(...) Che fare, allora? La questione nucleare è seria, anche se meno drammaticamente urgente di quanto qualcuno vorrebbe farci credere. Lo è per il suo potenziale di proliferazione regionale, e a più breve termine per una considerazione lineare: se non si riesce a fermare quella che sembra l’inesorabile avanzata iraniana verso una capacità nucleare militare, la prospettiva di un attacco israeliano potrebbe trasformarsi da possibile a probabile se non certa.
Ma non si tratta solo del nucleare. Il problema più generale è di come fare dell’Iran “un paese normale” – non tanto nel senso della democrazia, che alla luce della prassi sia americana che europea non sembra sia considerata un requisito necessario per la coesistenza e gli scambi economico-commerciali – ma una nazione normalmente inserita nella comunità internazionale. In altre parole, come far uscire l’Iran dalla sua condizione di Paese-paria soggetto a isolamento e sanzioni.
Per disgrazia, la “questione iraniana” viene troppo spesso impostata in termini alternativi da falchi militaristi da una parte (che dipingono l’Iran come un Paese che consapevolmente si muove verso un orizzonte apocalittico) e da colombe dall’altra (che pensano che un onesto dialogo basato sul riconoscimento delle ragioni dell’altro potrebbe di per sè risolvere le attuali tensioni).
È come se ci fossimo tutti dimenticati di come una sfida ben più potente e globale – quella del sistema sovietico – e’ stata affrontata e poi vinta (o forse sarebbe più corretto dire persa dal Comunismo sovietico). È come se ci fossimo dimenticati che esiste un’alternativa fra guerra e appeasement.
Netanyahu e i neo-con americani agitano lo spettro di “Monaco” e tracciano artificiosi paralleli fra Iran sciita e Germania nazista, sottolineando come quest’ultima fu fermata solo con la guerra; ma evitano accuratamente di fare riferimento all’altra grande sfida, quella comunista, e di menzionare il fatto che l’URSS non è stata attaccata, e nemmeno isolata e colpita da sanzioni, ma è stata “contenuta”.
La pubblicazione, proprio nelle ultime settimane, di una monumentale biografia di George Kennan opera dello storico John Lewis Gaddis, dovrebbe indurci a rivisitare una pagina di straordinario interesse della storia del XX secolo. Il “containment”, un’idea brillantemente proposta da Kennan fin dal 1946 (con il famoso “telegramma lungo”) e poi elaborata l’anno successivo nell’articolo di Foreign Affairs a firma “Mr. X”, non venne accettata subito e da tutti, dato che dovette fare i conti (e continuo’ a doverli fare nei decenni successivi) con la linea del “roll-back” – una strategia alternativa concepibile solo in una prospettiva di uso della forza.
Dire “containment” sembra evocare lo spettro della Guerra Fredda, un lungo periodo comunque caratterizzato da tensioni, rischi di scontro nucleare, azioni destabilizzanti in teatri secondari (cioè non in Europa, ma nel Sud-est asiatico e in America Latina: Vietnam, Cuba). Dovremmo invece non solo esaminare il quadro complessivo delle vicende storiche dal 1945 al 1991 (fine dell’URSS), ma soprattutto fare riferimento alla “interpretazione autentica” del containment che possiamo ricavare dalle posizioni politiche, e non solo intellettuali, formulate da George Kennan praticamente fino al momento della sua morte nel 2005.
Containment non significa infatti unicamente impedire all’avversario di tradurre la sua sfida sul terreno dell’espansione territoriale e della conquista militare, ma anche ingaggiarlo su terreni (da quello economico a quello culturale) su cui si sa che, neutralizzata la semplice forza, tutti gli altri fattori giocano in nostro favore. Già nella primissime versioni del containment, infatti, Kennan prospettava la sconfitta e il tramonto della sfida sovietica, incapace di competere con l’America e in generale con l’Occidente.(...)
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