Sulla Libia ho scritto spesso, sempre molto critico nei confronti di un intervento che ancora oggi mi appare inutile e controproducente. Le scene di apparente vittoria degli ultimi giorni (ma quante volte è già stata proclamato "missione compiuta!"?) non devono trarci in inganno.
Se la guerra in Libia sembra vedere il suo termine, si apre comunque una fase alquanto delicata, di non facile gestione, e che ci costringerà a seguire le vicende di questo paese (non solo sulle questioni energetiche) per parecchio tempo. Possono non esserci i nostri eserciti occidentali; possono esserci eserciti di altri paesi o - come è più probabile - compagnie militari private; ma il succo non cambia.
"Una" guerra è - forse - in via di conclusione; probabilmente è già in corso un'altra battaglia, quella intestina fra gli stessi "vincitori" (libici e non), appena iniziata.
Francesco Maria Mariotti
Non è certo una novità che molte notizie diffuse dagli insorti libici in sette mesi di guerra si siano rivelate imprecise, propagandistiche, gonfiate o vere e proprie bugie. La disinformazioni più eclatante ha riguardato il numero dei morti che già il 23 febbraio, dopo una settimana di rivolta, veniva indicato in 10 mila dalla televisione al-Arabiya, che citava il membro libico della Corte Penale Internazionale Sayed al Shanuka. In quei giorni la Federazione internazionale dei diritti dell'uomo (Fidh) riferiva invece di appena 640 vittime. A metà aprile i ribelli resero noto un bilancio di 10 mila morti e 30 mila feriti, questi ultimi saliti poi a 50 mila in stime diffuse una settimana dopo.
A fine agosto erano invece almeno 50 mila i morti secondo il colonnello Hisham Buhagiar, comandante delle forze ribelli delle montagne di Nefusa.
"Circa 50 mila persone sono state uccise dall'inizio dell'insurrezione. Solo a Misurata e Zlitan sono morte fra 15mila e 17mila persone". Eppure le autorità sanitarie di Msurata aveva riferito di 1.083 morti in città tra civili, ribelli e lealisti oltre a 2 mila dispersi.(...)
Negli ultimi giorni la propaganda del Consiglio Nazionale di Transizione ha più volte annunciato la caduta di Bani Walid e Sirte ma sul campo di battaglia la resistenza dei lealisti e delle milizie delle tribù Warfalla e Gaddafa danno filo da torcere ai ribelli che continuano a far affluire mezzi e combattenti da Misurata e Tripoli.(...)
I GATTOPARDI DI TRIPOLI (...) Si dirà che quando collassa un regime totalitario è quasi inevitabile che scorra il sangue e vi sia molta anarchia. Il problema è che non si vede alcun tentativo di punire le atrocità commesse da insorti. Secondo Amnesty, il Consiglio nazionale di transizione non ha prodotto "alcuna indagine credibile né ha preso misure per chiamare i responsabili a rispondere". Probabilmente non ha voluto. Ma se lo decidesse, sarebbe in grado di punire i colpevoli? (...) Abbiamo sulla coscienza una guerra evitabile, controproducente, in ogni caso orribilmente stupida? Nessuno potrà mai dimostrare che il negoziato con Gheddafi avrebbe potuto concludersi con un compromesso accettabile. Però sappiamo che a differenza dell´Egitto, la Libia non ha una salda radice unitaria, una tradizione parlamentare, una consuetudine con la libera competizione tra le idee, e neppure movimenti resistenziali di ispirazione liberale. A maggior ragione la transizione aveva bisogno della stabilità che poteva offrire soltanto un percorso concordato. Sappiamo anche un´altra cosa: fin dal primo momento Parigi e Londra esclusero quella soluzione. Perché solo la guerra assicurava protagonismo e un lauto bottino petrolifero? No, perché Gheddafi è un criminale. Ma non lo era forse anche prima, quando la sua polizia ammazzava oppositori a dozzine? Sì, ma mai era arrivato a far bombardare le piazze, il popolo. Le prove? Le fornisce al-Jazeera, e i media occidentali le rilanciano: ma le più eclatanti sono falsificazioni. Il repertorio include immagini di cadaveri di soldati con le mani legate, "uccisi perché ammutinati". Poi rivedi il filmato e hai l´impressione che gli assassini siano i ribelli, infatti non soccorrono l´unico moribondo. Ora Amnesty indirettamente conferma: all´inizio della sollevazione gli insorti uccisero militari che avevano catturato. In futuro potremmo scoprire che messe-in-scena e rivolta furono agevolate da un sodalizio di servizi segreti. Dopotutto già negli anni Novanta i britannnici avevano provato a innescare moti in Cirenaica (Gheddafi sventò, probabilmente su soffiata dello spionaggio italiano). Una transizione concordata era la soluzione migliore non solo per la causa della libertà ma anche per gli interessi dell´Italia (...)
Cameron e Sarkozy ricevuti in Libia da una leadership in frantumi (...) Ora la spaccatura sul campo si ripete in politica, nel momento delicato della spartizione dei poteri. Il capo religioso della fazione islamista, l’imam Ali al Salabi, per sei mesi ha compattato i ranghi dei suoi, ubiquo sul fronte e anche nelle retrovie in Qatar. Due giorni fa ha lanciato un attacco mortale al primo ministro di fatto del Consiglio, Mustafa Abdul Jalil: “Lui e i suoi alleati sono secolaristi estremisti che cercano soltanto di arricchirsi con il più grande affare della loro vita – ha detto al Salabi in un’intervista ad al Jazeera, che in Libia è considerato il canale ufficiale del governo rivoluzionario – vogliono guidare il paese in una nuova era di tirannia e dittatura e potrebbero essere peggio di Gheddafi”. Il predicatore e leader politico è amico da 25 anni di Abdelhakim Belhaj, il controverso leader della Brigata Tripoli, quella degli islamisti, che si è quasi materializzata dal nulla a ovest della capitale nei giorni precedenti l’attacco finale. Si dice che il creatore della brigata, o almeno il grande finanziatore, sia il Qatar.
L’apparizione sulla scena di Belhaj ha scatenato nevrosi sui media. C’è chi ricorda il suo passato nei campi d’addestramento in Afghanistan e anche, ma non è confermato, vicino al diavolo in persona, Abu Musab al Zarqawi, durante la guerra in Iraq. (...).
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