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venerdì 11 marzo 2022

Chiarezza sul nucleare nella guerra in corso

Indipendentemente da come la si pensi sull'utilizzo dell'energia nucleare, è benvenuto un approfondimento che tenta di rispondere alle paure di questi giorni 

"(...) Riteniamo opportuno, in questi tempi incerti e in cui le notizie si rincorrono molto velocemente su tutti i mezzi di informazione, chiarire alcuni dubbi, ricostruire le dinamiche degli eventi alla luce dei bollettini rilasciati dagli organismi internazionali, e dare una risposta razionale alle paure che si stanno diffondendo tra i cittadini. (...)
 https://nucleareeragione.org/2022/03/10/situazione-in-ucraina-facciamo-chiarezza/

martedì 23 luglio 2019

Il flirt iraniano di Trump (Daniele Raineri, ilFoglio)

Molto interessante, e non sorprendente. E forse non a caso ieri da UK una proposta di pattugliamento dello stretto di Hormuz che sia UE e autonomo dagli Usa.

FMM

"(...) Per arrivare a negoziare di persona con il dittatore nordcoreano Kim Jong Un, il presidente americano usò nella fase iniziale un approccio durissimo, promise che avrebbe risposto ai test di Kim con “fire and fury”, irrise Kim e lo chiamò “l’uomo razzo”. Poi quando la tensione divenne molto alta accennò alla possibilità di un incontro personale e ci fu una svolta diplomatica. Da allora i contatti sono diventati frenetici. Trump ha incontrato Kim già tre volte ormai – e in ogni occasione i media sono impazziti. Durante l’ultimo incontro il presidente americano ha varcato la linea di confine nella zona demilitarizzata tra Corea del nord e Corea del sud per stringere la mano a Kim e non era mai successo prima. Che importa se risultati concreti per ora non ce ne sono e la Corea del nord non ha alcuna intenzione di rinunciare alle armi nucleari, l’attenzione attorno a Trump è stata altissima e quindi i negoziati dal suo punto di vista sono senz’altro una cosa eccellente. Kim nel frattempo si gode una legittimità internazionale che non aveva mai avuto perché era sempre stato considerato un mattoide.

È possibile che Trump desideri la stessa cosa con l’Iran. Durante la campagna elettorale definì l’accordo firmato dal predecessore Obama con l’Iran per congelare il programma atomico “il peggiore accordo di sempre”, e queste parole sono famose, ma si tende a dimenticare quello che disse dopo: “Io ne farò uno migliore”. Se dopo essere stato il primo presidente americano a varcare il confine sul trentottesimo parallelo in Corea Trump diventasse anche il primo presidente a essere invitato in Iran dopo la rivoluzione del 1979, sarebbe un evento storico. È probabile che l’eccitazione che abbiamo visto quando è successo in Corea del nord in confronto all’Iran sarebbe poca cosa, come una prova generale dello spettacolo vero.

Per ora tutto questo resta sullo sfondo, ma ci sono segnali molto chiari. Quando a giugno Trump ha annullato all’ultimo momento un raid aereo contro obiettivi militari in Iran, ha fatto arrivare agli iraniani la richiesta di negoziati. L’Amministrazione americana per due anni ha applicato all’Iran la linea della “massima pressione possibile”, quindi sanzioni molto dure e annullamento dell’accordo del 2015, ma ora ha fatto sapere che non impone condizioni per i negoziati: basta che avvengano. E negli ultimi giorni dall’Iran sono arrivate dichiarazioni di disponibilità dalle due correnti interne al regime, quella del presidente pragmatico Hassan Rohani e quella del falco populista Mahmoud Ahmadinejad. Quest’ultimo, che non ha più incarichi di governo ma ha molto seguito, ha detto al New York Times che “Trump è un uomo d’affari, sa come calcolare costi e benefici a lungo termine”. In Iran si comincia a pensare che, in cambio di una bella foto con Trump, ci si potrebbe liberare di molte sanzioni. Ieri il segretario di stato americano, Mike Pompeo, ha detto al governo britannico “dovete prendervi cura voi delle vostre navi” – si riferiva alla petroliera catturata – e così ha escluso qualsiasi iniziativa americana di aiuto."

Pubblicato sul Foglio di martedì 23 luglio: https://www.ilfoglio.it/esteri/2019/07/23/news/il-flirt-iraniano-di-trump-266528/?fbclid=IwAR0Lhr6qZQ232S31TBJQckO5tErz2RJv8r8Qz4TTCtfrEprzlV5JmN5CGPU&paywall_canRead=true

Tratto da Facebook https://www.facebook.com/172477746626388/posts/507921573082002/

lunedì 22 luglio 2019

Scorta UE per Hormuz?

Dal profilo Facebook di Guido Olimpio; sarebbe interessante se dalla crisi USA - Iran potesse nascere una "opportunità" per l'UE, e sarebbe ironico che questo avvenisse attraverso una proposta di un Regno Unito che dalla UE vorrebbe uscire. Ma forse è il caso di approfittare di qualsiasi spiraglio.

FMM

Il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt, dopo aver accusato i guardiani della rivoluzione di un atto di pirateria, ha lanciato l’idea di un piano europeo per proteggere il traffico marittimo attraverso Hormuz con una scorta a guida UE. Consultazioni in questo senso sono state avviate durante il fine settimana. Dunque il progetto è di rispondere, in qualche modo, alla proposta della Casa Bianca per una coalizione internazionale – la cosiddetta Operazione Sentinel -, ma senza essere legati a tutte le scelte degli Usa verso l’Iran, in particolare sulla questione nucleare.

venerdì 14 giugno 2019

Attacco al largo dell'Oman: cosa succede nel Golfo? (ISPIOnLine)

"(...) Il ruolo del Giappone
Nelle ore in cui è avvenuto l’attacco era in corso la visita di Stato a Teheran del premier giapponese Shinzo Abe, la prima da parte di un primo ministro del Giappone dalla rivoluzione iraniana del 1979. Non si trattava però della prima volta di Abe a Teheran: suo padre Shintaro Abe compì una missione analoga nel 1983 nelle vesti di ministro degli Esteri, cercando di mediare tra Iran e Iraq nella guerra che per otto anni ha opposto i due paesi, e il giovane Shinzo, allora segretario del padre, viaggiò al suo seguito.

Il Giappone, del resto, è uno dei paesi che più importa(va) petrolio da Teheran, tanto da essere stato tra gli otto paesi che lo scorso anno avevano ricevuto le esenzioni per poter continuare ad acquistare greggio iraniano. Da questo maggio, però, per volontà dell’amministrazione Trump, anche Tokyo ha dovuto cessare le importazioni da Teheran e aumentare così i rifornimenti da altri paesi della regione, in particolar modo da Arabia Saudita e Emirati. Se Abe è intervenuto a mediare è proprio perché il Giappone ha un interesse fondamentale nella sicurezza e nella stabilità della regione mediorientale, e perché gode di buoni rapporti tanto con Washington (Abe è uno dei leader che più ha saputo dialogare con Trump) quanto con Teheran. Significativo poi che questo tentativo di mediazione sia portato avanti da una potenza occidentale, alleata degli USA, ma che non ha preso parte al negoziato sul nucleare iraniano che ha portato alla firma del JCPOA. L’Unione Europea, del resto, ha visto fallire tutti i tentativi fatti finora a questo scopo, e sembra concentrata oltre che sull’imminente passaggio di consegne presso il Servizio di azione esterna, sul tentativo di rendere operativo INSTEX, lo strumento per il commercio con Teheran, che però potrebbe non essere sufficiente a stabilizzare una situazione che nell’ultimo mese è precipitata. La missione di Abe di queste ore sembra dunque essere stata quella di mediare un accordo di “congelamento” della situazione. Trump dovrebbe quindi permettere all’Iran di riprendere in parte le proprie esportazioni di petrolio, e in cambio l’Iran non riprenderebbe le proprie attività nucleari, come ha invece minacciato di fare a partire da luglio. Solamente una volta contenuta l’emergenza si potrà cercare una mediazione più ampia su altri aspetti del contenzioso tra Washington e Teheran.

Quali scenari?
Se non è possibile stabilire con certezza le responsabilità dell’accaduto, altrettanto difficile è tratteggiare degli scenari certi. Molto dipenderà da come la crisi evolverà nelle prossime ore, ovvero se le parti in causa cercheranno di abbassare la tensione, oppure se al contrario si alzeranno i toni e si formalizzeranno accuse ufficiali. Analizzando il precedente dell’attacco dello scorso mese, a un repentino innalzamento della tensione hanno fatto seguito dichiarazioni  di apertura – sia da parte dell’Iran che da parte degli Stati Uniti – che hanno scongiurato il rischio di un’escalation, ma che non hanno risolto la situazione. Il livello di tensione attuale nella regione è infatti talmente elevato da rendere estremamente difficile la de-escalation, quantomeno perché qualsiasi strategia trovata dovrà permettere a entrambi i paesi di “salvare la faccia”: se è chiaro che nessuno dei due vuole un conflitto, e che entrambi hanno l’interesse a dialogare, è vero anche che per entrambi è difficile tornare sui propri passi. Trump dovrebbe ammettere che la sua strategia della “massima pressione” non solo non ha funzionato, ma ha prodotto conseguenze che hanno ulteriormente destabilizzato la regione, rivelandosi negative per gli stessi Stati Uniti. Dal canto suo, l’Iran dovrebbe giustificare che ha bisogno di riprendere il negoziato nonostante gli USA non abbiano tolto le sanzioni. La possibile via di uscita dall’impasse rimane però quella della diplomazia. Non è un caso che il Giappone abbia dichiarato che la situazione verrà discussa nel corso del G20 di Osaka, il 28 e 29 giugno prossimo, quando Paesi molto diversi tra loro – ma uniti dalla volontà di preservare la sicurezza e la stabilità di una delle aree più strategiche del globo – potranno discutere con gli USA e cercare una possibile mediazione. Qualunque sarà il risultato di questa mediazione, però, è difficile immaginare che Washington possa uscire dall’impasse, se non tornando sui propri passi sul tema delle sanzioni, in particolare quelle sul petrolio. Questo però equivarrebbe a ridefinire l’attuale strategia statunitense verso il Medio Oriente: una decisione difficile, ma sono sempre più numerosi i segnali che questa possa presto rivelarsi necessaria."

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/attacco-al-largo-delloman-cosa-succede-nel-golfo-23312

venerdì 6 dicembre 2013

Eni in pole position in Iran dopo l'accordo sul nucleare (da HuffingtonPost.it)

Il Cane a sei zampe potrebbe essere la prima compagnia petrolifera occidentale ad approfittare dell'accordo sul nucleare iraniano raggiunto alla fine di novembre. Oggi a Vienna, al termine del vertice dell'Opec che si è tenuto nella città austriaca, l'ad di Eni Paolo Scaroni ha incontrato il ministro iraniano del Petrolio Bijan Zanganeh per parlare dei progetti che il gruppo ha intenzione di cantierizzare nel Paese, una volta che verranno allentate le sanzioni internazionali scoccate un anno fa contro la nazione mediorientale. Proprio ieri Teheran ha mostrato interesse per sette colossi del settore petrolifero invitandoli a investire in Iran.(...)

martedì 3 dicembre 2013

Accordo con l'Iran: Nuova Monaco o Compromesso Positivo?

Segnalo ​due articoli de ilFoglio sugli accordi di Ginevra fra 5+1 e Iran. Il paragone con gli accordi di Monaco del 1938 è richiamato troppo spesso, nella discussione pubblica, per essere un punto di confronto utilizzabile concretamente. 

Di fatto l'argomento - anche laddove sia fondato - rischia di essere una sorta di "al lupo, al lupo", che dopo reiterazioni continue diventa incapace di colpire e convincere; uno di quei richiami storici troppo distanti e differenti per essere pregnanti. 

Detto ciò, non possono essere sottovalutate le preoccupazioni che nel primo articolo vengono sottolineate. Come spesso in politica estera, le ragioni concrete, misurabili - e sagge, il più delle volte - della diplomazia non bastano - né possono bastare - ad esaurire lo scenario. 

Come già scritto, la posta in palio con la questione nucleare non è infatti "solo" la possibilità di una guerra nucleare (improbabile), ma il potere dell'Iran all'interno della scacchiera medioorientale, e più ancora la stabilità del regime fondamentalista. 

Ecco perché se da una parte è giusto non eccedere in allarmismi che rischiano di essere involontariamente retorici e quindi dannosi, sarebbe assai rischioso - non solo per israele, ma per tutto il mondo - non vedere la partita più complessiva che si gioca con questo accordo, al di là di questo accordo.

FMM

Quando Adolf Hitler si sedette nel 1938 alla Conferenza di Monaco con Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Edouard Daladier aveva dalla sua un non piccolo vantaggio: per dirla sbrigativamente, sui Sudeti aveva ragione lui. Da qui bisogna partire quando si maneggia – spesso incautamente – il parallelo tra il patto di Monaco e accordi come quello siglato a Ginevra tra i 5+1 e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi. Dentro quello schema, invece, ragionò e agì Chamberlain, che non coglieva per nulla – non da solo – il punto focale di quella trattativa, che non era affatto la ragione o no che i tedeschi dei Sudeti avevano di voler essere distaccati dalla Cecoslovacchia e essere inglobati nel Reich tedesco. Su questo punto, come si è detto, i tedeschi dei Sudeti avevano ragione, perché i cechi e gli slovacchi li trattavano come cittadini di seconda categoria e il loro irredentismo pangermanico era giustificato. Anche l’Iran oggi ha tutte le ragioni di aspirare al nucleare civile e anche a pretendere di raffinare l’uranio da solo: l’errore dei 5+1 a Ginevra è oggi, appunto, di ritenere che il punto focale della trattativa sia questo e che quindi l’ambito della discussione sia soltanto quello di imporre agli iraniani di aderire ai protocolli e alle ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), come previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare. Se così fosse, nulla quaestio, si tratta soltanto di discutere dei risultati – in questo ristretto ambito – che avrà la futura road map.(...)

Punto primo, il paragone storico con Monaco 1938 è il grido d’allarme più abusato del repertorio ma non ci aiuta a capire nemmeno un grammo in più di cosa sta succedendo davvero. Stiamo parlando di Israele, che è uno stato sovrano e anche la potenza militare più avanzata di tutto il medio oriente, e stiamo parlando di armi atomiche, di Repubblica islamica iraniana e di sanzioni internazionali che colpiscono soprattutto il mercato del greggio. Queste cose nel 1938 non esistevano e oggi si dovrebbe poterne parlare senza per forza essere costretti a passare di nuovo dai Sudeti. Se poi andiamo a vedere nello specifico, l’accordo di Monaco fu firmato dalle grandi potenze il 30 settembre e il giorno dopo le truppe naziste entrarono marciando in Cecoslovacchia provocando la fuga di almeno centomila persone – tra loro molti ebrei e oppositori politici degli hitleriani. Il pre-accordo di Ginevra è stato raggiunto domenica scorsa e l’effetto è questo: da gennaio ci saranno ottomila centrifughe in funzione in Iran invece che diciannovemila. Si vede la differenza tra i due?

Punto secondo, questo non è l’accordo con l’Iran. E’ un pre-accordo. Nulla è stato deciso. Si è trattato di un patto preliminare tra le potenze mondiali e l’Iran per rallentare il programma atomico da una parte e alleggerire di poco le sanzioni dall’altra e andare in questo modo ai negoziati reali che cominceranno fra sei mesi. Le decisioni che contano saranno prese allora. Qual era l’alternativa a questo pre-accordo di Ginevra? Erano due: non fare ancora nulla oppure fare la guerra.(...)

sabato 23 novembre 2013

Iran: Scelte Rischiose?

GINEVRA - «Siamo vicini a un accordo». Arriva da Teheran la notizia che, dopo tre giorni intensi di negoziati a Ginevra, l’Iran e le potenze occidentali avrebbero trovato un’accordo sullo spinoso dossier nucleare. Venerdì sera il viceministro iraniano Abbas Araqchi, secondo quanto ha riferito l’agenzia stampaMehr, ha soffiato sul fuoco della speranza di un’intesa dopo che a innescare le aspettative erano stati poco prima gli Stati Uniti annunciando che il segretario di Stato John Kerry era in partenza per Ginevra. Secondo quanto poi aveva riferito laPress Tv, sulla base di fonti negoziali, la questione si sarebbe sbloccata quando i delegati del 5+1 avrebbero accettato di riconoscere il diritto di Teheran ad arricchire in proprio l’uranio. (...) 

LA CAUTELA USA - Un tam-tam di voci seguite anche alle dichiarazioni del ministro degli Esteri iraniano Mohammad Kavad Zarif che, ancora prima da Ginevra, aveva parlato di progressi «del 90 per cento», anche se restano da risolvere «una o due questioni». Dal Dipartimento di Stato Usa comunque resta un filo di cautela sulla questione: «Il segretario si recherà a Ginevra con l’obiettivo di continuare a dare una mano per far ridurre le divergenze, e progredire sempre di più verso un accordo», ha spiegato il portavoce Jen Psaki spiegando che Kerry si sarebbe consultato con l’alto rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, e con la delegazione di negoziatori sul posto e che comunque la sua partenza in ogni caso «non costituisce una previsione sull’esito» dei negoziati. Venerdì a Ginevra era arrivato anche il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov.(...)

giovedì 21 novembre 2013

Iran: Trattativa Continua?

Il testo dell’intesa

Il testo di partenza, secondo fonti di più Paesi coinvolti nella sua redazione, prevede un «accordo in due fasi» con un «quadro interinale» destinato a essere sostituito da una «"intesa generale» entro sei mesi. Gli elementi del «quadro interinale» - Interim Framework Agreement - sono tre. Primo: l’Iran congela la produzione di uranio arricchito al 20 per cento. Secondo: l’Iran non attiva nuove centrifughe per arricchire l’uranio al 3,5 per cento. Terzo: l’Iran accetta un più rigido sistema di ispezioni internazionali nei propri siti nucleari. In cambio l’Iran ottiene una riduzione delle sanzioni su esportazione di greggio e di commercio in petrolchimici, auto, oro e componenti di aerei per un valore stimato di almeno 20 miliardi di dollari.

I nodi da sciogliere

La seduta plenaria a Ginevra fra i rappresentanti dei 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania) e l’Iran viene aggiornata dopo appena 10 minuti lasciando spazio ai bilaterali per tentare di sciogliere numerosi nodi. Anzitutto il diritto di arricchire uranio che l’Iran rivendica e Washington non vuole riconoscere perché la formula di compromesso proposta da Teheran - «abbiamo il diritto ma gli altri possono non riconoscerlo» - solleva obiezioni. Collegato a tale «diritto» c’è la questione delle centrifughe di ultima generazione IR-2m che Teheran possiede, non ha ancora attivato e non si trova obbligata dalla bozza a consegnare o distruggere. Poiché, secondo il rapporto dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) del 14 novembre, l’Iran possiede 196 kg di uranio arricchito al 20 per cento - 10 in più di agosto - e per confezionare un’atomica ne servono 220-250 kg il traguardo potrebbe essere superato con poche settimane di attività delle nuove centrifughe.


Leggi anche il dossier dell'ISPI

martedì 12 novembre 2013

Negoziati Nucleare: Cosa Non Ha Funzionato? (da ilFoglio.it)

​Ci sono due versioni sul fallimento dei negoziati nucleari con l’Iran a Ginevra. Il Wall Street Journal e il New York Times scrivono che l’impossibilità di raggiungere un accordo è da imputare all’Iran, che ha preteso troppo. A un certo punto, spiegano fonti diplomatiche, c’è stata l’impressione che si fosse vicinissimi all’intesa, che le interminabili sessioni a porte chiuse all’Intercontinental Hotel stessero per avere un risultato, che soltanto poche parole di differenza ci separassero dagli iraniani, poi i negoziati sono naufragati: in particolare, è stata l’insistenza da parte del governo di Teheran a vedere riconosciuto il suo “diritto all’arricchimento dell’uranio”, senza peraltro specificare a quale grado (l’uranio a basso grado di arricchimento serve per uso civile, ma oltre una certa soglia può essere utilizzato per fare un’arma atomica). E’ il punto su cui Israele sta facendo lobbying al contrario: il premier Benjamin Netanyahu sostiene che il processo di arricchimento dovrebbe essere trasferito all’estero, per poter essere meglio controllato: l’uranio sarebbe arricchito fuori e poi consegnato all’Iran. Washington ha una posizione intermedia, vorrebbe discutere a quali condizioni e con quali tempi consentire all’Iran di arricchire, ma considera prematuro ed eccessivo parlare di “diritto” iraniano. Non si tratta dunque di un colpo di mano dei francesi, dice il dipartimento di stato americano, ma di una decisione presa in comune dal gruppo dei Cinque più uno per non cedere alle condizioni troppo ambiziose poste da Teheran.
 
Foreign Policy scrive che il fallimento è stato voluto dalla Francia. Il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, ha in effetti violato il protocollo sabato pomeriggo, parlando alla radio dei negoziati e dicendo in buona sostanza che la Francia non ci sarebbe cascata. I francesi hanno una conoscenza molto più particolareggiata rispetto agli altri del programma atomico iraniano, anche perché hanno contribuito a fondarlo. In particolare, il governo di Parigi vuole che sia fermata la costruzione del reattore al plutonio di Arak.
Quel reattore è in bilico sulla linea dell’irreversibilità (un concetto chiave nei negoziati con l’Iran). Arak in teoria entrerà in funzione nel 2014 e potrà produrre plutonio a partire dal 2015 e l’Iran non ha ancora un impianto per convertire quel plutonio all’uso militare, quindi sembra esserci ancora margine per trattare. I francesi sostengono però che una volta in funzione quel reattore non potrà essere bombardato, perché il plutonio si disperderebbe e sarebbe una catastrofe per la popolazione. Per questo insistono sullo stop preventivo. 

domenica 10 novembre 2013

U.S. officials en route to Israel for urgent discussion on Iran (HaAretz)

A delegation of high-ranking U.S. officials is set to arrive in Jerusalem on Sunday to update the Netanyahu government on the weekend talks in Geneva about Iran’s nuclear program.

The delegation will be led by Wendy Sherman, the U.S. undersecretary for political affairs, who heads the U.S. negotiating team on the matter.

The talks between Iran and six world powers began Thursday and continued into Saturday, in an unscheduled extension.

Sherman is expected to brief her Israeli counterpart on the talks in Geneva and on the gaps that remain. The U.S. delegation is due to meet with Israel’s national security adviser, Yossi Cohen, and with intelligence officials as well as senior officials in the foreign affairs and defense ministries.

U.S. Secretary of State John Kerry will be flying to Abu Dhabi to meet with Sheikh Abudllah bin Zayed Al Nahyan, the foreign minister of the United Arab Emirates, to discuss the Iran negotiations. Along with Saudi Arabia and Bahrain, the UAE is a staunch opponent of an agreement between Iran and the world powers. According to foreign news reports, Israel has been working with the UAE on the Iran issue.(...)

venerdì 8 novembre 2013

Accordo con l'Iran?

Un lancio di agenzia annunciato pochi istanti fa su la7 parlava di un imminente accordo sul nucleare fra USA e Iran (poche ore fa c'era stata la dichiarazione del Ministro degli Esteri iraniano e gli USA avevano parlato di un "primo accordo"). 

Notizie da prendere con le pinze, e anche l'eventuale accordo sarebbe da valutare con attenzione: probabilmente - se accordo sarà - sarà appunto una prima tappa (per quanto importantissima) di un percorso comunque ancora lungo. 

Non deve stupire, comunque, più di tanto, la cosa: pochissimi giorni fa si è avuto notizia di contatti fra Iran, Israele e vari stati arabi sull'argomento (e d'altro canto, al di là della tensione ufficiale, è evidente che - più o meno direttamente - Israele e Iran si stanno "tenendo in contatto" da tempo, soprattutto in una fase storica in cui il mediatore americano spesso non è stato percepito come un interlocutore adeguato)

Per fare un punto della situazione, in attesa di dettagli, segnalo l'articolo di AffarInternazionali, apparso in questi giorni.

FMM


Barack Obama e Hassan Rouhani. Per la prima volta in oltre trent’anni, sembra questa la coppia vincente in grado di battere l’ostilità di Washington e Teheran per raggiungere un accordo, quello sul nucleare iraniano, che darebbe respiro all’economia iraniana e farebbe incassare agli statunitensi un significativo successo sul piano della non-proliferazione e della stabilità regionale.



La chiave per una soluzione della disputa sta nei dettagli di un accordo che dovrebbe permettere a Obama di affermare credibilmente di avere allontanato il rischio di un Iran nucleare e agli iraniani di salvare la faccia, concedendo loro una limitata - e internazionalmente vigilata - capacità di arricchimento dell’uranio. Al centro della disputa vi è proprio quest’ultimo procedimento, necessario tanto alla produzione di energia elettrica quanto a quella di materiale per testate. (...)

sabato 19 ottobre 2013

I Rischi del Rifiuto dell'Arabia Saudita

L'Arabia Saudita rinuncia al seggio nel Consiglio di Sicurezza. La notizia è al tempo stesso interessante ed inquietante. Perché in questi anni l'ONU di fatto è stata superata su molti dossier (vedi la guerra contro l'Iraq di George Bush junior), ma in qualche modo la comunità internazionale tentava di tornare in quel luogo di discussione, per quanto debole e bistrattato. 

Insomma, una delegittimazione de facto, che però tentava sempre di salvare le apparenze, salvare il fatto che l'ONU dovesse rimanere - alla fine dei giochi, magari, ma comunque in qualche modo presente - il luogo deputato in cui discutere le cose del mondo, almeno le principali. In questo senso il rifiuto di Riyad rischia di essere un precedente pericoloso, scivoloso. Utilizzabile anche da altri stati. 

Il rischio è a due facce, pero; perché vale anche per l'Arabia Saudita che potrebbe - se non gioca bene questa carta, anche mediatica - mettersi in un angolo: acquisire visibilità per poco, ma poi non avere forza politica (che è cosa diversa dalla forza economica, che c'è, e con la quale Riyad sta giocando pesantemente per esempio sulla piazza egiziana) per far fruttare questa posizione. In ogni caso, un problema del quale il mondo - e gli Stati Uniti, il cui operato è sempre più discutibile, da questo punto di vista - deve occuparsi.

FMM

Mentre la prima positiva tornata di colloqui sul nucleare iraniano comincia a far credere all’occidente che un accordo con Teheran sia davvero possibile, Riad sbatte la porta in faccia all’Onu rinunciando al seggio appena ottenuto al Consiglio di Sicurezza in polemica con la politica internazionale sulla Siria a suo dire fallimentare. 

Il regno saudita non ha mai fatto mistero di aver mal digerito l’intesa tra Mosca e Washinton sulla distruzione delle armi chimiche di Assad, convinto che si tratti di un escamotage russo per regalare tempo al regime contro cui si battono i ribelli armati in gran parte proprio da Riad. Il nuovo corso inaugurato dal neoeletto presidente Rohani poi, ha moltiplicato i motivi di apprensione allineando sempre più la posizione di re Abdullah a quella israeliana, una comunanza d’interessi e strategie che si estende dall’Egitto (entrambi i paesi guardano con favore al golpe militare che ha deposto Morsi), a Gaza (dove Hamas non è benvisto da nessuno dei due), fino ovviamente all’Iran, di cui l’Arabia Saudita teme le mire espansionistiche nella regione almeno quanto Israele contrasta le ambizioni nucleari. 

Adesso, a sorpresa, il gran rifiuto.(...)

giovedì 3 ottobre 2013

Iran, ucciso il capo della cyberwar

WASHINGTON - Due colpi al cuore. Il cadavere abbandonato in un’area boscosa a Karay, a nord ovest di Teheran. Una vittima eccellente: Mojtaba Ahmadi, capo del dipartimento di cyberwar in Iran. La notizia apparsa sul sito Alborz, vicino ai pasdaran, è stata rilanciata dal quotidiano Daily Telegraph. Ahmadi era uscito sabato scorso per recarsi al lavoro, ma in ufficio non c’è mai arrivato. Probabilmente è stato intercettato dai killer e poi eliminato, quindi il suo corpo è stato abbandonato nelle campagne di Karay.

UCCISO COME GLI SCIENZIATI - Per la polizia i responsabili dell’omicidio sarebbero due persone a bordo di una moto. I guardiani della rivoluzione hanno messo in guardia sul lanciarsi in speculazioni su una eventuale pista “politica”, però non sarebbe una sorpresa se l’omicidio fosse opera di oppositori del regime o di un servizio segreto avversario. Prima di Ahmadi, a partire dal 2007, sono stati uccisi 5 scienziati legati ai programmi militari iraniani, in particolare quelli dei settori nucleare e missilistico. Azioni attribuite al Mossad. Il modus operandi, con i sicari in moto, ricorda quello usato negli attacchi precedenti, anche se in quelle occasioni furono usate delle bombe magnetiche.

http://www.corriere.it/esteri/13_ottobre_03/iran-ucciso-capo-cyberwar-ipotesi-oppositori-o-servizi-stranieri-9cfa8c1c-2bb4-11e3-93f8-300eb3d838ac.shtml

giovedì 26 luglio 2012

Pronta una "super bomba"?

Dalla pagina FB di Guido Olimpio, riporto un post che comunque - ferma restando indiscutibile la serietà dell'ottimo giornalista - consiglio di prendere con cautela, nel senso di tenere presente che un "avviso" può essere mandato proprio per evitare di utilizzare la forza che si dice pronta. Quindi: notizia per certi aspetti molto interessante; da capire e valutare con accortezza le possibili conseguenze.
FMM


Avviso a Siria e Iran
L'Us Air Force ha rivelato che la nuova superbomba capace di distruggere bunker è pronta. In caso di necessità l'azione è in grado di usarla. La precisazione è importante perché si pensava che fosse ancora in via di perfezionamento. O almeno questo aveva detto il segretario alla Difesa americano Panetta.
La bunker buster è stata concepita per colpire installazioni costruite in profondità e ben protette. Dunque un ordigno che sembra fatto a posta per neutralizzare impianti in paesi a rischio (Iran, Corea del Nord, Siria). 

lunedì 2 gennaio 2012

Un vero contenimento dell'Iran (Aspenia - dicembre 2011)

(...) Che fare, allora?  La questione nucleare è seria, anche se meno drammaticamente urgente di quanto qualcuno vorrebbe farci credere. Lo è per il suo potenziale di proliferazione regionale, e a più breve termine per una considerazione lineare: se non si riesce a fermare quella che sembra l’inesorabile avanzata iraniana verso una capacità nucleare militare, la prospettiva di un attacco israeliano potrebbe trasformarsi da possibile a probabile se non certa.

Ma non si tratta solo del nucleare. Il problema più generale è di come fare dell’Iran “un paese normale” – non tanto nel senso della democrazia, che alla luce della prassi sia americana che europea non sembra sia considerata un requisito necessario per la coesistenza e gli scambi economico-commerciali – ma una nazione normalmente inserita nella comunità internazionale. In altre parole, come far uscire l’Iran dalla sua condizione di Paese-paria soggetto a isolamento e sanzioni.

Per disgrazia, la “questione iraniana” viene troppo spesso impostata in termini alternativi da falchi militaristi da una parte (che dipingono l’Iran come un Paese che consapevolmente si muove verso un orizzonte apocalittico) e da colombe dall’altra (che pensano che un onesto dialogo basato sul riconoscimento delle ragioni dell’altro potrebbe di per sè risolvere le attuali tensioni).

È come se ci fossimo tutti dimenticati di come una sfida ben più potente e globale – quella del sistema sovietico – e’ stata affrontata e poi vinta (o forse sarebbe più corretto dire persa dal Comunismo sovietico). È come se ci fossimo dimenticati che esiste un’alternativa fra guerra e appeasement.

Netanyahu e i neo-con americani agitano lo spettro di “Monaco” e tracciano artificiosi paralleli fra Iran sciita e Germania nazista, sottolineando come quest’ultima fu fermata solo con la guerra; ma evitano accuratamente di fare riferimento all’altra grande sfida, quella comunista, e di menzionare il fatto che l’URSS non è stata attaccata, e nemmeno isolata e colpita da sanzioni, ma è stata “contenuta”.

La pubblicazione, proprio nelle ultime settimane, di una monumentale biografia di George Kennan opera dello storico John Lewis Gaddis, dovrebbe indurci a rivisitare una pagina di straordinario interesse della storia del XX secolo.  Il “containment”, un’idea brillantemente proposta da Kennan fin dal 1946 (con il famoso “telegramma lungo”) e poi elaborata l’anno successivo nell’articolo di Foreign Affairs a firma “Mr. X”,  non venne accettata subito e da tutti, dato che dovette fare i conti (e continuo’ a doverli fare nei decenni successivi) con la linea del “roll-back” – una strategia alternativa concepibile solo in una prospettiva di uso della forza.

Dire “containment” sembra evocare lo spettro della Guerra Fredda, un lungo periodo comunque caratterizzato da tensioni, rischi di scontro nucleare, azioni destabilizzanti in teatri secondari (cioè non in Europa, ma nel Sud-est asiatico e in America Latina: Vietnam, Cuba).  Dovremmo invece non solo esaminare il quadro complessivo delle vicende storiche dal 1945 al 1991 (fine dell’URSS), ma soprattutto fare riferimento alla “interpretazione autentica” del containment che possiamo ricavare dalle posizioni politiche, e non solo intellettuali, formulate da George Kennan praticamente fino al momento della sua morte nel 2005.

Containment non significa infatti unicamente impedire all’avversario di tradurre la sua sfida sul terreno dell’espansione territoriale e della conquista militare, ma anche ingaggiarlo su terreni (da quello economico a quello culturale) su cui si sa che, neutralizzata la semplice forza, tutti gli altri fattori giocano in nostro favore. Già nella primissime versioni del containment, infatti, Kennan prospettava la sconfitta e il tramonto della sfida sovietica, incapace di competere con l’America e in generale con l’Occidente.(...)

venerdì 30 dicembre 2011

Libia e Iran: La Posta In Gioco

La Libia torna al centro dell'attenzione di tutti. La scelta del governo di transizione di ridiscutere i contratti con l'Eni (o forse alcune "implicazioni sociali", come parrebbe da una nota dell'azienda) non può certo sorprenderci, soprattutto alla luce delle tensioni che si sono riaperte (non si sono mai chiuse, in realtà) sul "fronte" iraniano. Invitando a leggere alcuni articoli di approfondimento, faccio solo due riflessioni personali: 

(1) in Libia la sciagurata guerra di liberazione da Gheddafi ha creato una situazione di instabilità che non si è affatto risolta (si veda per esempio la "piccola" notizia della recente chiusura delle frontiere - oggi riaperte - fra Tunisia e Libia): la visita di Leon Panetta è il segno di una grande preoccupazione rispetto alle possibilità di riprendere effettivamente il controllo del Paese e gli Stati Uniti - si badi bene, attraverso contractor - tentano di collaborare, ben consapevoli che una crisi sul Mar mediterraneo sarebbe letale per tutta l'area.

(2) Sperando di non essere smentito dai fatti che accadranno nei prossimi giorni, la mia impressione è che il braccio di ferro sullo Stretto di Hormuz sia una nuova "onda" di tensione che non passerà ai fatti, salvo "perdita di controllo" da parte di uno degli attori; che arrivi una portaerei USA in quella zona non deve necessariamente preoccuparci: come si vede da una notizia che riporto più sotto, già da tempo quel tratto di mare è "sotto sorveglianza", ed è già da sempre in stato di "pre-allarme". Eventuali raid - di cui spesso si parla, in particolare per quanto riguarda possibili piani di attacco israeliani - non saranno preannunciati da "tensioni" o "dichiarazioni": verranno eventualmente (speriamo di no) messi in atto  senza ultimatum. Al momento, il blocco dello stretto non sembra convenire neanche a Teheran, ma probabilmente oltre al fattore esterno conta nelle decisioni iraniane un fattore di battaglia politica interna.

Francesco Maria Mariotti


Più dei temi finanziari, gli incontri di Panetta con il ministro della Difesa, Osama Jouili e il premier Abdel Rahim al-Keib sono stati incentrati sulla difficile situazione della sicurezza nel Paese nordafricano che, a due mesi dalla morte di Gheddafi, sembra sprofondato nel caos con oltre 125mila miliziani ancora armati divisi in una settantina di eserciti tribali.
Solo nell'ultima settimana si sono verificati scontri tra milizie rivali in diverse aree del Paese, protagonisti soprattutto i miliziani di Zintan che hanno occupato l'aeroporto militare Mitiga, vicino a Tripoli, e continuano a tenere prigioniero Saif al-Islam, il secondogenito di Gheddafi catturato nel Sud il 19 novembre e mai consegnato al Consiglio nazionale di transizione.


Ecco perché Tripoli vuole rivedere i contratti con l'Italia perché si è resa conto di avere un margine negoziale maggiore in un contesto internazionale che sta diventando sempre più incandescente, soprattutto dopo le minacce iraniane di bloccare lo stretto di Hormuz.
Gli Stati Uniti premono con forza per le sanzioni petrolifere agli ayatollah: Teheran dipende dal petrolio in maniera determinante. Il paese mediorientale ha incassato entrate petrolifere per 73 miliardi di dollari nel solo 2010, pari all'80% di tutto il suo export e a metà delle entrate dell'erario.


Un portavoce della compagnia italiana ha precisato che i contratti che il nuovo governo libico ha intenzione di rivedere non hanno nulla a che fare con il petrolio o con il gas naturale, ma si tratta di iniziative in materia sociale. «Non abbiamo dettagli - ha detto - ma potrebbe trattarsi della costruzione di infrastrutture, come un ospedale o una palestra: in ogni caso attività complementari a scopo non di lucro». Non sembrano a rischio, quindi, i sostanziosi contratti petroliferi Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/LWDaW 

L’Iran è pronto a bloccare lo Stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico all’Oceano Indiano, se gli Stati Uniti e parte dell’Occidente imporranno nuove sanzioni economiche. Certo, privare il mondo dei 15,5 milioni di barili al giorni di Hormuz sarebbe catastrofico, in un periodo di crisi come quello attuale. Ma in realtà oggi il mondo si può permettere di rinunciare al petrolio iraniano (circa 2,4 milioni di barili al giorno), vista l’entrata in produzione dell’Iraq e il rapido ritorno libico. Insomma  Teheran sta vedendo sciogliersi la propria posizione geostrategica. 




(notizia del 2006, nota FMM) 
Un sottomarino nucleare statunitense si è scontrato con una petroliera giapponese nel Mar Arabico. Da entrambe le imbarcazioni non sono stati segnalati nè feriti nè danni di rilievo, secondo quanto riferito stamani a Tokyo dal ministero degli Esteri nipponico.

In base alle prime ricostruzioni, le due imbarcazioni si sono scontrate attorno alle 4:15 ora del Giappone (le 20:15 di ieri in Italia) nella zona dello stretto di Hormuz, nel Golfo, dove si è verificata una collisione tra la prua del sommergibile americano e la poppa della nave nipponica. Le cause dell'incidente restano ancora ignote.(...)

mercoledì 28 dicembre 2011

Lo Stretto di Hormuz


Ai tempi dello shah, prima della caduta dei Pahlavi nel 1979, l'Iran era il gendarme del Golfo e la fedele sentinella dell'Occidente nello Stretto di Hormuz, un braccio di mare largo 30 chilometri: nel 1973 Teheran, per evitare sorprese agli approvvigionamenti mondiali di petrolio, mandò persino un agguerrito corpo di spedizione in Oman per stroncare una ribellione di ispirazione maoista. Da 32 anni la repubblica islamica vuole essere riconosciuta come la potenza egemone del Golfo e insieme ai programmi nucleari può agitare lo spauracchio della chiusura dello Stretto: (...)


(...)Un parlamentare della commissione per la Sicurezza nazionale, Zohreh Elahian, lunedì aveva detto anche lui che “Le manovre della marina nel Golfo persico e nel mare dell’Oman dimostrano la potenza e la supremazia dell’Iran sulle acque della regione” e “i media occidentali ammettono che siamo in grado di chiudere lo Stretto di Hormuz, se fossimo costretti”. La minaccia era arrivata esplicitamente già a luglio da parte del comandante delle Guardie rivoluzionarie dell’Iran, Mohammad Ali Jafari, e ancora prima a febbraio da Ali Fadavi, capo delle forze navali delle Guardie rivoluzionarie (il grosso della marina è finito da tempo sotto il controllo dei pasdaran, il resto ha compiti residuali, da Guardia costiera).
La maggior parte del greggio esportato da Arabia Saudita, Iran, Emirati arabi uniti, Kuwait e Iraq – assieme a tutto il gas naturale del Qatar – passa attraverso il tratto largo meno di otto chilometri davanti alle coste iraniane. Gli Emirati, per aggirare il rischio di un blocco, hanno appena terminato la costruzione di un oleodotto che può saltare lo strettoia marina con un milione e mezzo di barili al giorno, la metà della sua produzione.
L’Iran teme l’arrivo nel 2012 di un nuovo round di sanzioni internazionali contro le sue esportazioni di petrolio, per colpa del programma atomico che le Nazioni Unite hanno definito “anche militare” e che il paese non ha intenzione di fermare. Per ora il progressivo accumularsi di misure internazionali ha colpito l’economia iraniana con durezza, ma le risorse naturali – gas e greggio – hanno evitato che fossero “crippling”, storpianti, come chiede il governo israeliano, e hanno protetto il regime. Il viceministro per il Petrolio, Ahmad Qalebani, ha anzi appena annunciato 17 nuovi contratti con partner anche stranieri prima della fine dell’anno iraniano (il 21 marzo 2012) per sfruttare nuovi giacimenti. Ma se le sanzioni investissero l’esportazione di greggio la pressione potrebbe essere insostenibile. (...)


martedì 27 dicembre 2011

Giappone-India un asse per la nuova Asia (da LaStampa)

(...) La sicurezza ha preso il primo posto nell'agenda regionale non solo in risposta all’ascesa della Cina, ma anche perché l'America e l'Occidente lasceranno una falla nel sistema di sicurezza asiatico quando ritireranno le loro truppe dall'Afghanistan, senza prima averlo pacificato. Forse ancora di maggiore importanza per la sicurezza a lungo termine, il rapporto Usa-Pakistan continua a peggiorare, mentre le relazioni dell’Iran con l'Occidente vanno di male in peggio, segnate da ultimo dall'invasione da parte della folla dell'ambasciata britannica a Teheran nel novembre scorso.

Poco a poco, iniziativa dopo iniziativa, molti dei poteri della regione stanno agendo per creare un quadro coerente di cooperazione allo scopo di migliorare la loro sicurezza. Per esempio, il governo laburista australiano ha accettato di vendere uranio naturale all’India, invertendo una politica in vigore fin da quando l’India aveva sviluppato il suo arsenale nucleare. Quasi contemporaneamente, il presidente americano Barack Obama ha annunciato lo stazionamento di marines americani nel Nord dell'Australia. Nessuno ha esplicitamente collegato le due mosse, ma sono probabilmente correlate strategicamente, dal momento che l'Australia mira a promuovere i suoi legami sia con gli Stati Uniti sia con l’altro gigante asiatico, l’India.

India e Stati Uniti hanno inoltre intensificato i loro rapporti strategici con il Giappone, non solo a livello bilaterale, ma anche in un’inedita versione trilaterale, che secondo il vicesegretario di Stato William Burns potrebbe «rimodellare il sistema internazionale». Burns, come gran parte dell’establishment americano che si occupa di politica estera, ora pensa che l'influenza regionale dell'India sia diventata globale; la sua strategia del «Guardare a Est», annunciata all'inizio di quest'anno, viene tradotta in politiche di «Azioni a Est».(...)