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giovedì 17 marzo 2022

Rischio sul fianco Sud (Formiche.net)

"Il rischio è quello di una grande operazione distrazione. Mentre la guerra russa in Ucraina scuote l’Europa sul fianco Est, i riflettori del mondo si spengono sul fianco Sud. E invece anche a Sud, nel Mediterraneo allargato, il bacino strategico che va da Gibilterra all’Iran, l’onda lunga della guerra si fa sentire. A suonare un campanello d’allarme è il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare europeo (...)"

 https://formiche.net/2022/03/ucraina-minaccia-sud-graziano/

lunedì 28 gennaio 2019

Migranti: le guerre lampo che non funzionano, l'opposizione che non convince

Ho raccolto alcuni articoli reperiti su varie fonti; mi sembra riassumano bene la difficoltà politica di questa fase, fra azioni governative poco utili (se non addirittura dannose per la sicurezza e gli interessi italiani) e un'opposizione poco convincente, che affronta la questione migrazione con argomenti e toni che rischiano di sembrare solo "moralistici", a tratti contraddittori, e - temo - alla fine controproducenti. 

Sullo sfondo, principe tra le altre cose, la questione libica, mai in pace dopo la guerra senza orizzonte del 2011, con una strada diplomatica sempre più difficile, con il dubbio - per quel poco che comprendo - che il coinvolgimento del nostro paese debba passare prima o poi attraverso nuovi interventi militari, o - forse più probabile - attraverso la delega ad altri (il generale Haftar? il figlio di Gheddafi?) che possano "unificare" il paese (se ancora possibile). 

Qui trovate estratti degli articoli; ovviamente è consigliato leggere i testi integrali.
Spero possano essere d'aiuto.

Francesco Mariotti

"(...) La forza di Salvini sta dunque qui, nello strappo «barbarico» che lo spinge dove la sinistra non osa. Come con l’azzardo estremo della chiusura (nominale) dei porti, che ha svelato tanta ipocrisia europea e che però si sta riproponendo in queste ore con la nuova odissea di una nave Sea Watch e 47 profughi, così il vicepremier leghista strappa sui Cara. Solo che da qui cominciano i problemi. Perché chiudere Castelnuovo di botto, con un blitzkrieg, è un’avventura sciagurata in quanto, oltre a colpire diritti soggettivi, mette per strada almeno un quinto degli ospiti. La pattuglia degli Invisibili si ingrossa ulteriormente e le cose andranno peggio nei prossimi mesi con la cacciata progressiva dai centri di chi non ha più la protezione umanitaria ma non può essere rimpatriato in mancanza di accordi coi Paesi d’origine: a migliaia (130 mila in due anni secondo l’Ispi) finiranno nel limbo dei né espulsi e né accolti, in mano alla criminalità.

Dunque la forza di Salvini è anche la sua debolezza, la filosofia della guerra lampo lo imprigiona. Temendo di essere raggiunto da problemi insolubili prima di incassare il dividendo elettorale promesso dai sondaggi, il vicepremier procede per strattoni e fughe in avanti. Si tratta invece di cambiare paradigma: un problema che non riguarda solo lui o il suo governo ma noi europei nell'insieme. Lungimiranti come gattini ciechi, ci siamo ridotti in 500 milioni a litigare su chi apre o chiude i porti a qualche centinaio di profughi sulle navi Ong, mentre l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, ci spiegava che in tutto il pianeta 68,5 milioni di persone nel solo 2017 sono state in fuga da guerre e persecuzioni. La zona più critica di questo disordine mondiale è l’Africa: sono 29 gli Stati coinvolti in guerre o guerriglie e 259 le milizie dal Burkina-Faso al Sudan, dalla Nigeria al Congo alla Somalia e, ovviamente, alla Libia che, al momento, non è neppure più uno Stato (dunque non si capisce in base a quale finzione possa essere titolare di una zona Sars, Search and Rescue, dove infatti non si viene salvati ma condotti a morte). Il summit di Ouagadougou ha previsto che nel 2030, causa desertificazione, saranno 135 milioni i «profughi climatici» e di essi 60 milioni saliranno dall’Africa sub sahariana al Nord Africa e (infine) all’Europa. Di fronte a questi dati enormi appaiono assai miopi due visioni.

La prima, della destra sovranista, riduce migrazioni bibliche a epifenomeno di un fenomeno criminale: il traffico di esseri umani degli scafisti con la «complicità» di alcune Ong. Sostenere che fermate le Ong si fermino i viaggi è contraddetto dalla realtà (arrivano tuttora boat people a Lampedusa): l’unico risultato è tornare a prima del 2013 e di Mare Nostrum, con più naufragi e morti. La seconda visione, tuttavia, è altrettanto fuorviante, ed è quella irenica della sinistra altermondista: mentre accogliamo tutti basta aprire relazioni amichevoli, insegnare mestieri sul posto e sarà fatta, gli africani si riscatteranno da soli. Non è così. E non solo perché, ovviamente, non possiamo accogliere tutti, pena conflitti sociali ingestibili. Il primo passo, perché questo sogno di riscatto sia reale, è garantire dalle varie Boko Haram, Ansar al-Shari’a e milizie criminali assortite i nostri tecnici, maestri, medici: significa essere disposti a combattere. Il secondo passo è evitare che gli investimenti umanitari finiscano nei conti offshore dei mille dittatorelli locali. Per questo le liti con i tedeschi sulla missione Sophia o coi francesi sul loro presunto neocolonialismo sono nocive per tutti: il piano Marshall africano di cui parla Antonio Tajani ha senso solo se siamo in grado di seguire e proteggere quei miliardi di euro; un esercito comune europeo, domani, ci sarebbe necessario almeno quanto una vera unione bancaria.

Nell'immediato i soccorsi sono doverosi. Ma più doveroso ancora, per governi europei degni di questo nome, sarebbe mettere adesso le premesse perché, domani, 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare. (...)"


"La paura ci rende pazzi, come ha detto papa Francesco, ma ci porta anche all’insonnia della ragione. Per ogni migrante espulso, cacciato da un centro di accoglienza, a causa dell’abrogazione della protezione umanitaria, che lascia per strada chi aveva un permesso di soggiorno in scadenza o scaduto. La paura rende pazzi, ma c’è un ma. Chi per anni ha studiato le sbagliate o mancate politiche di accoglienza, fatte alla rinfusa, perché c’erano esseri umani da salvare e il resto veniva dopo, sempre dopo, ora, davanti al putiferio scatenato dal piano di chiusura dei grossi centri di accoglienza, storce un po’ il naso. Sono anni che organizzazioni autorevoli della società civile, Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) in primis, denunciano le falle di un sistema di accoglienza fatto di maxi centri per migranti. A discapito di un modello alternativo di accoglienza diffusa, in cui la distribuzione dei richiedenti asilo sui territori permette di non intaccare i fragili equilibri sociali e di garantire un’integrazione concreta e mirata.

Giusto opporsi alle norme che frenano quella parziale integrazione realizzata. Restare umani è un imperativo.

Ma in molti di quei centri che dovranno essere chiusi, che non dovevano essere creati, 6 mila persone nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e i nei Cas (137 mila persone), c’era già la manovalanza per le mafie locali e straniere. Ascolto da anni i racconti dei volontari, pazzi anche loro ma di rabbia, perché vedono la mala gestione di molti centri, dove si chiudono gli occhi davanti alla tratta delle nigeriane, al racket dell’elemosina e allo spaccio di stupefacenti. (...)"


"(...) Tre giorni fa, per cominciare, Salvini ha detto che Sophia, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani nel Mediterraneo, può concludersi in qualsiasi momento, avendo “come ragione di vita che tutti gli immigrati soccorsi vengano fatti sbarcare solo in Italia”. Salvini forse non lo sa, ma come è stato ricordato bene ieri da Repubblica il mandato di Sophia non prevede il salvataggio dei migranti bensì unicamente la lotta a scafisti e trafficanti d’armi e l’addestramento della Guardia costiera libica, indispensabile per fare quello a cui Salvini tra un mojito e un altro non sembra essere interessato: occuparsi di come aiutare Serraj a governare i flussi che partono dalla Libia. Colpire Sophia, dunque, non significa colpire l’Europa ma significa colpire l’Italia.
E lo stesso atteggiamento autolesionista Salvini lo ha messo in campo quando il governo del cambiamento si è occupato di altri dossier. Uno su tutti: la modifica del trattato di Dublino. Il trattato di Dublino, come sapete, prevede che il primo stato membro in cui viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d’asilo del rifugiato e nel contratto di governo Salvini e Di Maio hanno promesso di voler portare avanti “la revisione del Regolamento di Dublino e l’equa ripartizione dei migranti tra tutti i paesi dell’Ue”. Anche qui, l’atteggiamento avuto finora dal governo è stato controproducente. I campioni del sovranismo tendono a non ricordarlo, ma lo scorso anno il Parlamento europeo ha approvato una legge – non votata dal Movimento 5 stelle e addirittura bocciata dalla Lega – che cancella il criterio che il primo paese di accesso debba essere quello in cui il migrante presenta la richiesta d’asilo. Il problema è che alla fine di giugno il primo Consiglio europeo a cui ha partecipato il presidente Conte ha creato le condizioni per non modificare mai più quel trattato, accettando il principio imposto dai paesi di Visegrád che ogni modifica del trattato di Dublino debba essere decisa all’unanimità dei paesi dell’Unione europea (è sufficiente dunque che uno dei paesi europei amici di Salvini ponga il veto alla modifica del trattato per non modificarlo più). (...)"

lunedì 25 agosto 2014

La Libia chiede un intervento internazionale per ristabilire la sicurezza (da ilfoglio.it)

In occasione del vertice in corso al Cairo tra i paesi del Nord Africa sulla crisi libica, l'ambasciatore di Tripoli ha richiesto l'intervento internazionale per proteggere i pozzi petroliferi e gli aeroporti del paese. La richiesta è seguita all'attacco lanciato con missili Grad all'aeroporto di Labraq, nell'est del paese e uno dei pochi ancora funzionanti dopo la conquista da parte degli islamisti di quello di Tripoli, avvenuta tre giorni fa. L'ambasciatore Mohammed Jibril ha detto, a margine della conferenza, che "esistono diverse forme di intervento che la comunità internazionale potrebbe adottare" in Libia. La Conferenza ha finito per appoggiare la posizione (più cauta) dell'Egitto e che prevede il disarmo delle milizie, il sostegno al Parlamento eletto all'inizio dell'estate e la ricostruzione delle istituzioni pubbliche.

Fra gli organizzatori dell'incontro in corso al Cairo, l'Egitto e l'Algeria erano quelli maggiormente coinvolti dalla grave crisi in cui versa la Libia dal giorno della deposizione di Muhammar Gheddafi. Gli algerini, in particolare, sono i maggiori indiziati riguaardo ai misteriosi raid aerei che in questi giorni sono stati condotti contro gli islamisti del clan di Misurata. (...)

mercoledì 7 maggio 2014

Cellulare Contro L'Analfabetismo (da laStampa.it)

(...) Non solo giochini e telefonate. Secondo il recente rapporto dell’Unesco “Reading in the mobile era”, la diffusione dei cellulari nei paesi in via di sviluppo potrebbe servire a combattere nientemeno che l’analfabetismo. Non pensate a lussuosi smartphone dallo schermo luccicante, anche gli apparecchi di base, quelli disponibili alla stragrande maggioranza della popolazione, potrebbero giocare un ruolo importante, andando a supplire alla mancanza di libri, laddove questi sono scarsamente presenti o troppo costosi.
 Il cellulare si trova invece ormai anche nei villaggi più sperduti dell’Africa: recenti stime delle Nazioni Unite davano a 6 miliardi il numero di dispositivi disponibili; molto di più, giusto per fare un paragone, del numero di toilette, fermo a 4,5 miliardi. I ricercatori hanno studiato le abitudini di lettura di più di 4.000 abitanti di 7 nazioni (Etiopia, Ghana, India, Kenya, Nigeria, Pakistan e Zimbabwe) tramite un sondaggio online effettuato attraverso l’applicazione World Mobile Reader (un software che dà accesso a un vasto catalogo di testi gratuiti, e che si può installare anche su cellulari datati), a cui sono seguite alcune interviste individuali.(...)

venerdì 27 dicembre 2013

Sicurezza Europea - Non vedo, non sento, non parlo (da AffarInternazionali)

(...) Se a tutto questo aggiungiamo i grandi mutamenti strategici globali, della crescita della potenza cinese, anch’essa apparentemente orientata in senso fortemente nazionalista, al crescente orientamento della strategia americana verso il Pacifico, è a dir poco strano che gli europei non sembrino dedicare alcuna seria attenzione ai problemi della difesa e della sicurezza internazionale.

Eppure, malgrado numerosi esercizi sia in sede Nato (l’elaborazione di svariati “nuovi” concetti strategici) che nazionale (alcuni Libri Bianchi e altri documenti più o meno analoghi), non si è aperto alcun grande dibattito.

La riprova è nella mancanza di direzione strategica della politica estera, di sicurezza e di difesa dell’Ue, che pure era al centro dell’ultima revisione dei Trattati varata a Lisbona.

Sono state create alcune strutture operative, inclusi un “servizio di azione esterna”, una “agenzia di difesa europea”, svariati “battlegroups” e altre forme di cooperazione, sono state intraprese numerose missioni di gestione delle crisi, sia civili che militari, ci si è impegnati nei Balcani e in Afghanistan, tuttavia non si è tentato di rivedere, aggiornare e approfondire l’unico documento strategico approvato dal Consiglio Europeo il 12 dicembre del 2003, che va sotto il titolo di Strategia di sicurezza europea, ovvero “Un’Europa sicura in un mondo migliore”.

Global strategy

Quel documento presentava l’Ue come un attore globale pronto a condividere la responsabilità della sicurezza internazionale e della costruzione di un sistema di governo globale.

Nessuno ha mai rinnegato esplicitamente tali ambizioni, ma nessuno ha mai neanche tentato di renderle operative. Di più, ogni volta che è apparsa evidente la necessità di riprendere in mano quel documento per aggiornarlo, identificare le priorità strategiche e approntare i mezzi e le metodologie necessarie per applicare tale strategia di sicurezza, i paesi membri hanno rifiutato di farlo.

Ora però, il progressivo declino delle capacità militari europee e l’aggravarsi dello scenario globale, in particolare nelle regioni attorno all’Ue rendono la cosa più urgente e necessaria.

L’ottimismo che consentiva di iniziare il documento del 2003 con la frase “l’Europa non è mai stata tanto prospera, tanto sicura e tanto libera” non è più replicabile oggi.

Ma se gli europei continueranno a nascondersi all’evidenza, nessuna politica di sicurezza e difesa comune sarà realmente possibile e il quadro strategico europeo continuerà a degradarsi. 

venerdì 6 dicembre 2013

Nelson Mandela: i molti volti della storia di un uomo

E' morto Nelson Mandela. Di seguito il richiamo ad alcuni articoli commemorativi apparsi in queste ore, con alcune sottolineature (i grassetti sono miei) che credo siano importanti da fare, per rendere meglio tutta la complessità di una grande figura storica, che sarebbe errato semplificare in "eroe della non-violenza", e con uno sguardo anche sul lato personale, sempre terribilmente difficile per chi dedica la propria vita alla battaglia politica. In questo senso, segnalo in particolare l'ultimo articolo - del 2005 - in cui si ricorda il coraggio di parlare pubblicamente della morte del figlio per Aids, in un paese che aveva molte difficoltà ad affrontare la questione.

FMM

Nelson Rolihlahla Mandela nasce nella tribù Thembu il 18 luglio 1918. Studia nelle scuole riservate agli studenti neri e si laurea in giurisprudenza. Nel 1944 diventa membro dell'Anc (African National Congress) ed inizia a condurre campagne non violente contro l'odioso regime segregazionista dell'Apartheid. Con il suo amico e avvocato Oliver Tombo da vita allo studio legale che assiste gratuitamente molti neri disagiati. Nel 1960 la svolta che segna per sempre la sua vita: Il regime di Pretoria, nel massacro di Shaperville, elimina molti militanti dell'ANC. L'African National Congress è dichiarato fuorilegge e a Mandela, sfuggito alla strage, non resta che darsi alla macchia dando vita ad un'organizzazione militarista con lo scopo di mettere alle corde il regime con azioni di guerriglia e sabotaggi

di Stefano Biolchini - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Sp4Jd

Dopo numerose manifestazioni di protesta e duri scontri in piazza, tra cui il massacro di Sharpeville in cui 69 neri vennero uccisi dalla polizia, nel 1960 il National Party mise fuori legge l’ANC: Mandela, che era vicepresidente nazionale del movimento, entrò in clandestinità e abbandonò la lotta non violenta, appoggiando una campagna di attentati e sabotaggi. Nel 1961, infatti, fu tra i fondatori del braccio armato dell’ANC, la Umkhonto we Sizwe (“lancia della nazione”, abbreviato in MK): in quegli anni i suoi modelli erano le lotte armate di Castro e di Mao. I giornali, visto il suo ruolo di spicco nell’organizzazione e la sua latitanza, lo chiamavano “la primula nera”.


La madre lo spinge a studiare. A 21 anni entra all’università per neri di Fort Hare, fondata da missionari scozzesi. Studia inglese, antropologia e legge. Adora ballare. Quando però il capo villaggio decide per lui nozze combinate, scappa con un amico a Johannesburg, procurandosi i soldi del viaggio vendendo un paio di mucche del capo. Vive nella township di Alexandra, studia a lume di candela. Nel ’43 si laurea per corrispondenza a Fort Hare, conosce Evelyn. Si sposano nel ’44. Nelson ha 26 anni. Studia da avvocato alla Wits, unico nero della classe. Abita a Soweto. Negli anni successivi il Sudafrica dei bianchi e del nuovo Partito Nazionale costruisce i muri dell’apartheid: no ai matrimoni misti, sì alla divisione razziale (Population Act) e alla segregazione dei neri in zone apposite (Group Areas Act). Mandela è eletto capo dei giovani dell’African National Congress (Anc). Con l’amico Oliver Tambo apre uno studio legale. Primo vero arresto nel 1956, in seguito alla Freedom Charter: detenuto (in attesa di processo) con altri 155 al Vecchio Forte. Esce dopo due settimane e trova la casa vuota: Evelyn, che non sopporta il suo impegno politico (e la latitanza familiare), se n’è andata con i figli (e le tende). Nella sua vita entra Winnie, che lui ha intravisto alla fermata dell’autobus.(...) 
Ritorna l’11 febbraio 1990: libero, senza condizioni, dopo più di 10 mila giorni di prigionia. Comincia la sua terza vita: Mandela il riconciliatore. «I bianchi sono nostri concittadini, chi rifiuta l’apartheid sarà accolto nella lotta comune per un Sudafrica democratico e non razziale». 

Nel ’92 Nelson si separa da Winnie, la donna più amata l’ha tradito con altri, è diventata un’estranea. (...)


«Non chiamatemi, chiamo io». Così disse ridendo Nelson Mandela l' estate scorsa a Johannesburg, il giorno in cui convocò i giornalisti per annunciare la decisione di abbandonare la vita pubblica. Era di buon umore Tata, papà, come lo chiamano i collaboratori. Ha scherzato: «Quando ho detto a un amico che volevo andare in pensione, mi ha risposto brusco: "Tata, ma tu sei già in pensione" (Mandela ha lasciato la politica attiva nel ' 99). D' accordo, vorrà dire che oggi annuncio che mi pensiono dalla pensione». Poi la preghiera: «Don' t call me, I' ll call. Nessuno mi darà dell' egoista se alla fine della mia vita vorrò passare un po' di tempo con la mia famiglia e con me stesso». Ha chiamato lui. Ieri. Ha convocato una conferenza stampa nel giardino della sua casa a Houghton, verde quartiere residenziale di Johannesburg. Accanto a lui la terza moglie, Graca Machel, la figlia Makaziwe, alcuni nipoti. «Vi ho chiamato per annunciare che mio figlio è morto di Aids». Così, con otto parole, il superpensionato Rolihlahla Nelson Mandela, premio Nobel per la pace nel ' 94, tata di tutti i sudafricani e un po' anche del tempo nostro, a 86 anni è tornato alla politica attiva. In Sudafrica, nessuna confessione privata può avere un' eco pubblica più forte: un padre, il padre della patria, tata, che dice: «Mio figlio Makgatho, 54 anni, l' unico maschio che mi era rimasto, è morto di Aids». Non è solo il dolore vuoto e pulito di un uomo che ha già sofferto la perdita di un figlio: Mandela era dietro le sbarre di Robben Island nel 1969, quando apprese che Madiba Thembekile era morto in un incidente stradale. Dopo 27 anni in galera scrisse nell' autobiografia «Un lungo cammino verso la libertà»: «Cosa si può dire di una tragedia simile? Non ho parole per esprimere il dolore, il vuoto che sentii». Questa volta il dolore privato si riempie di un messaggio politico, nel Sudafrica del 2005 dove l' Aids è ancora un tabù. «Parliamo dell' Hiv-Aids, non nascondiamolo - ha detto Tata nel giardino di casa -. Questo è l' unico modo per farla apparire una malattia normale come la tubercolosi, come il cancro. L' unico modo è uscire allo scoperto, dire che qualcuno è morto per l' Hiv-Aids: così la gente smetterà di considerarlo qualcosa di straordinario». Mandela parla di Hiv-Aids, unisce in una sola parola il virus e la malattia. Lo fa di proposito. E' quella coppia mortale che ha ucciso il figlio Makgatho, avvocato d' affari, e un anno prima di lui la moglie Zondi. Nel mondo è un dato risaputo. In Sudafrica no. Fino all' anno scorso il delfino di Mandela, l' attuale presidente Thabo Mbeki, metteva in dubbio il legame tra l' Hiv e l' Aids, mentre la sua ministra della Sanità per molto tempo ha consigliato di curare il malanno con le erbe della savana, al limite con i limoni. 



sabato 9 novembre 2013

Ritornare a Occuparsi delle ex-Colonie?

Non è una novità, già in passato se ne è parlato, e forse è solo la parola "colonie" che può "spaventare" un po', far pensare che dobbiamo tornare a occupare altri paesi.

Naturalmente non è questo; al di là della prima impressione il ragionamento è molto semplice: ci sono "naturali" (diciamo così) "zone di influenza" di ogni paese, che in qualche modo corrispondono a quelli che erano appunto possedimenti coloniali, e che comunque rimangono legate alla nostra storia, pur se in modo diverso. 

Anche l'operazione Pellicano (1991-1993) in Albania, in qualche modo rispondeva a questa logica, anche se forse non ancora esplicitamente. Oggi ne parliamo un po' più apertamente, e dovremmo anche intuire che - al di là di una logica di "prevenzione" (anche rispetto all'immigrazione) - ritornare protagonisti anche in suolo africano può assumere un valore ulteriore in termini di orizzonte anche per la nostra economia, oltre che per la nostra politica estera. Vale per la strana missione in LIbia, potrebbe e dovrebbe valere anche per altre situzioni.

In ogni caso le nostre ex-colonie, attraverso i migranti, continuano a essere nostre compagne di viaggio. Conviene non subire questa "vicinanza" e tentare di renderla un buon affare per tutti, Europa compresa.

FMM

In Europa c’è chi pensa che l’Italia dovrebbe fare di più. Dicono che la tragedia di Lampedusa ha messo a nudo tutte le debolezze della politica comune dell’immigrazione e non solo. A Roma i paesi del Nord contestano il basso numero di rifugiati accolti, lo fanno senza considerare che da noi non si arriva in aereo ma salvati uno a uno in alto mare, però lo fanno. 

Nei palazzi dell’Ue c’è invece chi imputa al governo un’eccessiva timidezza diplomatica. «Avete titolo per avviare un processo mirato a fermare le partenze dei migranti in Somalia ed Eritrea», dicono a Bruxelles: «Compito duro, certo, ma vedete altra possibilità?». La task force di tecnici che lavora per rafforzare il pattugliamento di Frontex nel Mediterraneo è riconvocata per il 20 novembre, due settimane prima della riunione dei ministri degli Interni che tenterà di scrivere il percorso verso una e più efficace strategia europea. Molti temono che non basti e che l’ondata migratoria si gonfierà in inverno per riversarsi in Sicilia quando la buona stagione calmerà il mare. Bisogna farli restare a casa. Coi siriani - 15 mila solo in Libia - «c’è nulla da fare», dicono a Bruxelles. Ma coi profughi del Corno d’Africa, lo scenario appare diverso. (...)

sabato 3 novembre 2012

Tutta colpa della Cia?

L’articolo del Wsj dice: nelle ultime otto settimane, dall’11 settembre, tutta la colpa di quanto è successo a Bengasi è caduta addosso al dipartimento di stato, tanto che a ottobre il segretario, Hillary Clinton, per deflettere le critiche dure che minacciano il presidente Barack Obama impegnato nella rielezione, s’è presa “tutta la responsabilità per i buchi nella sicurezza”. In realtà, spiega il Wsj, c’era un accordo segreto tra la Cia e il dipartimento di stato: erano i servizi a essere responsabili della sicurezza a Bengasi e quindi anche della protezione dell’ambasciatore Chris Stevens. Anzi, il consolato di Bengasi era in realtà poco più di una facciata di comodo per le operazioni della Cia, che era sul posto fin dalla prima fase della rivoluzione anti Gheddafi nel febbraio 2011. La notte della strage – scrive il Wsj informato sui fatti – dei trenta americani portati in salvo soltanto sette erano del dipartimento di stato; gli altri erano tutti agenti della Cia, alcuni con un passaporto diplomatico di copertura. L’intelligence americana lavorava in un edificio distante poco più di un chilometro, conosciuto come “the annex”, che era il vero centro delle attività americane nella zona e l’ambasciatore e i suoi non erano arrivati con una scorta grande perché in caso di problemi il patto era che sarebbero intervenuti i dieci uomini della squadra armata della Cia. “Loro dovevano essere la cavalleria”, dice una fonte dell’Amministrazione ai reporter del Wsj, e se non ci fossero stati il dipartimento di stato non avrebbe lasciato che l’ambasciatore si recasse con una protezione così debole a Bengasi. Quando l’attacco di terroristi, lo scenario peggiore, è arrivato, gli uomini della Cia non hanno salvato Stevens.

giovedì 13 settembre 2012

La Morte di un Ambasciatore, la Guerra Mai Finita


Non c'è da discutere sulla presunta qualità di un film. la discussione non dovrebbe avere luogo. La violenza cui assistiamo in queste ore è inaccettabile, comunque si giudichi la discutibile opera da cui - secondo alcuni - sarebbe nata questa violenza. Parlare del film significa non voler vedere che c'è ancora  - e non è mai cessata, anche se le mani possono essere differenti, le menti che progettano di nazioni diverse - una guerra che alcuni fanatici hanno dichiarato a noi, noi inteso come Occidente, come spazio politico che permette la dissacrazione, l'ironia, la la libertà di parola anche quando appare eccessiva (con tutte le contraddizioni e le incoerenze con cui gestiamo questa libertà). Ma non è solo questo, ed è meglio laicizzare anche il nostro discorso politico, perché non dobbiamo reagire a una presunta "guerra santa" con una nostra "guerra santa laica": dobbiamo però vedere con lucidità che in Africa ci sono le nuove basi di quella rete particolare del terrore, di quel network plurimo che è AlQaeda che sembra assumere nuove forme, innestandosi in nuove crisi; e che abbiamo probabilmente con troppa facilità aiutato rivoluzioni senza vedere (eravamo in pochi a ricordarlo) che "bombardare dall'alto" non può bastare se non c'è l'orizzonte di fondo e la volontà politica  - e le possibilità economiche e finanziarie - di scommettere sul lungo periodo, radicandosi - come intelligence, come economia, come militari, come tutto - in quei paesi, influenzandoli quotidianamente e imbastendo quei silenziosi e lunghissimi percorsi di transizione che difficilmente si possono risolvere nella morte di un dittatore e in riti elettorali svolti in "libertà", anche se c'è necessità di quei simboli e di quei riti. Non è possibile accettare la violenza di oggi, non è possibile che Europa e Stati Uniti perdurino in un atteggiamento che guarda a soluzioni facili, e non pensa a percorsi più lunghi. Si può anche combattere Gheddafi (o altro dittatore) accettando il rischio dell'integralismo, ma poi quell'integralismo lo devi continuare a combattere. La guerra non si poteva risolvere, non può risolversi, non si potrà mai risolvere in un "bombardamento dall'alto". La guerra è brutta e lunga, e bisogna saperla fare. Se dobbiamo tornare a vederla vicino a noi, prepariamoci a un lungo percorso nella penombra della morte. Può darsi che sia necessario, ma dobbiamo esserne pienamente consapevoli.

Francesco Maria Mariotti


Era il Primo maggio. E quello è stato il giorno in cui ho visto per l'ultima volta Chris Stevens, un diplomatico esperto e un amico. Abbiamo parlato a lungo della sua nomina ad ambasciatore in Libia, Paese che conosceva e amava. E con il suo stile per nulla formale, da californiano vero, aveva toccato un tema rimasto un po' sotto traccia ma sentito. Quello dell'infiltrazione dei militanti islamisti. «Dicono che arrivino anche dall'estero», aveva affermato. Non era la violazione di un segreto bensì la conferma di notizie pubbliche che rimbalzavano dal Nord Africa. Ma Chris Stevens, pur consapevole dei rischi, non sembrava preoccupato più di tanto. Era abituato ai posti difficili, sapeva cosa fosse il Medio Oriente, conosceva la terribile favola della rana e dello scorpione. Quella dove quest'ultimo uccide la prima dopo che lo ha aiutato ad attraversare il fiume.(...)



Il boomerang sta nel fatto che quanto avvenuto martedì sembra smentire la strategia con cui Obama ha sostenuto la «Primavera araba»: l’intervento militare voluto per salvare Bengasi dalla repressione di Muammar Gheddafi ha gettato la stessa città nella braccia dei salafiti alleati di Al Qaeda così come la scelta di obbligare l’alleato egiziano Hosni Mubarak alle dimissioni ha consentito ai jihadisti di issare le loro bandiere nere sul pennone dell’ambasciata Usa al Cairo, dopo aver ammainato e umiliato la «Old Glory». Convinto di poter creare una nuova stagione di dialogo con i partiti islamici che guidano le transizioni post-dittatori in NordAfrica, Obama si trova alle prese con il colpo di coda dei jihadisti: sfruttare la perdurante instabilità per tentare di ricreare nelle sabbie del Sahara la piattaforma terrorista perduta sulle montagne afghane e pakistane a seguito dell’intervento della Nato.


venerdì 30 dicembre 2011

Libia e Iran: La Posta In Gioco

La Libia torna al centro dell'attenzione di tutti. La scelta del governo di transizione di ridiscutere i contratti con l'Eni (o forse alcune "implicazioni sociali", come parrebbe da una nota dell'azienda) non può certo sorprenderci, soprattutto alla luce delle tensioni che si sono riaperte (non si sono mai chiuse, in realtà) sul "fronte" iraniano. Invitando a leggere alcuni articoli di approfondimento, faccio solo due riflessioni personali: 

(1) in Libia la sciagurata guerra di liberazione da Gheddafi ha creato una situazione di instabilità che non si è affatto risolta (si veda per esempio la "piccola" notizia della recente chiusura delle frontiere - oggi riaperte - fra Tunisia e Libia): la visita di Leon Panetta è il segno di una grande preoccupazione rispetto alle possibilità di riprendere effettivamente il controllo del Paese e gli Stati Uniti - si badi bene, attraverso contractor - tentano di collaborare, ben consapevoli che una crisi sul Mar mediterraneo sarebbe letale per tutta l'area.

(2) Sperando di non essere smentito dai fatti che accadranno nei prossimi giorni, la mia impressione è che il braccio di ferro sullo Stretto di Hormuz sia una nuova "onda" di tensione che non passerà ai fatti, salvo "perdita di controllo" da parte di uno degli attori; che arrivi una portaerei USA in quella zona non deve necessariamente preoccuparci: come si vede da una notizia che riporto più sotto, già da tempo quel tratto di mare è "sotto sorveglianza", ed è già da sempre in stato di "pre-allarme". Eventuali raid - di cui spesso si parla, in particolare per quanto riguarda possibili piani di attacco israeliani - non saranno preannunciati da "tensioni" o "dichiarazioni": verranno eventualmente (speriamo di no) messi in atto  senza ultimatum. Al momento, il blocco dello stretto non sembra convenire neanche a Teheran, ma probabilmente oltre al fattore esterno conta nelle decisioni iraniane un fattore di battaglia politica interna.

Francesco Maria Mariotti


Più dei temi finanziari, gli incontri di Panetta con il ministro della Difesa, Osama Jouili e il premier Abdel Rahim al-Keib sono stati incentrati sulla difficile situazione della sicurezza nel Paese nordafricano che, a due mesi dalla morte di Gheddafi, sembra sprofondato nel caos con oltre 125mila miliziani ancora armati divisi in una settantina di eserciti tribali.
Solo nell'ultima settimana si sono verificati scontri tra milizie rivali in diverse aree del Paese, protagonisti soprattutto i miliziani di Zintan che hanno occupato l'aeroporto militare Mitiga, vicino a Tripoli, e continuano a tenere prigioniero Saif al-Islam, il secondogenito di Gheddafi catturato nel Sud il 19 novembre e mai consegnato al Consiglio nazionale di transizione.


Ecco perché Tripoli vuole rivedere i contratti con l'Italia perché si è resa conto di avere un margine negoziale maggiore in un contesto internazionale che sta diventando sempre più incandescente, soprattutto dopo le minacce iraniane di bloccare lo stretto di Hormuz.
Gli Stati Uniti premono con forza per le sanzioni petrolifere agli ayatollah: Teheran dipende dal petrolio in maniera determinante. Il paese mediorientale ha incassato entrate petrolifere per 73 miliardi di dollari nel solo 2010, pari all'80% di tutto il suo export e a metà delle entrate dell'erario.


Un portavoce della compagnia italiana ha precisato che i contratti che il nuovo governo libico ha intenzione di rivedere non hanno nulla a che fare con il petrolio o con il gas naturale, ma si tratta di iniziative in materia sociale. «Non abbiamo dettagli - ha detto - ma potrebbe trattarsi della costruzione di infrastrutture, come un ospedale o una palestra: in ogni caso attività complementari a scopo non di lucro». Non sembrano a rischio, quindi, i sostanziosi contratti petroliferi Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/LWDaW 

L’Iran è pronto a bloccare lo Stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico all’Oceano Indiano, se gli Stati Uniti e parte dell’Occidente imporranno nuove sanzioni economiche. Certo, privare il mondo dei 15,5 milioni di barili al giorni di Hormuz sarebbe catastrofico, in un periodo di crisi come quello attuale. Ma in realtà oggi il mondo si può permettere di rinunciare al petrolio iraniano (circa 2,4 milioni di barili al giorno), vista l’entrata in produzione dell’Iraq e il rapido ritorno libico. Insomma  Teheran sta vedendo sciogliersi la propria posizione geostrategica. 




(notizia del 2006, nota FMM) 
Un sottomarino nucleare statunitense si è scontrato con una petroliera giapponese nel Mar Arabico. Da entrambe le imbarcazioni non sono stati segnalati nè feriti nè danni di rilievo, secondo quanto riferito stamani a Tokyo dal ministero degli Esteri nipponico.

In base alle prime ricostruzioni, le due imbarcazioni si sono scontrate attorno alle 4:15 ora del Giappone (le 20:15 di ieri in Italia) nella zona dello stretto di Hormuz, nel Golfo, dove si è verificata una collisione tra la prua del sommergibile americano e la poppa della nave nipponica. Le cause dell'incidente restano ancora ignote.(...)

martedì 20 settembre 2011

Libia, fra bugiardi, gattopardi e leader in conflitto


Sulla Libia ho scritto spesso, sempre molto critico nei confronti di un intervento che ancora oggi mi appare inutile e controproducente. Le scene di apparente vittoria degli ultimi giorni (ma quante volte è già stata proclamato "missione compiuta!"?) non devono trarci in inganno.



Se la guerra in Libia sembra vedere il suo termine, si apre comunque una fase alquanto delicata, di non facile gestione, e che ci costringerà a seguire le vicende di questo paese (non solo sulle questioni energetiche) per parecchio tempo. Possono non esserci i nostri eserciti occidentali; possono esserci eserciti di altri paesi o - come è più probabile - compagnie militari private; ma il succo non cambia. 

"Una" guerra è  - forse - in via di conclusione; probabilmente è già in corso un'altra battaglia, quella intestina fra gli stessi "vincitori" (libici e non), appena iniziata.

Francesco Maria Mariotti

Non è certo una novità che molte notizie diffuse dagli insorti libici in sette mesi di guerra si siano rivelate imprecise, propagandistiche, gonfiate o vere e proprie bugie. La disinformazioni più eclatante ha riguardato il numero dei morti che già il 23 febbraio, dopo una settimana di rivolta, veniva indicato in 10 mila dalla televisione al-Arabiya, che citava il membro libico della Corte Penale Internazionale Sayed al Shanuka. In quei giorni la Federazione internazionale dei diritti dell'uomo (Fidh) riferiva invece di appena 640 vittime. A metà aprile i ribelli resero noto un bilancio di 10 mila morti e 30 mila feriti, questi ultimi saliti poi a 50 mila in stime diffuse una settimana dopo.
A fine agosto erano invece almeno 50 mila i morti secondo il colonnello Hisham Buhagiar, comandante delle forze ribelli delle montagne di Nefusa.
"Circa 50 mila persone sono state uccise dall'inizio dell'insurrezione. Solo a Misurata e Zlitan sono morte fra 15mila e 17mila persone". Eppure le autorità sanitarie di Msurata aveva riferito di 1.083 morti in città tra civili, ribelli e lealisti oltre a 2 mila dispersi.(...)
Negli ultimi giorni la propaganda del Consiglio Nazionale di Transizione ha più volte annunciato la caduta di Bani Walid e Sirte ma sul campo di battaglia la resistenza dei lealisti e delle milizie delle tribù Warfalla e Gaddafa danno filo da torcere ai ribelli che continuano a far affluire mezzi e combattenti da Misurata e Tripoli.(...)

I GATTOPARDI DI TRIPOLI (...) Si dirà che quando collassa un regime totalitario è quasi inevitabile che scorra il sangue e vi sia molta anarchia. Il problema è che non si vede alcun tentativo di punire le atrocità commesse da insorti. Secondo Amnesty, il Consiglio nazionale di transizione non ha prodotto "alcuna indagine credibile né ha preso misure per chiamare i responsabili a rispondere". Probabilmente non ha voluto. Ma se lo decidesse, sarebbe in grado di punire i colpevoli? (...) Abbiamo sulla coscienza una guerra evitabile, controproducente, in ogni caso orribilmente stupida? Nessuno potrà mai dimostrare che il negoziato con Gheddafi avrebbe potuto concludersi con un compromesso accettabile. Però sappiamo che a differenza dell´Egitto, la Libia non ha una salda radice unitaria, una tradizione parlamentare, una consuetudine con la libera competizione tra le idee, e neppure movimenti resistenziali di ispirazione liberale. A maggior ragione la transizione aveva bisogno della stabilità che poteva offrire soltanto un percorso concordato. Sappiamo anche un´altra cosa: fin dal primo momento Parigi e Londra esclusero quella soluzione. Perché solo la guerra assicurava protagonismo e un lauto bottino petrolifero? No, perché Gheddafi è un criminale. Ma non lo era forse anche prima, quando la sua polizia ammazzava oppositori a dozzine? Sì, ma mai era arrivato a far bombardare le piazze, il popolo. Le prove? Le fornisce al-Jazeera, e i media occidentali le rilanciano: ma le più eclatanti sono falsificazioni. Il repertorio include immagini di cadaveri di soldati con le mani legate, "uccisi perché ammutinati". Poi rivedi il filmato e hai l´impressione che gli assassini siano i ribelli, infatti non soccorrono l´unico moribondo. Ora Amnesty indirettamente conferma: all´inizio della sollevazione gli insorti uccisero militari che avevano catturato. In futuro potremmo scoprire che messe-in-scena e rivolta furono agevolate da un sodalizio di servizi segreti. Dopotutto già negli anni Novanta i britannnici avevano provato a innescare moti in Cirenaica (Gheddafi sventò, probabilmente su soffiata dello spionaggio italiano). Una transizione concordata era la soluzione migliore non solo per la causa della libertà ma anche per gli interessi dell´Italia (...) 

Cameron e Sarkozy ricevuti in Libia da una leadership in frantumi (...) Ora la spaccatura sul campo si ripete in politica, nel momento delicato della spartizione dei poteri. Il capo religioso della fazione islamista, l’imam Ali al Salabi, per sei mesi ha compattato i ranghi dei suoi, ubiquo sul fronte e anche nelle retrovie in Qatar. Due giorni fa ha  lanciato un attacco mortale al primo ministro di fatto del Consiglio, Mustafa Abdul Jalil: “Lui e i suoi alleati sono secolaristi estremisti che cercano soltanto di arricchirsi con il più grande affare della loro vita – ha detto al Salabi in un’intervista ad al Jazeera, che in Libia è considerato il canale ufficiale del governo rivoluzionario – vogliono guidare il paese in una nuova era di tirannia e dittatura e potrebbero essere peggio di Gheddafi”. Il predicatore e leader politico è amico da 25 anni di Abdelhakim Belhaj, il controverso leader della Brigata Tripoli, quella degli islamisti, che si è quasi materializzata dal nulla a ovest della capitale nei giorni precedenti l’attacco finale. Si dice che il creatore della brigata, o almeno il grande finanziatore, sia il Qatar.
L’apparizione sulla scena di Belhaj ha scatenato nevrosi sui media. C’è chi ricorda il suo passato nei campi d’addestramento in Afghanistan e anche, ma non è confermato, vicino al diavolo in persona, Abu Musab al Zarqawi, durante la guerra in Iraq. (...).

mercoledì 24 agosto 2011

Africa e MO, Costringere la Cina a Intervenire


In Africa e in Medio Oriente si stanno giocando partite diverse, ma entrambe molto rischiose per la stabilità internazionale.

Questa crisi politica sembra svolgersi in parallelo ma non in contatto con quella finanziaria ed conomica, che oramai richiede una soluzione a livello mondiale: gli eurobond (o la proposta più elaborata Prodi-Quadrio Curzio) possono essere utilissimi per noi, ma non sono la panacea di tutti i mali, e l'uscita dal dramma può avvenire solo con un tavolo che veda Stati Uniti, Ue e Cina darsi una disciplina monetaria comune e decidere come governare insieme il mondo, provando a dare una spinta alla crescita.

Ed è proprio su questo tavolo che andrebbero posti anche i dossier politici, in particolare Libia e Medio Oriente: la Cina sembra a prima vista non essere presente su questi scenari, ma se si pensa alla penetrazione di Pechino nel continente africano, non vi può essere dubbio che la "nuova" superpotenza abbia interesse - e debba riconoscere di averlo - nella soluzione della crisi di Tripoli e nella gestione di tutti i principali capitoli che interessano la stabilità geopolitica globale (debiti sovrani, materie prime, terrorismo, migrazioni, lavoro, etc).

La Cina fino ad oggi ha dato l'impressione di non voler assumere esplicitamente le responsabilità di superpotenza che oramai tutto il mondo le riconosce, preferendo un gioco silenzioso per lo più economico, ma non direttamente politico: questa fase può dirsi ormai conclusa, e Washington e Bruxelles devono costringere Pechino a scendere in campo, a co-governare il mondo, a spendere parola, influenza e moneta - e forse non solo quelle - perché questa crisi globale di governance possa iniziare a risolversi. E noi europei potremmo avere un ruolo fondamentale in questa dialettica fra "potenze riluttanti", per dirla con una espressione di Marta Dassù.

Non abbiamo bisogno solo di una nuova Bretton Woods, come dicono molti: facendo finta che questi paragoni (forse un po' deboli e troppo retorici) abbiano un senso, potremmo forse dire che c'è da organizzare anche una nuova Yalta. 

Speriamo di non dover pagare per questo il prezzo di una nuova guerra globale.

Francesco Maria Mariotti