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venerdì 24 maggio 2019

Manca poco alla conquista di Tripoli da parte di Haftar?

Manca poco alla conquista di Tripoli da parte di Haftar? O sono colpi di "creazione stato di fatto ante-accordi"? Comunque un'eventuale "pace" sarebbe fragilissima. Prepararci al peggio, sperando che l'Europa che viene in qualche modo sia più protagonista (ma dobbiamo esserlo noi, innanzitutto)

FMM

Haftar a Parigi
https://specialelibia.it/2019/05/23/haftar-a-parigi-e-lingresso-delllna-a-tripoli-potrebbe-essere-questione-di-ore/

Il bombardamento di poche ore fa
http://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2019/05/24/libia-raid-aereo-di-haftar-su-parlamento-dellest-_ddcc3598-ea55-4519-9768-d4942a30dddb.html

venerdì 27 marzo 2015

La guerra in Yemen, spiegata bene (da ilPost.it)

Nella notte tra mercoledì 25 e giovedì 26 marzo è cominciata ufficialmente una nuova guerra. Alcuni aerei dell’Arabia Saudita e di altri paesi arabi hanno bombardato le postazioni in Yemen dei ribelli sciiti Houthi, che nelle ultime settimane hanno preso il controllo della capitale Sana’a e di altri territori nell’ovest del paese. La situazione in Yemen è molto tesa da mesi, tanto da far parlare diversi analisti di “guerra civile”. È anche molto complicata da capire, perché ai gruppi ribelli locali si sono affiancati l’intervento di paesi esterni e le rivalità personali di importanti esponenti politici yemeniti. La storia recente dello Yemen – il paese più povero del Medio Oriente – è cambiata d’improvviso tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, quando Ali Abdullah Saleh, il capo del paese da oltre trent’anni, ha lasciato il potere. Abbiamo messo insieme una guida per capire che cosa sta succedendo in Yemen – chi combatte contro chi e cosa potrebbe diventare la guerra – e perché la si può definire una delle crisi internazionali più complicate e pericolose degli ultimi tempi.

Cos’è lo Yemen, e da dove arriva?
Lo Yemen è un paese molto povero, che si trova sulla punta sud della Penisola arabica. Ha la forma simile a un rettangolo: condivide tutto il suo confine settentrionale con l’Arabia Saudita e tutto il suo confine orientale con l’Oman. A partire dal 1962 e fino al 1990 c’erano due stati yemeniti: a nord la Repubblica Araba dello Yemen, governata in maniera autoritaria da Ali Abdullah Saleh, a sud la Repubblica Democratica popolare dello Yemen, governata da un regime marxista: anche dopo l’unificazione, avvenuta nel maggio 1990, nel sud si sono sviluppati a fasi alterne diversi movimenti indipendentisti che ancora oggi continuano a operare contro il governo centrale (nel gennaio 2015, per esempio, il leader dei separatisti nel sud ha letto in diretta su al Jazeera una specie di “dichiarazione d’indipendenza”).

lunedì 16 febbraio 2015

Incubo Libia: Ancora Guerra Senza Chiarezza?

Chi scrive non aveva alcun dubbio che il panorama libico sarebbe stato tragico per l'Italia (tutti i post recenti sulla Libia li trovate qui, per quelli del 2011 segnalo Guerra Senza Orizzonte e Etica dell'Intervento). Oggi ho l'impressione che si parli di intervento militare con la stessa estrema facilità (e poca consapevolezza) con cui nel 2011 si diceva che fosse necessario abbattere Gheddafi, senza saper bene cosa fare dopo.

Per questo è assolutamente necessario che - nel decidere di entrare in guerra - si chiariscano gli obiettivi dell'intervento, e si guardi con lucidità alla situazione sul terreno: a quel che si capisce - infatti - la dinamica rende complicato anche solo individuare il nemico (o "i nemici"?). 

Appare semplice dire "combattiamo contro l'Isis"; ma non si può entrare in una guerra civile e illudersi di combattere contro un solo nemico, sperando magari di avere una vittoria facile. Anzi, come altri conflitti "asimmetrici" che abbiamo visto nel recente passato, la guerra può non essere "risolutiva", può voler dire una quasi certa "non-vittoria", con alti prezzi in vite umane (e non solo).

E dunque la chiarezza strategica (mai facile per definizione in una guerra) vuol dire anche capire  e tentare di "prevedere" le diversi ipotesi di "compromesso d'uscita". Ovvero: come e quando fermarsi per accettare una non-vittoria magari simulando - e dichiarando - un successo ("Missione compiuta")?

Fino a che punto spingersi con i prezzi da pagare, con i morti da sopportare, i prigionieri, i compromessi inevitabili con gli alleati, o magari con una parte dei nemici, se si verificasse che è troppo difficile sconfiggerli? 

Come si può intuire, non sono cose di cui probabilmente si può discutere in qualche talk-show; ma purtroppo forse neanche troppo apertamente in Parlamento.

"Cappello" ONU, NATO o qualsiasi altro sia, è necessario che l'Italia tenga presenti questi elementi, e li esprima chiaramente, se non con la pubblica opinione, almeno con chi vorrà partecipare a questo intervento. Forse è impossibile avere tutte le risposte ora, ma è doveroso porsi nella giusta "disposizione d'animo", che non consente di cavarsela semplicemente aprendo un dibattito come quelli cui siamo abituati, molto dicotomici (Pace vs guerra) e poco concreti.

Un'ultima considerazione: una guerra di questo tipo può fare male - molto male - a una democrazia come quella italiana. Siamo già in un clima in cui qualsiasi discussione legislativa è fatta a colpi di "gufi e rosiconi" contro "golpisti"; è altissimo il rischio che un clima bellico - e non di una guerra-videogame come ci sono sembrate quelle del recente passato - possa portare ad accentuare i toni del dibattito, compromettendo il già non sano clima complessivo

Devono essere attivate tutte le "sentinelle democratiche" (a partire dalla nostra personale razionalità) che possano vigilare affinché la comunità civile non si distrugga in un eccesso di contrapposizione o - forse peggio - in una sorta di "unanimità bellica forzata" estesa a tutta la società. La discussione e la critica sono beni essenziali di una democrazia. 

E' bene che tutti i partiti, a partire da quelli di governo, e tutti i massmedia, si sforzino di conservare apertura mentale e coraggio del dissenso. 

Se la guerra in Libia si dovesse trasformare in una sorta di "guerra interna" avremmo perso tutti, al di là di qualsiasi risultato militare.

Francesco Maria Mariotti

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Di seguito rassegna stampa con le posizioni di Mimmo Candito, Romano Prodi, Vincenzo Camporini.


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Sento parole di guerra, per la Libia. Vedo politici che alzano al vento del consenso proclami di impegno militare, muscoli in rodaggio, campagne africane sul bel suol d'amore. Calma, calma. Nessuna spedizione militare è possibile se, prima, non si definisce un obiettivo politico, e se una strategia militare non abbia il supporto di una coerenza di forze in campo.


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Ritorno alla prima domanda. Le cancellerie occidentali cosa dovrebbero fare in questo momento secondo lei?

Occorre senza dubbio uno sforza per produrre un minimo risultato nel tentativo di fare sedere tutti gli interlocutori al tavolo e impegnare in un lavoro comune Egitto e Algeria. Non c’è altra via che non produca una situazione ancora più catastrofica di quella attuale.


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"Nulla si può fare senza l'Onu, ma alle Nazioni Unite manca una guida" E sugli scenari della situazione in Libia, l'ex premier avverte: "Nulla si può fare senza l'Onu, ma l'Onu ha poche armi, e il problema di oggi è che nelle Nazioni Unite nessuna Potenza ha un ruolo catalizzatore, di guida". "In questo caso, però - prosegue il fondatore dell'Ulivo - siamo nella situazione ideale per l'intervento delle Nazioni Unite, perché tutte le grandi potenze hanno paura dell'Isis".  


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Come è stato possibile arrivare a tale scenario?

Perché siamo stupidi. Abbiamo promosso la caduta di Gheddafi, un dittatore odioso che tuttavia garantiva ordine in un’area dominata da sentimenti tribali. E abbiamo abbandonato a se stesso un territorio grande e abitato da appena 6 milioni di persone. Una caratteristica che ha consentito grandi opportunità di manovra a chi possiede sistemi d’arma moderni. Ecco la ragione delle operazioni militari eclatanti compiute di volta in volta dai gruppi che si contrappongono con ferocia.

martedì 20 maggio 2014

Il Disastro Della Libia, La Non-Politica Italiana, Le Poche Cose da Fare

Il disastro della Libia - che questo minuscolo blog aveva segnalato come probabile fin dai tempi della retorica della "guerra di liberazione" - è ora davanti a noi. 

Di fronte a quanto sta succedendo dobbiamo porre alcune questioni, contingenti e di lungo periodo:

1. la classe dirigente italiana - non solo quella politica, ma in questo caso soprattutto quella politica - sembra totalmente incapace di opporre una qualsiasi "resistenza" alle campagne mediatiche che di volta in volta sorgono e muoiono nel volgere di pochissimo tempo; campagne brevi, forse anche non "intenzionali", ma che sono in grado di provocare gravissime distorsioni negli scenari politici; questa "fragilità culturale" del sistema italiano rischia di essere una tara insopportabile per qualsiasi strategia politica ed economica che voglia vedere una rinascita di questo Paese.

2. La distinzione destra-sinistra, o quella riformisti-conservatori vale poco di fronte a discorsi di strategia nazionale; in questo senso possiamo dismettere tranquillamente molti dei dibattiti che abbiamo fatto in questi anni, e anche negli ultimi tempi. Se si perdono di vista i "fondamentali", se sfuggono le "occasioni di crescita", discutere del numero di contratti da stipulare in un anno serve a ben poco.

3. Sembra fare eccezione allo sconsolante panorama italiano, l'ex premier Romano Prodi, che ha almeno la libertà e la spregiudicatezza di vedere la centralità della questione energetica, messa a rischio da questa situazione come da quella ucraina (vd. il post dedicato alla proposta)

4. Per arrivare al caso concreto Libia: purtroppo il tempo è poco e le cose da fare non sono molte; da quel che si percepisce in maniera confusa forse è impossibile "guidare" le cose, conviene "accompagnarle", tentando di sfruttare al meglio i cambiamenti in atto, contrattando duramente con i nostri alleati. Provo ad azzardare alcune questioni, anche se non ho competenze strategiche:

4.1. Si tenti di capire se nell'azione paramilitare ora in atto c'è l'appoggio degli americani e dei francesi, e ci si accordi con loro sul cosa fare; sia detto con poca ipocrisia: meglio un golpe ben fatto che il disordine, c'è poco da discutere di fronte all'ipotesi di una guerra civile, che ormai è già in corso. 

4.2. Per essere più chiari, qualsiasi scelta deve avere per noi un "ritorno"; se un governo non-fondamentalista - anche se di stampo militare - può portare una stabilità a noi utile, allora si appoggi con tutte le forze questa sorta di "colpo di stato".

4.3. La scelta deve essere chiara e condivisa dalle forze occidentali che operano nell'area; gli Stati Uniti ci chiesero di operare per la sicurezza di quel Paese e noi dobbiamo imporre che qualsiasi passaggio venga condiviso. L'Afghanistan non è per noi vitale come il Mediterraneo: anche se sarebbe giusto teoricamente continuare ancora la missione a Kabul, facciamo capire quali sono le nostre priorità.

4.4. Da parte della Francia dobbiamo essere in grado di avere lealtà e cooperazione: la possibile "bomba migratoria" che potrebbe nascere da un peggioramento della situazione non può che riguardare anche loro: è il caso di dirlo apertamente; se non ci aiutano in modo chiaro, la situazione sfuggirà di mano e il "disastro" colpirà anche loro.

4.5. Si ponga il problema libico anche in sede ONU, e con le nuove superpotenze come la Cina, che ha fortissimi interessi in Africa: se la situazione non si risolve in breve tempo, avremo - lo abbiamo già, in realtà - uno stato fallito. Deve essere chiaro che tutta la comunità internazionale deve aiutarci a garantire una qualche forma di stabilità, anche nel caso si dovesse accettare una sorta di spartizione di fatto della Libia. Se ci deve essere una qualche forma di "amministrazione controllata" di questi territori, noi dobbiamo poter essere protagonisti di qualsiasi passaggio.

4.6. Abbiamo portato in Italia personale militare libico per addestramento; a quale parte dell'esercito appartenevano? Siamo in grado di capire con chi abbiamo condiviso la nostra esperienza militare? abbiamo mantenuto contatti? questi contatti possono aiutarci?

4.7. Massima allerta sul fronte delle investigazioni, anche interne: quali sono i rischi effettivi di immigrazione di fanatici con intenzioni violente? Anche questa minaccia va condivisa con tutti gli alleati, chiarendo che se non ci danno una mano a gestire la situazione, i rischi non saranno solo dell'Italia.

Il tempo è pochissimo, e queste sembrano le poche cose da fare. E forse non solo queste, visto che è sempre necessario giocare su più tavoli. In questo momento è necessario essere realisti e spregiudicati.

Francesco Maria Mariotti

In Libia le forze armate comandate dal generale deposto Khalifa Hiftar hanno dichiarato guerra al terrorismo jihadista mettendo in dubbio l'autorità del governo di Tripoli. Venerdì scorso, il generale 71enne ha lanciato un'offensiva bombardando alcuni quartieri della città orientale di Bengasi. A Tripoli, i gruppi armati messi insieme dal "generale", hanno assaltato il parlamento. La sede dell'assemblea nazionale è stata evacuata dopo essere stata circondata da diversi veicoli corazzati entrati nella capitale dalla strada che la collega all'aeroporto di Tripoli. 



La volontà del generale Hiftar è quella di riuscire laddove il governo centrale di Tripoli ha fallito sin dal rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi: ristabilire la sicurezza nel paese riunendo in un unico esercito le diverse milizie che detengono il controllo della Libia sul terreno. L'offensiva dell'esercito parallelo di Hiftar ha generato un'escalation nei combattimenti contro le brigate degli integralisti islamici con un'intensità di sparatorie e bombardamenti che ricorda quella del 2011. Il governo libico, dopo il weekend, ha imposto una no-fly zone sui cieli di Bengasi, dove si contano al momento 70 morti e circa 140 feriti in seguito all'offensiva militare.


Dopo l'occupazione del parlamento, il generale Mokhtar Farnana, membro delle forze di Hiftar, si è rivolto alla televisione nazionale annunciando la formazione di un'assemblea costituente composta da 60 membri che dovrebbe prendere il posto dell'attuale parlamento. Rivendicando l'assalto, Farnana ha affermato di avere l'appoggio del popolo libico e di aver dichiarato guerra al terrorismo islamico.


Hifter è un personaggio un po' misterioso: schierato contro Gheddafi durante la rivolta di tre anni fa, originariamente vicino agli islamisti, fondatore di un partitino che non ha ottenuto neppure un seggio al Parlamento, se ne è andato in esilio volontario in America dove- secondo voci non confermate - avrebbe preso domicilio a pochi chilometri dalla sede della Cia a Langley. Rientrato in Libia all'inizio di quest'anno, è già stato coinvolto in una rivolta contro il potere costituito in febbraio, risoltasi in nulla. Adesso ci sta riprovando, assicurando di non cercare il potere ma di puntare solo a riportare l'ordine in un Paese in cui i poteri del governo si fermano a pochi metri dal Palazzo e, a causa del caos provocato dall'esistenza di 170 diverse milizie l'una contro l'altra armate, la produzione petrolifera, unica fonte di entrate, è precipitata da 1,5 milioni a 250-300 mila barili l'anno. In questo quadro, appare assai significativo che il generale, rifiutando l'etichetta di golpista, abbia chiesto l'aiuto internazionale per «rimuovere il cancro del terrorismo dalla Libia».


Potrebbe diventare, Haftar, l'uomo forte che riprende il controllo di una situazione sfuggita di mano a tutti, come dimostrano non solo il crollo dell'estrazione degli idrocarburi, la fuga delle imprese straniere (negli ultimi mesi ci sono stati anche i rapimenti di tre lavoratori italiani) ma anche le incontrollate partenze di massa dai suoi porti di profughi africani diretti in Italia? Nelle cancellerie occidentali, e nelle grandi compagnie petrolifere, molti sicuramente se lo augurano, anche perché in seguito alla crisi ucraina le forniture di gas e di greggio dalla Libia sono tornate ad essere più importanti.



Il nome di Khalifa Haftar non è nuovo nella storia recente della Libia. Daniele Raineri, giornalista italiano del Foglio che si occupa soprattutto di paesi arabi e Medio Oriente, aveva raccontato di Haftar già lo scorso febbraio, dopo che l’ex generale aveva fatto circolare un messaggio video in uniforme in cui chiedeva alle forze armate di «salvare» il paese. In quell’occasione, Raineri aveva raccontato la storia di Haftar:

"Nel 1983 era il comandante delle truppe di terra libiche quando Muammar Gheddafi ordinò l’invasione del confinante Ciad, poi disertò e andò a vivere in America (Virginia), per tornare in Libia quando scoppiò la rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a cercare un ruolo di primo piano. Nel luglio dell’anno scorso il generale della rivoluzione contro Gheddafi (secondo lui) oppure ora semplice colonnello (secondo altre fonti) ha fatto circolare un piano in dieci punti per tirare fuori il paese dallo stallo politico. Due punti importanti: uno è il congelamento del Congresso nazionale e l’instaurazione di un governo provvisorio, pronto a dichiarare lo stato d’emergenza per – è l’altro punto – combattere contro le milizie e sbarazzarsi finalmente di loro. Il proposito di combattere contro le milizie ribelli che a più di due anni dalla morte di Gheddafi non si sono ancora rassegnate al dopoguerra, non si fanno domare e rendono la Libia uno stato spezzettato in tante signorie guardate da jeep con mitragliatrici è l’unico punto che consegna a Haftar tanti consensi fra i libici, stanchi dell’instabilità."


martedì 4 marzo 2014

La Guerra, L'Economia, I Mercati: I Limiti Del Principe

Probabilmente è troppo presto per tirare un sospiro di sollievo sulla questione ucraina. Troppo forti gli interessi russi sulla Crimea, troppo alta la posta in gioco per l'Occidente, dal punto di vista dell'"onore" - se c'è onore nelle relazioni internazionali (forse sì, a volte no) - e dal punto di vista delle svariate "dipendenze", soprattutto economiche, che questa crisi mette in luce. 

E' invece interessante notare come oramai il "sismografo mercati finanziari" sia sempre più rilevante, anche per i paesi che forse nella percezione comune non corrispondono all'idea di nazioni - diciamo con una espressione "aggiustata" per intenderci - "a forte leva finanziaria".

In questa dialettica che non è più - e non sarà più - solo con l'economia reale, si riscontra forse il vero limite della guerra di questi tempi, e dunque della politica. 

(O forse di un certo tipo di guerra, da cui l'esplosione dei cosiddetti conflitti asimmetrici, che però confermano i limiti della potenza "classica"; e forse per questo quando i conflitti superano una certa intensità - vd. Siria - nessuno sembra in grado di fermarli, portando alla deriva totale una collettività). 

Perché nell'impossibilità di una guerra totale (ed eccezion fatta - o conferma, in realtà, come ci si domandava? - nel "suicidio" della guerra civile) - v'è scritta l'impossibilità della politica, intesa come desiderio di comando, di progettazione della realtà, di cambiamento delle strutture portanti della società.

Bene o male che sia, e personalmente mi pare che gli elementi positivi superino quelli negativi, il Principe appare spodestato o comunque non più così potente, come spesso -a sinistra come a destra - ci si illude che sia , anche quando Principe "democratico".

Nel pensare un'Europa "non-solo-moneta" faremmo bene a non illuderci di poter tornare a un'idea di collettività con una direzione comune, certa e razionalmente definita. 

Il patto che legherà le future collettività non potrà essere stipulato solo con gli elettori. Già non illudersi e non illudere i cittadini sarebbe un ottimo passo in avanti per rendere più concreti i nostri legittimi sogni di poter "costruire" un mondo migliore.

Francesco Maria Mariotti



Rispondere a Vladimir Putin con le sue stesse armi, sarebbe per l'Europa un modo veloce, diretto e completamente sbagliato. Prendendo controllo della Crimea, Putin ha violato con arroganza le leggi internazionali. Ma il suo potere nel confronto militare è maggiore di quello che può esercitare sul piano diplomatico. È al tavolo negoziale che va esposta la sua debolezza, inclusa quella economica mostrata ieri dai mercati. È lì che l'Europa può imporre il rafforzamento della democrazia in Ucraina, svalutando di riflesso l'autocrazia di Mosca. Non con minacce di missili o di dure sanzioni, come piace ai più radicali a Washington, ma seminando il virus democratico ai confini della Russia. Ogni volta che i cingoli solcano il terreno, cadiamo preda di un riflesso automatico che stigmatizza come debole o tardiva la ricerca europea di soluzioni diplomatiche. L'esperienza delle primavere arabe giustifica molti pregiudizi. Ma questa volta la cancelliera Merkel, promotrice di un approccio sia di condanna sia di mediazione attraverso un "gruppo di contatto" – che contrasta con la tentazione americana di isolare Mosca - ha ragione e bene ha fatto il governo italiano a capirlo e a sostenerlo.
di Carlo Bastasin - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/v6LfJ
L’arrivo dei soldati con e senza mostrine in Crimea solleva una doppia questione di indipendenza. Lo fa dal punto di vista politico per l’Ucraina, crocevia del gas che dai serbatoi dell’ex impero sovietico confluisce verso l’Europa attraverso una rete di 40 mila chilometri di oleodotti. E poi da quello energetico per l’Europa, terra in cui alcuni leader in queste ore si staranno forse chiedendo se sia stato davvero un affare trattare con compiacenza il sempre indisponente zar Vladimir, e quanto sia stata una buona idea non costruire un mercato unico dell’energia fondato su una rete integrata a livello continentale.
Il riscaldamento delle case e l’energia delle imprese in Lituania, Estonia e Lettonia sono legati al 100 per cento ai gasdotti che portano a Gazprom. La Romania al 97,5 per cento. La Polonia al 67. L’Europa allargata, dunque tutto quello che si trova sopra, di fianco e sotto l’Ucraina, ha una dipendenza del 30 per cento. Venticinque miliardi di metri cubi l’anno sono assorbiti dall’Italia, che da sola consuma un quinto dell’export russo verso la parte occidentale del Continente. Questa, insieme con gli interessi economici e industriali condivisi con Mosca (in primo luogo attraverso l’Eni), è la principale ragione della grande (e inevitabile) cautela diplomatica adottata dal governo.

E’ dal giorno dell’occupazione delle truppe russe in Crimea che il capo dello Stato segue con molta attenzione l’evoluzione della crisi in Ucraina. Certo, lui è il capo del Consiglio Supremo di Difesa, come vuole la Costituzione. Ma c’è di più. E’ come se l’affare ucraino, così delicato a livello internazionale, abbia fatto scattare quel ruolo di consigliere d’esperienza da parte di Napolitano nei confronti del giovane premier e del giovane ministro degli Esteri Federica Mogherini. Non una supplenza, naturalmente. Piuttosto la consapevolezza di non essere soli a gestire una questione più grande di tutti. Renzi ne ha parlato stamane con Napolitano, in quei 40 minuti di colloquio a margine dell’inaugurazione del corso accademico di formazione degli agenti dei nostri servizi segreti, proprio nella sede dell’Aisi a Monti, in centro a Roma. Di fatto, è la prima volta che il segretario del Pd si trova a dover tener conto dei suggerimenti non solo del capo dello Stato ma anche delle gerarchie militari. Insomma, in questi affari non c’è rottamazione che tenga. E la crisi Ucraina non esalta il carattere decisionista del presidente del Consiglio. E’ un bene, a sentire i giudizi che ci arrivano da ambienti militari.


Legittima difesa collettiva

L’Ucraina ha mobilitato le proprie forze armate. Essa ha diritto di esercitare la legittima difesa, come consentito dalla Carta delle Nazioni Unite, diritto che è connaturato all’esistenza stessa dello stato e che non richiede, per il suo esercizio, di essere autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Ben vengano le parole di moderazione come quelle espresse dal governo italiano, ma è assurdo non ricordare i diritti della vittima dell’aggressione e in particolare che questa può reagire con la forza armata, quantunque le forze in campo siano incommensurabili.

Alla vittima dell’attacco armato spetta non solo il diritto di legittima difesa individuale, ma anche quella collettiva: terzi stati possono intervenire a suo favore.

La Nato dispone di un meccanismo di legittima difesa collettiva a tutela dei propri membri, nel senso che se uno stato dell’alleanza è attaccato gli altri debbono intervenire a suo favore. Questo non è il caso dell’Ucraina, che non è membro della Nato.

Teoricamente però, la Nato, pur non essendovi obbligata, potrebbe intervenire a favore dell’Ucraina, con una missione decisa dal Consiglio atlantico. Teoricamente, poiché nessuno vuole morire per Kiev e infatti la Nato non è andata oltre la deplorazione dell’intervento russo e la sua stigmatizzazione come violazione del diritto internazionale. 



venerdì 27 dicembre 2013

Siria: Belgio, fino a 5.000 europei combattono per Al Qaeda

(AGI) - Bruxelles, 27 dic. - La rete terroristica di Al Qaeda ha inviato in Siria tra i 4.000 e i 5.000 combattenti europei, con passaporto di Paesi dell'area Schengen. E' quanto rivelano fonti dell'intelligence belga citate dal quotidiano francofono Le Soir. (..)

lunedì 25 novembre 2013

Siria - Quali Vie di Uscita?

(...) Il pessimo stato in cui versa è l’effetto diretto delle spaccature fra quelli che sono (o che erano) i suoi principali sponsor regionali e internazionali. Turchia e Qatar, un tempo i due supporter più importanti dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana, oggi sembrano aver deciso di rivedere completamente il proprio impegno “in prima linea”. Da una parte Ankara sta cominciando ad ammettere gli errori di calcolo commessi quando due anni e mezzo fa quando decise di puntare tutto su una rapida caduta di Assad; recrudescenza degli attacchi curdi, centinaia di migliaia di rifugiati nell’est del paese, continui incidenti di confine e, soprattutto, l’inaspettata tenacia del regime di Damasco hanno costretto Erdogan a rivalutare la propria politica siriana e ad adottare un più basso profilo. Dall’altra il Qatar si sta ancora leccando le ferite dopo il clamoroso scacco subito con la caduta di Morsi in Egitto che ha frantumato l’ambizioso disegno qatarino di divenire una potenza regionale di primo piano spodestando gli alleati-rivali sauditi attraverso il sostegno alla Fratellanza musulmana internazionale.

Oggi il nuovo “padrino” dell’opposizione siriana è l’Arabia Saudita (seguita silenziosamente dagli Emirati Arabi Uniti), che dopo il golpe in Egitto ha frettolosa-mente giocato il proprio “asso piglia tutto” diventando il primo sponsor del nuovo regime militare al Cairo e spodestando gli uomini del Qatar dai posti chiave dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana. Lo scopo che guida la mano di Riyadh in Siria è ovviamente in primo luogo la volontà di sottrarre allo storico nemico, l’Iran, il suo alleato chiave nel mondo arabo. Ma non solo. Col tempo e con il crescere delle milizie legate ad al-Qaeda sul territorio siriano è diventato di primaria importanza per i sauditi anche arginare il fenomeno qaedista. Dopo il grave scorno subito dal mancato attacco statunitense – che ha portato a un raffreddamento probabilmente senza precedenti nei rapporti fra Riyadh e Washington – i sauditi sembrano aver deciso di far da sé, alla solita maniera: addestramento e armamento di salafiti “buoni” per contrastare i salafiti “cattivi”, con buona pace dei valori laici e di unità nazionale che guidavano i primi passi della rivoluzione siriana. La pressione saudita ha portato all’ulteriore smantellamento dell’Esercito libero siriano, che ha visto un’ulteriore scissione interna guidata dalle brigate più intrise di valori religiosi. Queste ultime, quasi un terzo del totale, sono andate a formare “l’Esercito dell’Islam”, finanziato da Riyadh con l’intenzione di creare una forza islamista in grado di contrastare le formazioni di al-Nusra e di al-Qaeda in Iraq e nel Levante, espressioni dirette della galassia jihadista internazionale in Siria.(...)


Si sarebbe tentati dal dire che è l’effetto dell’accordo del P5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu più i tedeschi) con Teheran sul nucleare, ma sarebbe troppo facile. Anche se sarebbe sbagliato non valutarlo come segno di un clima che sta cambiando. L’Onu ha annunciato che, dopo tanti rinvii, la conferenza internazionale per trovare una soluzione alla crisi siriana di terrà finalmente a Ginevra il 22 gennaio. 

Il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, mentre partecipava oggi al Media forum italo-russo insieme con la collega Emma Bonino, ha sottolineato: “La conferenza si poteva fare prima di gennaio se non ci fosse stato l’egoismo politico dell’opposizione siriana”.  

Come è noto l’opposizione è un complicato arcipelago composto da forze che si rifanno a vari sponsor come l’Arabia Saudita e la Turchia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, e altre, molto forti sul campo, che si rifanno all’estremismo salafita vicino all’icona terroristica di Al Qaeda.  

Il grosso ostacolo finora era che nessun gruppo, neppure quelli più moderati voleva trattare con Assad. (...) 

martedì 19 novembre 2013

Libano, attentato all’ambasciata iraniana (da laStampa.it)

(...) L’attentato è stato rivendicato dalle Brigate Abdullah Azzam, un gruppo qaedista che opera in Libano. «È stato «il martirio di due eroi sunniti libanesi», ha dichiarato un portavoce, Sirajeddin Zreikat. Sembra quindi confermato che l’attacco affonda le radici nella guerra civile nella vicina Siria, dove i gruppi qaedisti si sono uniti alla lotta armata contro il regime di Damasco. L’Iran è il maggior alleato regionale del presidente Bashar al-Assad. Il gruppo qaedista, oltre a chiedere che vengano liberati dalle carceri libanesi i suoi miliziani, minaccia altri attentati se Hezbollah non si ritirerà dalla Siria. (...)

Libia: rilasciato numero 2 intelligence (ANSA)

(ANSA) - TRIPOLI, 18 NOV - Il numero due dell'intelligence libica, Mustafa Nuh, e' stato rilasciato. Lo riferiscono fonti della sicurezza. Nuh era stato sequestrato ieri subito dopo essere arrivato all'aeroporto di Tripoli con un volo proveniente dalla Turchia. (...)

lunedì 18 novembre 2013

Libia: rapito numero due intelligence (ANSA)

(ANSA) - TRIPOLI, 17 NOV - Il vice capo dell'intelligence libica, Mustafa Noah, è stato rapito all'aeroporto di Tripoli dopo essere atterrato con un volo proveniente dalla Turchia. Lo riferiscono due fonti dei servizi.

Noah è il capo dell'unità di spionaggio. Mentre lasciava l'aeroporto, senza guardie del corpo, è stato trascinato dentro una macchina e portato via.(....)


lunedì 7 ottobre 2013

Libia, Terra Senza Legge (da ilGiornale)

(...) La paralisi d'intere zone del paese causata dagli scontri tra milizie rivali, le infiltrazioni di Al Qaida arrivata a minacciare i pozzi petroliferi, l'emergere di signori della guerra decisi a riscuotere tasse di «protezione» sempre più ingenti sulle risorse sotto il loro controllo mettono a rischio anche i gasdotti essenziali per il nostro fabbisogno. Il caos libico, l'impotenza e la mancanza d'autorità dei governi del dopo Gheddafi sono anche la causa della nuova ondata di sbarchi sulle nostre coste. Misurata, il porto da dove è salpato il barcone naufragato a Lampedusa, è da due anni il capoluogo di una regione dove il governo non controlla né polizia, né esercito, né autorità portuali. Banchine e approdi sono nelle mani di chi paga le milizie locali o se ne garantisce il controllo con la forza delle armi. Lo stesso vale sia per Tripoli, dove le milizie si contendono il controllo delle varie zone della città, sia per Bengasi, sia per gli altri porti. Da luglio Brega e Ras Lanuf, due terminali essenziali per le esportazioni del greggio, sono alla mercé di Ibrahim al-Jathran, un ex-galeotto 33 enne tirato fuori di galera alla caduta di Gheddafi e messo alla testa di una milizia pagata, in teoria, per garantire la protezione delle installazioni petrolifere governative. Una milizia usata ora da Jahtran per occupare i terminali, ricattare il governo e farsi riconoscere il controllo di una buona fetta della Cirenaica. Risultato: blocco delle forniture, perdite per oltre cinque miliardi di dollari e una situazione di anarchia in cui si rischia la guerra civile.
In un simile frangente immaginare d'arginare la minaccia di Al Qaida, contrastare i signori della guerra e fermare i contrabbandieri di esseri umani implorando l'intervento dell'impotente governo centrale di Tripoli è pura utopia. E tra le nebbie dell'utopia emerge sempre più concreto il profilo di una Libia nel caos. Una Libia da cui non pomperemo più greggio, ma solo disordine, pericoli e insicurezza. Una Libia molto simile alla Somalia, ma distante, stavolta, meno di 400 chilometri dalle nostre coste.

domenica 25 agosto 2013

Siria: Si Avvicina l'Intervento?

(...) I russi sanno cosa vogliono a Damasco, una transizione controllata, non gli americani che pure condividono in parte le preoccupazioni Mosca. Al Congresso, pochi giorni fa, il capo di stato maggiore americano Martin Dempsey è stato esplicito: «Nessuno nel fronte dei ribelli è in grado di garantire i nostri interessi. Qui non ci sono moderati che possono prendere il potere». È un dato di fatto: il Free Syrian Army sponsorizzato dai turchi è un ombrello di formazioni variegate e litigiose mentre imperversano i gruppi jihadisti di al-Qaida e di Jabat al Nusra. Se sarà guerra sarà una guerra al buio, ha spiegato il comandante in capo Dempsey, veterano del Golfo e dell'Iraq. «Un intervento Usa - ha detto - non risolverebbe i problemi religiosi, tribali e settari della Siria». E neppure quelli del Medio Oriente intorno. Forse la Siria merita qualche cosa di meglio di uno sparo nel buio. 
di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Ged9G

(...) La rapidità con la quale stanno riunendosi gli organismi consultivi per discutere di opzioni militari lascia intendere che qualcosa sta davvero muovendosi sul piano militare. Nei giorni scorsi soni entrati in azione nel sud i primi reparti di ribelli dell'Esercito Siriano Libero addestrati e armati in territorio giordano dai consiglieri militari statunitensi come ha raccontato Le Figaro. "Un primo gruppo di 300 uomini, senza dubbio sostenuto da israeliani e giordani così come da uomini della Cia, avrebbe attraversato la frontiera il 17 agosto e un secondo gruppo li avrebbe raggiunti due giorni dopo"– scrive il quotidiano francese. Se Washington ha deciso di intervenire con le armi le opzioni disponibili sono almeno cinque. (...)
di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/qdmBC

mercoledì 19 dicembre 2012

Grecia, un paese in stato di shock (da PressEurop)


(...) Ma in questo modo ci sfugge la verità. Sulla Grecia, sulla Germania e sull’Europa. Pieper parla di “rimozione di massa” per spiegare ciò che sta accadendo, e i meccanismi di difesa dei politici, in particolare, funzionano a meraviglia. 

Ecco come si è presentata la Grecia agli occhi di Pieper nell’ottobre del 2012: donne in avanzato stato di gravidanza supplicano gli ospedali di farle entrare, e se non hanno un’assicurazione o denaro a sufficienza nessuno le aiuta a mettere al mondo i loro figli. Persone che fino a poco tempo fa facevano ancora parte della classe media raccolgono resti di frutta e legumi per le strade della periferia di Atene. 

Un vecchio racconta che non può più pagare le medicine per il cuore perché la sua pensione è stata dimezzata. Dopo aver lavorato per più di quarant’anni pensava di aver fatto il suo dovere, ma oggi non capisce più come funziona il mondo. Le persone che vanno in ospedale sono invitate a portarsi da casa lenzuola e cibo. Da quando le imprese di manutenzione sono state congedate sono i medici, gli infermieri e gli aiuto-infermieri (senza stipendio da mesi) che si incaricano della gestione delle strutture. In ospedale mancano guanti e cateteri. L’Unione europea parla di un rischio di propagazione di malattie infettive. (...) 

Non serve essere una Cassandra o un esperto per immaginare l’impatto che tutto questo può avere sulle relazioni sociali tra gli individui e sul clima della società greca. Il risentimento nei confronti di un sistema corrotto e di una politica internazionale i cui aiuti finiscono nelle casse delle banche anziché nelle tasche dei bisognosi è enorme. E se possibile sta aumentando. Gli uomini portano questo odio a casa, in famiglia, e i loro figli lo riportano in strada. I gruppi violenti che attaccano le minoranze si moltiplicano rapidamente. 
A novembre gli Stati Uniti hanno emanato un avviso per chi aveva intenzione di recarsi in Grecia, sottolineando la pericolosità del paese, in particolare per i neri. Per la Grecia, da sempre considerata un luogo ospitale, è qualcosa di sconvolgente. 

In tempi normali anche il più terribile degli eventi non è sufficiente a mettere l’individuo in ginocchio, spiega Pieper, perché tutti noi siamo dotati di un istinto di sopravvivenza estremamente sviluppato. E questa è una buona notizia. La cattiva notizia è che questo istinto funziona soltanto in una società in salute, capace di ammortizzare lo shock. La tragedia di Utøya ha mostrato la forza che una società di questo tipo è in grado di sprigionare. Tutta la Norvegia ha sostenuto le vittime dopo il massacro, come se qualcuno avesse coperto il paese con una campana di solidarietà. 

In Grecia le fondamenta della società sono state erose fino a farla affondare. La crisi ha annientato lo stato sociale. “L’uomo – scrive Geog Pieper – si trasforma in un essere selvaggio in questo tipo di situazioni drammatiche”. La necessità lo allontana dalla ragione, e l’egoismo prende il posto della solidarietà. (...)


lunedì 3 dicembre 2012

Siria vicino al collasso?


(...) Le intelligence straniere ritengono che la Siria abbia il più grosso arsenale di armi chimiche tra cui iprite, gas nervini come il Sarin e il più letale di tutti, il Vx.

«Si tratta di una linea rossa per noi, ancora una volta abbiamo avvertito Assad, il suo comportamento è da condannare, le sue azioni contro il popolo siriano sono tragiche» ha detto Clinton. Secondo la quale l'eventuale uso di armi chimiche da parte del regime siriano provocherebbe una risposta degli Stati Uniti. 
Le preoccupazioni degli Usa su un eventuale ricorso del regime di Damasco del suo arsenale di armi chimiche «sono aumentate», ha aggiunto nel pomeriggio il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, sottolineando come sia in allo studio «un piano di emergenza». «Assad deve sapere che il mondo sta guardando», ha detto Carney, senza però anticipare quali azioni gli Stati Uniti intendano prendere. (...)




Innanzitutto, anche se questo, forse, non è ancora il fattore più importante: il Consiglio Nazionale Siriano ( un organismo scarsamente rappresentativo e formato soprattutto da esuli vicini ai Fratelli Musulmani o all’ opposizione liberale con pochi agganci con la realtà fattuale della resistenza nel paese) è stato sciolto per dar vita ad un nuovo organismo più rappresentativo che dovrebbe dar vita in futuro ad un governo provvisorio in esilio riconosciuto internazionalmente dai paesi arabi ed europei per il quale si sono battuti soprattutto la Francia, i Paesi del Golfo, la Turchia ecc. A questo organismo, per ora non aderiscono quei gruppi salafiti e jihadisti, molto combattivi e ben armati, come lo Jabhat al Nusra che è passato da una tattica basata sugli attentati alla bomba a vere e proprie tattiche militari.

lunedì 16 luglio 2012

I rumori dei passi di un regime che se ne va (Corriere.it)


«I RUMORI DEI PASSI DI UN REGIME CHE SE NE VA» - E sulla crisi siriana è intervenuto il premier turco: «Presto o tardi questo tiranno sanguinario se ne andrà e il popolo siriano gli chiederà conto delle stragi che ha commesso». Lo ha detto Recep Tayyip Erdogan, definendo le ultime vicende in Siria come «il rumore dei passi di un regime che se ne va». «Non ci sono più parole per descrivere quello che accade in Siria - ha detto Erdogan durante un congresso provinciale di partito a Kocaeli - Questi massacri crudeli e tentativi di genocidio, questa brutalità disumana non sono altro che il rumore dei passi di un regime che se ne va». «Abbiamo visto la stessa situazione con il regime di Saddam in Iraq, con quello di Gheddafi in Libia e con quello di Mubarak in Egitto - ha proseguito - Chi punta le armi contro il suo popolo per la sua personale ambizione e per mantenere il suo porto si sta solo preparando alla sua fine». «Per decenni il regime siriano autocratico non ha sparato un solo colpo per difendere la terra sotto occupazione - ha detto riferendosi alle alture del Golan, occupate da Israele - Questo regime dittatoriale non ha avuto il coraggio di sparare una sola pallottola ai veicoli militari armati nel suo territorio, nel suo spazio aereo o nelle sue acque. Ha solo potuto attaccare un aereo non armato nelle acque internazionali». Un riferimento all'aereo turco abbattuto dalla Siria il 22 giugno. Erdogan ha quindi paragonato le recenti stragi, tra cui quella di Tremseh, nella provincia di Hama, a quella che il padre e predecessore di Assad, Hafez al-Assad, ha compiuto nel 1982 sempre a Hama. «Sfortunatamente allora il mondo non alzò la voce contro quello che accade - ha proseguito - Ma oggi non c'è più una Turchia debole e muta che volta le spalle ai fratelli e vicini della regione». L'articolo integrale del Corriere

lunedì 2 luglio 2012

Siamo Ancora in Guerra, in Libia?

Le notizie che riporto sono da prendere con molta cautela, in quanto Asianews - sito generalmente ben informato - non specifica esattamente quali siano le sue fonti. Di fatto però il senso politico non appare - purtroppo - come una sorpresa: come già si è detto in altri momenti, in Libia la situazione non è affatto risolta. Per cui, detto crudemente, non ci sarebbe scandalo se la NATO stesse monitorando la situazione e stesse ancora intervenendo fattualmente (anche "al di fuori" della missione ufficiale, che si diceva conclusa); è però assolutamente da valutare con prudenza  - e "sana diffidenza", mi verrebbe da dire - ogni notizia di bombardamento, per evitare di cadere oggi in errori di "false notizie" che ci sono già state, in questa brutta vicenda.

Francesco Maria Mariotti

(...) Secondo le fonti, le forze dell'Alleanza atlantica non hanno mai abbondonato il Paese. "Tre settimane fa - raccontano - i jet Nato hanno lanciato un fitto bombardamento su due città in lotta fra di loro: Zintan e Mashasha". La prima è una delle più importanti roccaforti dei ribelli e per tutto il periodo della guerra ha avuto il sostegno da parte della Nato.  La seconda è invece abitata da popolazioni nomadi originarie del Niger. Essa era stata costruita dallo stesso Gheddafi per permettere ai popoli del deserto di diventare stanziali. I suoi abitanti hanno sostenuto il rais durante l'offensiva contro Zintan. "Caduto il dittatore - continuano le fonti di AsiaNews - Zintan si è vendicata lanciando attacchi contro Mashasha che ha risposto lanciando missili e bombe di mortaio. Per fermare la violenze la Nato ha bombardato entrambe le città, facendo diversi morti. L'Alleanza atlantica ha giustificato le bombe contro Zintan, sua alleata, come un errore balistico. E questo nel silenzio totale dei media".(...)

venerdì 17 febbraio 2012

Libia, Un Anno Dopo

(...) Un vero e proprio esercito nazionale non esiste e le armi in circolazione sono ancora tantissime. Nella sola Misurata un ricercatore di Human Rights Watch ha individuato ben 250 diverse brigate. Sono loro a mantenere l’ordine nelle strade, ma sono sempre loro, paradossalmente, a costituire la minaccia maggiore per la sicurezza nazionale. La brigata di Zintan, protagonista della conquista di Tripoli e dell’arresto di Saif al Islam Gheddafi, controlla l’aeroporto della capitale e non ha intenzione di cedere la posizione. I conflitti tra milizie non sono rari. I combattenti di Misurata, ad esempio, si sono scontrati con gli uomini di Bengasi e della stessa Zintan, che proteggevano i rifugiati di Tawarga, colpevoli di non avere abbracciato la causa rivoluzionaria.

I rapporti delle organizzazioni per i diritti umani sono impietosi. Secondo Amnesty International, dodici detenuti in mano alle brigate sono morti in seguito alle torture, compreso l’ex ambasciatore a Parigi Omar Brebesh. Le carceri libiche contengono più di ottomila persone, molte di loro sono state lasciate alla mercé delle violenze indiscriminate delle milizie. Le vendette contro i gheddafiani, o i sospettati di gheddafismo, come i prigionieri dei paesi subsahariani, sono all’ordine del giorno. Saif al Islam è ancora nelle mani dei misuratini e ci sono forti dubbi sugli standard giuridici del processo che lo vedrà protagonista.

La legge della forza prevale sullo stato di diritto, le fedeltà locali su quella nazionale.
Il ruolo dei clan è motivo di dibattito. Gheddafi era stato abile ad assicurarsi l’appoggio di alcune tribù, in primo luogo i Warfalla, ma anche i Magarha, impedendo al tempo stesso che qualcuna di loro acquisisse troppo potere. Alcuni analisti ritengono che oggi la maggior parte dei clan abbia perso credito e non costituisca più una minaccia.
Durante la guerra gli stessi Warfalla si sono divisi: alcuni sono rimasti col Colonnello, altri hanno guidato la rivolta, come l’ex premier del Cnt, Mahmoud Jibril. Il mese scorso a Bani Walid, roccaforte del gheddafismo, c’è stato un duro scontro armato tra i Warfalla e gli uomini del Cnt. Ma la cacciata dei tripolini e l’instaurazione di un nuovo consiglio è sembrata più una lotta per il riconoscimento di un potere locale che il tentativo di far tornare indietro l’orologio della storia.(...)


Leggi anche:

In Libia un anno dopo la rivolta c’è un nuovo Gheddafi
Arturo Varvelli*
Ad un anno dal giorno della Collera, pochi in Libia vedono di buon occhio il suo leader Jalil. L’unica legittimità del Cnt appare derivare dal pronto e forte appoggio dato da occidentali e mondo arabo, Francia e Qatar su tutti. Intanto si avvicinano le elezioni di giugno. Molti le domande: si voterà regolarmente? Che fine farà il Cnt? Intanto si susseguono gli scontri con morti, soprattutto a Tripoli e in Tripolitania, e gli abusi – denunciati dalle ong – dei vincitori sui vinti.
http://www.linkiesta.it/libia-cnt-elezioni 

mercoledì 25 gennaio 2012

Cosa sta succedendo in Libia?


Cosa sta succedendo in Libia? Si è già scritto dell'invio a parte degli Stati Uniti di contractor per tentare di gestire la difficile fase di transizione. 
La questione è assai delicata, ma quando si parla di contractor si intende - generalmente - soldati gestiti da imprese private (l'uso del temine mercenari rischia di essere fuorviante), che stipulano accordi con i governi di tipo "outsourcing", relativi a compiti di sicurezza che per vari motivi i governi stessi non possano/vogliano gestire direttamente.

Il timore che accompagna l'azione di queste compagnie - quasi sicuramente già presenti in Libia dai tempi della guerra - è che esse, in quanto non inquadrate negli eserciti regolari, abbiano meno vincoli alle loro azioni e siano meno controllabili.

D'altro canto, dal punto di vista italiano nostri militari (regolari, si badi) addestreranno le forze libiche.  
In questo senso cinicamente potremmo dire che la confusione aiuta un nostro reinserimento nel gioco.

In ogni caso si hanno ulteriori elementi, in questi giorni (si vedano gli articoli proposti qui sotto), per dire che la sciagurata idea di far fuori Gheddafi si sta confermando un drammatico errore.

Occorre ricominciare dai fondamentali: non si abbatte un regime se non si ha la capacità di gestire le fasi successive; non si fa la guerra se non si è capaci di occupare effettivamente il territorio su cui si combatte per tutto il tempo necessario; e, da ultimo: uno stato in piedi - per quanto dittatoriale - è meglio di una guerra civile incontrollata.

Poche cose da tenere a mente, a futura memoria.
Sperando che la "nuova" Libia tenga, e non ci faccia versare lacrime ben più amare del passato.

Francesco Maria Mariotti

(...)Responsabili delle violenze delle ultime settimane sono ex miliziani che fino alla caduta del regime hanno combattuto a Tripoli, Sirte e Misurata contro i lealisti di Gheddafi. Si attendevano una ricompensa per i loro servizi, ma oggi pensano di essere stati messi da parte dai nuovi leader e temono che non troveranno sbocchi professionali per poter vivere dignitosamente. (...) Quel che è certo è che la pacificazione promessa è ancora molto lontana e che la guerra civile, come ha ammesso lo stesso Jalil, è ormai una realtà. 
Un centinaio di militari italiani sbarcheranno in Libia per dare vita all'operazione Cirene, missione di addestramento e consulenza destinata alle forze armate e di sicurezza libiche. Forze la cui consistenza e inquadramento sono al momento solo teorici considerato che decine di milizie che hanno combattuto Gheddafi restano armate e si fronteggiano a Tripoli e in alter località del Paese mentre nella Cirenaica Orientale è segnalata la presenza di una milizia di al-Qaeda forte di almeno 200 miliziani. La nomina del nuovo comandante delle forze armate, il generale in pensione Yousef al-Manqoush , non è stata riconosciuta da molte milizie incluse quelle islamiche e di Zintan e Misurata con il rischio di una guerra civile paventato già più volte dallo stesso Jalil. di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - leggi su Soldati italiani per addestrare le forze libiche

In Libia non esiste ancora un unico esercito nazionale e il risultato è il perdurare delle bande armate nel Paese. Il Cnt ha già commesso due errori: non ha evitato una giustizia sommaria e non riesce ancora a garantire sicurezza, scrive Arturo Varvelli, ricercatore all'Istituto per gli studi di politica internazionale. Un ulteriore problema è costituito dalla legittimità del governo: che è scarsa all'interno ma compensata da una forte legittimazione esterna. Le elezioni della Costituente di giugno appaiono ora troppo lontane. Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/gli-amici-della-nato-governano-libia-ma-fanno-disastri#ixzz1kU6vcGoE

Vd. Anche