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mercoledì 19 marzo 2014

Ungheria, Ucraina, Crimea, Russia, URSS (Ferenc Koszeg su laStampa)

Il 23 ottobre 1956, all’inizio della protesta degli studenti ungheresi che nel giro di poche settimane sarebbe stata schiacciata dai carri armati sovietici, Ferenc Koszeg aveva 17 anni: “Ero entusiasta della rivolta, ero già un attivista politico, frequentavo il Circolo Patofik. Ricordo una riunione a giugno di quell’anno, c’erano migliaia di persone, intellettuali comunisti critici del modello sovietico, giornalisti che volevano la libertà di stampa, scrittori che poi sarebbero finiti in cella, c’erano speranza e ottimismo. Eravamo tutti lì, in quell’edificio dove adesso c’è una banca, allora era un palazzo militare”. Kszek mostra un’elegante struttura mitteleuropea dall’altra parte della strada e poi torna a sedersi alla scrivania dello studio pieno di libri, Beethoven, Chagall, Bela Bartok, Lukacs, Borges, Eisenstein, “Il Pendolo di Foucault” di Umberto Eco, l’ultimo rapporto di Amnesty International. Accanto al computer acceso e al volume di Van Istvan, “In Memoriam”, ci sono i quotidiani degli ultimi giorni, la crisi ucraina, la Crimea, la sfida di Putin. Presente e passato si sovrappongono per lui che nell’ultimo mezzo secolo ha visto la prigione, la clandestinità quando stampava in proprio il primo samizdat ungherese (i giornali antiregime), la caduta del muro di Berlino e, nello stesso anno, la nascita della sua organizzazione non governativa, l’Hungarian Helsinki Commitee, un centro studi sui diritti umani. 

A Budapest c’è chi in questi giorni teme che dopo l’Ucraina possa toccare all’Ungheria. Vede davvero questo rischio?

“Il problema non è se Putin possa occupare o meno l’Ungheria. Il problema è che il nostro governo sta cercando un’alleanza con la Russia per aggirare le critiche dell’Europa sui diritti umani e sul tentativo in corso di distruggere la cornice istituzionale dello Stato di diritto. L’aspetto interessante è che il governo ungherese vorrebbe rimandare indietro le lancette della storia non nel nome del comunismo ma della destra, sia pure una destra politicamente assai simile al comunismo. La gente ha la memoria corta, ma dovrebbe ricordare che il nome originario del fascismo era nazionalsocialismo”.  

Ci racconti il suo 1956.

”Cominciò come una grande manifestazione di solidarietà con la Polonia che si era ribellata a Poznan e si trasformò subito in una cosa nostra, gridavamo ”Rakosi vattene” contro il dittatore ungherese. La sera del 23 ottobre c’erano già spari per le strade, c’erano ragazzi che fronteggiavano i tank, io tornai a casa ma la gente occupò l’edificio della radio. Dopo tre giorni sembrò che i russi se ne fossero andati, che ci fosse un accordo, che con Imre Nagy come premier avremmo organizzato libere elezioni. Invece i russi tornarono. Ero uno studente di letteratura allora, attaccavo sui muri volantini fatti a mano con scritto ”Russia via”. Mi arrestarono, fui fortunato perchè dopo aver provato invano ad arruolarmi come spia mi trattennero solo due mesi. Dentro però imparai molto, capii per esempio quante diverse motivazioni ci fossero dietro la protesta anti-sovietica: ero convinto che la rivolta fosse appannaggio dei democratici ma in carcere mi accorsi che accanto a veri democratici c’erano fascisti con la f maiuscola. Ci ho ripensato in questi giorni seguendo i fatti di Kiev”.   (...)

Dopo il referendum in Crimea la situazione sembra peggiorare di ora in ora. A cento anni dallo scoppio del primo conflitto mondiale potremmo ritrovarci in guerra?

”Una terza guerra mondiale è sempre possibile, soprattutto considerando che se durante la guerra fredda la deterrenza ci metteva al riparo oggi siamo paradossalmente più scoperti. Il rischio vero in Ucraina è che la storia non finisca in Crimea ma dilaghi in una guerra civile tra la parte occidentale del paese e quella orientale. Onestamente non sono molto ottimista. L’Ucraina è grande e povera, l’Europa, anche se volesse, non potrebbe mantenerla e garantirle un cambio nello standard di vita mentre la Russia può almeno provvedere all’energia...”

 Cosa è andato male nel rapporto tra l’Europa e i suoi connazionali, che sembrano così delusi da Bruxelles da rimpiangere il passato?

”Il problema principale è il lavoro, molti posti di lavoro sono svaniti, le aziende sono state privatizzate e i nuovi padroni vogliono solo impiegati produttivi. Almeno un milione di persone sono rimaste disoccupate nei primi anni ’90 e oggi è facilissimo essere licenziati ma difficilissimo essere riassunti, specie se hai più di 40 anni. Nessuno ricorda però che sotto il socialismo la piena occupazione era una farsa perché chi non lavorava era costretto a fare cose come pulire le strade per pochi soldi e poi magari andare a dormire in prigione. Oggi in realtà la retorica del governo ungherese va in quella direzione, se non hai lavoro devi accettare i lavori comunali pagati meno del minimo salariale. E’ il governo a pompare la propaganda della colonizzazione da parte dell’Europa. A volte penso che Bruxelles ci dovrebbe sospendere dall’Unione, farci provare cosa significa stare fuori dal mercato europeo, dalla libertà di movimento, lasciarci alla nostra indipendenza per farci capire. Alla fine però tra la disillusione per l’Europa e l’esperienza del comunismo russo non ci sarà nostalgia che tenga, neppure chi si lamenta ha davvero voglia di tornare dai russi”.

domenica 3 novembre 2013

Dalle esercitazioni alla politica (da HuffingtonPost.it)

Per assicurare il mantenimento di un'adeguata prontezza operativa e il costante addestramento dei quadri e delle strutture di comando, la NATO effettua su base routinaria una serie di esercitazioni fra le quali una delle più importanti è quella, annuale, che si sta giocando in questi giorni, per la 'certificazione' dei comandi che, a rotazione, costituiscono la struttura portante della NRF, la forza di reazione rapida, che deve essere in grado di intervenire con un brevissimo preavviso in caso di necessità di qualsiasi tipo.
Questa esercitazione, di tipo 'per posti di comando' e quindi senza truppe sul terreno, per parecchi anni è stata effettuata su un tipico scenario di peace-keeping, creando un ambito geografico ricalcato sul Corno d'Africa, con qualche variazione orografica, su cui insistono paesi di fantasia, cui vengono dati nomi pittoreschi e ai quali vengono attribuiti sistemi politici e atteggiamenti utili rendere realistica l'esercitazione stessa. (...)
Ci troviamo quindi nella NATO, pur con diverse sfumature, sostanzialmente con due aree ben differenziate: coloro che con la dissoluzione dell'URSS considerano definitivamente tramontata l'ipotesi di una minaccia dei tipo classico proveniente da est e quelli che invece continuano a ritenere ancora incombente il rischio che Mosca si faccia prendere dalla tentazione di riguadagnare, anche con la forza, gli ambiti geografici perduti negli anni '90. Per questi ultimi paesi il valore principe dell'Alleanza rimane la garanzia di una piena solidarietà in caso di aggressione, come stabilito nel ben noto articolo 5 del Trattato, garanzia che non deve essere annacquata da quelle che, a loro avviso, sono illusioni circa le reali intenzioni dell'ingombrante vicino.
Proprio in base a queste considerazioni, nel recente passato a Bruxelles si è ampiamente dibattuto sull'opportunità di cambiare radicalmente lo scenario esercitativo descritto all'inizio, e alla fine si è presa la decisione di costruire un nuovo scenario, basato sul Baltico e sulla Scandinavia, di tipo classico, in modo da poter creare le condizioni per un'esercitazione di reazione ad un'aggressione convenzionale ed un impiego delle forze secondo schemi tradizionali: invasione, contenimento, ripristino. (...) 

Perché se è vero che qualcuno ne trae rassicurazioni circa la concreta solidarietà dell'Alleanza, pronta ad intervenire per la difesa del proprio territorio, all'esterno si può dare la sensazione che per la NATO la contrapposizione Est-Ovest sia ancora il punto focale delle proprie attività, con ciò alimentando una permanente atmosfera di sospetto.

Tutto ciò non agevola un franco confronto e contribuisce a vanificare gli sforzi di chi vede, in prospettiva, in una aperta cooperazione con Mosca una concreta possibilità di dare vita ad una governance globale efficace, in grado di attenuare le turbolenze che travagliano una parte importante del mondo. Ma la voce del Nord è molto forte, molto ascoltata a Washington, e per contrastarla, valorizzando gli interessi vitali connessi con la situazione del Mediterraneo, serve un'azione autorevole, continua, sottolineata fino alla noia da parte dei Paesi che vi insistono: in primis il nostro.


lunedì 2 gennaio 2012

Un vero contenimento dell'Iran (Aspenia - dicembre 2011)

(...) Che fare, allora?  La questione nucleare è seria, anche se meno drammaticamente urgente di quanto qualcuno vorrebbe farci credere. Lo è per il suo potenziale di proliferazione regionale, e a più breve termine per una considerazione lineare: se non si riesce a fermare quella che sembra l’inesorabile avanzata iraniana verso una capacità nucleare militare, la prospettiva di un attacco israeliano potrebbe trasformarsi da possibile a probabile se non certa.

Ma non si tratta solo del nucleare. Il problema più generale è di come fare dell’Iran “un paese normale” – non tanto nel senso della democrazia, che alla luce della prassi sia americana che europea non sembra sia considerata un requisito necessario per la coesistenza e gli scambi economico-commerciali – ma una nazione normalmente inserita nella comunità internazionale. In altre parole, come far uscire l’Iran dalla sua condizione di Paese-paria soggetto a isolamento e sanzioni.

Per disgrazia, la “questione iraniana” viene troppo spesso impostata in termini alternativi da falchi militaristi da una parte (che dipingono l’Iran come un Paese che consapevolmente si muove verso un orizzonte apocalittico) e da colombe dall’altra (che pensano che un onesto dialogo basato sul riconoscimento delle ragioni dell’altro potrebbe di per sè risolvere le attuali tensioni).

È come se ci fossimo tutti dimenticati di come una sfida ben più potente e globale – quella del sistema sovietico – e’ stata affrontata e poi vinta (o forse sarebbe più corretto dire persa dal Comunismo sovietico). È come se ci fossimo dimenticati che esiste un’alternativa fra guerra e appeasement.

Netanyahu e i neo-con americani agitano lo spettro di “Monaco” e tracciano artificiosi paralleli fra Iran sciita e Germania nazista, sottolineando come quest’ultima fu fermata solo con la guerra; ma evitano accuratamente di fare riferimento all’altra grande sfida, quella comunista, e di menzionare il fatto che l’URSS non è stata attaccata, e nemmeno isolata e colpita da sanzioni, ma è stata “contenuta”.

La pubblicazione, proprio nelle ultime settimane, di una monumentale biografia di George Kennan opera dello storico John Lewis Gaddis, dovrebbe indurci a rivisitare una pagina di straordinario interesse della storia del XX secolo.  Il “containment”, un’idea brillantemente proposta da Kennan fin dal 1946 (con il famoso “telegramma lungo”) e poi elaborata l’anno successivo nell’articolo di Foreign Affairs a firma “Mr. X”,  non venne accettata subito e da tutti, dato che dovette fare i conti (e continuo’ a doverli fare nei decenni successivi) con la linea del “roll-back” – una strategia alternativa concepibile solo in una prospettiva di uso della forza.

Dire “containment” sembra evocare lo spettro della Guerra Fredda, un lungo periodo comunque caratterizzato da tensioni, rischi di scontro nucleare, azioni destabilizzanti in teatri secondari (cioè non in Europa, ma nel Sud-est asiatico e in America Latina: Vietnam, Cuba).  Dovremmo invece non solo esaminare il quadro complessivo delle vicende storiche dal 1945 al 1991 (fine dell’URSS), ma soprattutto fare riferimento alla “interpretazione autentica” del containment che possiamo ricavare dalle posizioni politiche, e non solo intellettuali, formulate da George Kennan praticamente fino al momento della sua morte nel 2005.

Containment non significa infatti unicamente impedire all’avversario di tradurre la sua sfida sul terreno dell’espansione territoriale e della conquista militare, ma anche ingaggiarlo su terreni (da quello economico a quello culturale) su cui si sa che, neutralizzata la semplice forza, tutti gli altri fattori giocano in nostro favore. Già nella primissime versioni del containment, infatti, Kennan prospettava la sconfitta e il tramonto della sfida sovietica, incapace di competere con l’America e in generale con l’Occidente.(...)