo? (ISPIOnLine)

"(...) Il ruolo del Giappone
Nelle ore in cui è avvenuto l’attacco era in corso la visita di Stato a Teheran del premier giapponese Shinzo Abe, la prima da parte di un primo ministro del Giappone dalla rivoluzione iraniana del 1979. Non si trattava però della prima volta di Abe a Teheran: suo padre Shintaro Abe compì una missione analoga nel 1983 nelle vesti di ministro degli Esteri, cercando di mediare tra Iran e Iraq nella guerra che per otto anni ha opposto i due paesi, e il giovane Shinzo, allora segretario del padre, viaggiò al suo seguito.

Il Giappone, del resto, è uno dei paesi che più importa(va) petrolio da Teheran, tanto da essere stato tra gli otto paesi che lo scorso anno avevano ricevuto le esenzioni per poter continuare ad acquistare greggio iraniano. Da questo maggio, però, per volontà dell’amministrazione Trump, anche Tokyo ha dovuto cessare le importazioni da Teheran e aumentare così i rifornimenti da altri paesi della regione, in particolar modo da Arabia Saudita e Emirati. Se Abe è intervenuto a mediare è proprio perché il Giappone ha un interesse fondamentale nella sicurezza e nella stabilità della regione mediorientale, e perché gode di buoni rapporti tanto con Washington (Abe è uno dei leader che più ha saputo dialogare con Trump) quanto con Teheran. Significativo poi che questo tentativo di mediazione sia portato avanti da una potenza occidentale, alleata degli USA, ma che non ha preso parte al negoziato sul nucleare iraniano che ha portato alla firma del JCPOA. L’Unione Europea, del resto, ha visto fallire tutti i tentativi fatti finora a questo scopo, e sembra concentrata oltre che sull’imminente passaggio di consegne presso il Servizio di azione esterna, sul tentativo di rendere operativo INSTEX, lo strumento per il commercio con Teheran, che però potrebbe non essere sufficiente a stabilizzare una situazione che nell’ultimo mese è precipitata. La missione di Abe di queste ore sembra dunque essere stata quella di mediare un accordo di “congelamento” della situazione. Trump dovrebbe quindi permettere all’Iran di riprendere in parte le proprie esportazioni di petrolio, e in cambio l’Iran non riprenderebbe le proprie attività nucleari, come ha invece minacciato di fare a partire da luglio. Solamente una volta contenuta l’emergenza si potrà cercare una mediazione più ampia su altri aspetti del contenzioso tra Washington e Teheran.

Quali scenari?
Se non è possibile stabilire con certezza le responsabilità dell’accaduto, altrettanto difficile è tratteggiare degli scenari certi. Molto dipenderà da come la crisi evolverà nelle prossime ore, ovvero se le parti in causa cercheranno di abbassare la tensione, oppure se al contrario si alzeranno i toni e si formalizzeranno accuse ufficiali. Analizzando il precedente dell’attacco dello scorso mese, a un repentino innalzamento della tensione hanno fatto seguito dichiarazioni  di apertura – sia da parte dell’Iran che da parte degli Stati Uniti – che hanno scongiurato il rischio di un’escalation, ma che non hanno risolto la situazione. Il livello di tensione attuale nella regione è infatti talmente elevato da rendere estremamente difficile la de-escalation, quantomeno perché qualsiasi strategia trovata dovrà permettere a entrambi i paesi di “salvare la faccia”: se è chiaro che nessuno dei due vuole un conflitto, e che entrambi hanno l’interesse a dialogare, è vero anche che per entrambi è difficile tornare sui propri passi. Trump dovrebbe ammettere che la sua strategia della “massima pressione” non solo non ha funzionato, ma ha prodotto conseguenze che hanno ulteriormente destabilizzato la regione, rivelandosi negative per gli stessi Stati Uniti. Dal canto suo, l’Iran dovrebbe giustificare che ha bisogno di riprendere il negoziato nonostante gli USA non abbiano tolto le sanzioni. La possibile via di uscita dall’impasse rimane però quella della diplomazia. Non è un caso che il Giappone abbia dichiarato che la situazione verrà discussa nel corso del G20 di Osaka, il 28 e 29 giugno prossimo, quando Paesi molto diversi tra loro – ma uniti dalla volontà di preservare la sicurezza e la stabilità di una delle aree più strategiche del globo – potranno discutere con gli USA e cercare una possibile mediazione. Qualunque sarà il risultato di questa mediazione, però, è difficile immaginare che Washington possa uscire dall’impasse, se non tornando sui propri passi sul tema delle sanzioni, in particolare quelle sul petrolio. Questo però equivarrebbe a ridefinire l’attuale strategia statunitense verso il Medio Oriente: una decisione difficile, ma sono sempre più numerosi i segnali che questa possa presto rivelarsi necessaria."

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/attacco-al-largo-delloman-cosa-succede-nel-golfo-23312

venerdì 27 dicembre 2013

Il destino del Sud Sudan (ThePostInternazionale)

Segnalo questa notizia, anche perché mi pare importante notare il tentativo di leader africani - pur con l'appoggio di altre potenze mondiali - di risolvere una grave crisi del continente.
FMM
I leader africani di Kenya e Etiopia sono arrivati giovedì in Sud Sudan per discutere della crisi che affligge il Paese. In una serie di incontri, cercheranno di mediare tra il presidente Salva Kiir e l'ex vice presidente Riek Machar, accusato di aver tentato il colpo di stato in Sud Sudan.
Il ministro dell'informazione  Michael Makuei Leuth ha fatto presente che il governo del Sud Sudan non ha ancora preso contatti formali con Machar. Al Jazeera riporta che Machar non prenderà parte agli incontri previsti per oggi.Le forze militari governative stanno pian piano riprendendo in controllo della città di Bentiu prima nelle mani dei militanti di Machar. La zona è ricca di petrolio e quindi è molto importante per l'economia del paese. (...)

venerdì 15 novembre 2013

Italia A Rischio Gas? (da ilSole24Ore.it)

Le forniture dalla Libia, come noto, sono bloccate. Paolo Scaroni, il capo dell'Eni, rassicura: stiamo facendo di tutto per rimpiazzarle, e l'Italia non rischia. Gazprom, il grande fornitore russo, sta pompando in Europa e in Italia quantità aggiuntive e giura che non non cadrà nella trappola che molti guai ha creato in passato con l'interruzione delle forniture attraverso l'Ucraina a causa dei ripetuti dissidi energetico-politici tra i due paesi. Lo scorso inverno, in uno scenario simile, ce la siamo cavata, (...)
 
di Federico Rendina - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/JMWK3

mercoledì 13 novembre 2013

E' Vero Rispetto Del Pluralismo? E' Vera Laicità?

Ammetto di non riuscire ad accettare il tipo di ragionamento che è alla base della scelta della tv norvegese di obbligare una giornalista a non indossare un crocefisso, anche se capisco i presupposti da cui parte. Non riesco a condividere l'idea che rispetto del pluralismo significhi nascondere ogni minima traccia di "identità". 

I fattori di cui tener conto sono molteplici: va considerato, tra l'altro, che ormai il crocefisso viene usato come ornamento, quasi spoglio del suo reale significato (questo non è buona cosa, probabilmente, ma va tenuto in conto...). 

Inoltre: uno stesso simbolo può essere portato con maggiore o minore attenzione, oserei dire con maggiore o minore stile, e rispetto verso gli altri, mandando quindi segnali assai diversi. E ancora: diverso è un ambiente come quello della tv, e un servizio come il telegiornale, rispetto ad altri ambienti (l'ospedale, per esempio, dove i malati esigono un'attenzione maggiore, e quindi forse potrebbe essere corretta una regolamentazione più stretta).

Rischiamo il paradosso che il mondo occidentale decida di aprirsi a costumi altri (l'assenso al velo tradizionale per le donne di una parte del mondo africano o medioorientale, per esempio), ma sia timoroso fino all'eccesso dei "suoi" simboli.

Il problema non è affatto semplice, naturalmente, e quanto tratteggiato rappresenta un sunto molto parziale.

Ma quando il rispetto sembra avvicinarsi troppo alla paura, o a una troppo manifesta "cortesia istituzionale" (un po' artefatta), rischia di non essere una reale attenzione al pluralismo, ma scivolare nella sottile paura di manifestare qualsiasi differenza. 

Corriamo qualche rischio, seguendo questa strada.

FMM

Una catenina d’oro con una piccola croce di pietre scure . Un simbolo religioso comparso durante la conduzione di un tg al collo di una nota giornalista della tv Nrk, che ha fatto arrabbiare molti telespettatori musulmani e non solo. È accaduto in Norvegia. La protagonista della vicenda è la giornalista Siv Kristin Saellmann a cui alla fine è stato vietato di ripresentarsi in video con quella piccola croc e al collo. (...) Tuttavia l’episodio ha scatenato le polemiche. Ad alcuni osservatori è apparso «eccessivo» per un «Paese a maggioranza cristiana». Anche la diretta interessata non ha gradito molto quella che considerata una «censura». Al quotidiano «The Local» Saellmann ha detto di non aver apprezzato che «queste persone estranee abbiano potuto telefonare e dire al mio capo cosa io debba o non debba indossare». Tuttavia, ha concluso, «non voglio che le persone che mi guardano mentre faccio il mio lavoro di conduzione mi considerino in qualche modo di parte, voglio essere il più neutrale possibile. Però - spiega ancora - Non ho mai pensato che questa croce, lunga non più di un centimetro e mezzo e che mi era stata regalata da mio marito durante una recente vacanza a Dubai come semplice gioiello, potesse causare tanto clamore . Non ho indossato la croce per provocare. Sono cristiana ma finora ho visto croci un po’ ovunque, anche come oggetti di moda, e non credo che la gente reagisca per questo».(...)

sabato 23 luglio 2011

Atene e Oslo, una sola patria: l'Europa

Le ultime notizie - ma è ancora presto per esserne pienamente certi - dicono che la pista degli attentati norvegesi è "interna". 
Questo non deve cambiare il nostro atteggiamento, anche se è in parte inevitabile una percezione diversa dell'avvenimento: in ogni caso l'attacco è avvenuto in Europa, nostra patria comune; l'attacco è dunque "interno" anche per noi. 

Il disastro economico greco ci ha costretto a capire che siamo sempre più interdipendenti, ma i legami sensibili dell'economia non sono gli unici che devono valere; i governanti che si sono riuniti per aiutare Atene (forse finalmente nel modo giusto, ma dobbiamo ancora fare passi in avanti), devono andare a Oslo: la Norvegia non è parte della Unione Europea, ma il "senso" della nostra comunità deve farsi sentire al di là dei confini formalmente segnati dai trattati.Come europei dobbiamo reagire, insieme ai fratelli norvegesi, quale che sia la matrice degli attentati di Oslo.

Francesco Maria Mariotti