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sabato 3 agosto 2019

Allarghiamo Il Castello

Impressione mia, magari i sondaggi e simulazioni varie sono fatte meglio di quanto io pensi: si continua a fare calcoli di voti e proiezioni di consenso "rassegnandosi" a una base elettorale sempre più stretta.

Forse c'è un'Italia né "buonista" né "cattivista" (per semplificare al massimo) che attende di essere rappresentata.

Forse c'è un'Italia che sarebbe capace di affrontare le sfide del futuro senza paura (o governando gli inevitabili timori che sorgono di fronte alle incognite della vita), se trovasse interlocutori politici che siano capaci di coinvolgerla, senza cercare "rottamazioni", "ruspe", illusioni varie.

L'attuale "principe" sembra re perché il castello si è fatto piccolo. Allarghiamo i confini, ridisegniamo le mura e il fossato, e il trono vacillerà: le bande rumorose dei prepotenti, forse, torneranno al silenzio.

FMM

Testo originariamente pubblicato qui:

giovedì 30 gennaio 2014

La Democrazia E' Conflitto (+ Rassegna stampa su "quote" Banca d'Italia)

Oggi (ieri, oramai, a essere precisi), Enrico Mentana ha detto durante il suo telegiornale che alla Camera non si erano mai viste scene come quelle che hanno posto in essere i cosiddetti "grilllini". Questa sera si è anche saputo dell'occupazione dell'aula della prima commissione, con impedimento al lavoro dei parlamentari. 

L'atteggiamento dei deputati grillini è sicuramente eccessivo e discutibile, e ci sono gli strumenti regolamentari per eventualmene punire i deputati che hanno esagerato; personalmente sono lontano anni luce da quel movimento, e rimango dell'idea che la stabilità sia un valore primario - oggi - per l'Italia, e in questo senso appoggio - pur con molti dubbi - il governo Letta.

Detto ciò, non è il caso di alzare eccessivamente i toni, nel giudicare e reagire alle "prepotenze" del movimento grillino. Credo che tutti ricordiamo scene "pesanti" in Parlamento; fa parte delle dinamiche anche dure che possono esserci fra maggioranza e opposizione. 

C'è comunque una cosa che una qualsiasi maggioranza democratica non può fare: pretendere di dettare alla minoranza come deve fare la minoranza, come deve fare opposizione. Non può. Anche se la minoranza utilizza metodi e stile discutibili.

Certo, devono esserci regole - come quella oggi richiamata dalla Presidente Boldrini - con le quali riuscire a sbloccare l'impasse parlamentare; certo, come si dice spesso, la nostra deve essere una democrazia "che decide", e quindi a un certo punto "meccanismi - tagliola" sono inevitabili.

Però - soprattutto in un momento storico come quello attuale, e ancor più in una fase delicata come quella in cui si dicute di nuove norme elettorali - non ci si può scandalizzare se una forza politica che ha sempre detto di fare opposizione dura la fa poi realmente. 

Altrimenti - al di là delle migliori intenzioni - si rischia di assomigliare a quei leader politici che dicono alle opposizioni: "Lasciateci lavorare", "Non disturbate il manovratore", e via così dicendo... 

No, spiacente. Democrazia è conflitto, anche nelle sedi del dibattito (anzi, forse deve esserlo soprattutto lì, anche per "evitare" e "assorbire", diciamo così, il conflitto fra i cittadini...). 

Meglio non dimenticarlo.

Francesco Maria

ps: sul problema delle "quote" di Banca d'Italia alcuni articoli di approfondimento

(...) L’assetto azionario della Banca va però rivisto, per almeno tre ragioni. In primo luogo, i processi di concentrazione avvenuti negli ultimi anni hanno accresciuto la percentuale del capitale della Banca detenuta dai gruppi bancari di maggiori dimensioni. Ciò non ha creato problemi di sostanza, grazie alle norme che limitano i diritti dei partecipanti, ma è necessario evitare la possibile (erronea) percezione che la Banca possa essere influenzata dai suoi maggiori azionisti.
In secondo luogo, occorre evitare che si dispieghino gli effetti negativi della legge n. 262 del 2005, mai attuata, che contempla un possibile trasferimento allo Stato della proprietà del capitale della Banca. L’equilibrio che per anni ha assicurato l’indipendenza dell’Istituto, preservandone la capacità di resistere alle pressioni politiche, non va alterato.
In terzo luogo, è necessario modificare le norme che disciplinano la struttura proprietaria per chiarire che i partecipanti non hanno diritti economici sulla parte delle riserve della Banca riveniente dal signoraggio, poiché quest’ultimo deriva esclusivamente dall’esercizio di una funzione pubblica (l’emissione di banconote) attribuita per legge alla banca centrale.(...)
Il modo più ovvio per ridurre la concentrazione dei partecipanti al capitale della Banca consiste nell’introduzione di un limite massimo alla percentuale di quote detenibili da ciascun soggetto, ampliando al tempo stesso la base azionaria. A tal fine, le quote dovrebbero essere facilmente trasferibili e in grado di attrarre potenziali acquirenti (investitori istituzionali con un orizzonte di lungo periodo).
Per raggiungere questi obiettivi è necessario: i) calcolare il valore corrente delle quote della Banca; ii) aumentare il valore del capitale della Banca (al momento puramente simbolico), trasferendo una parte di riserve a capitale; iii) attribuire ai partecipanti un flusso futuro di dividendi, il cui valore attuale netto sia pari al valore corrente stimato delle azioni della Banca (ponendo contemporaneamente fine a ogni eventuale pretesa sulle riserve statutarie); iv) fissare un limite
massimo alla quota di capitale detenibile da una singola istituzione o gruppo, stabilendo un intervallo temporale entro il quale cedere obbligatoriamente le quote eccedenti.(...)



La rivalutazione delle quote della Banca d'Italia continua a essere uno dei punti più spinosi per Il Tesoro. Una mossa che permetterà agli istituti di credito italiani di avere una posizione migliore rispetto a quella odierna nella prossima Asset Quality Review della Banca centrale europea. Potranno infatti avere più capitale a disposizione per affrontare la sorta di due diligence che sarà condotta nei prossimi dodici mesi. Allo stesso tempo, potranno godere di agevolazioni, come quelle sui dividendi. Un atteggiamento, quello tenuto dal Tesoro, che però continua a impensierire sia Commissione europea sia Bce, che stanno studiando le possibili implicazioni della misura. Mario Draghi ha spiegato oggi 5 dicembre che il consiglio direttivo della Bce non ha ancora stilato un parere in merito, mentre il Senato ha dato disco verde al decreto nonostante la bocciatura di ieri da parte della commissione Affari costituzionali.


Quello che il governo propone è che il valore nominale di queste quote sia rivalutato. Dagli attuali 156 mila euro a un valore che oscilla fra i 5 e i 7 miliardi. Fatta la rivalutazione, le banche potrebbero iscrivere a bilancio il valore rivalutato delle quote generando quindi una plusvalenza finanziaria complessiva che andrebbe dai 4 ai 6 miliardi. Plusvalenza che sarà tassata come una normale plusvalenza finanziaria. Meccanismo semplice e redditizio: con un tratto di penna il governo potrebbe alla fine recuperare circa 1-1.5 miliardi (il gettito derivante dall’imposta sulla plusvalenza), utilissimi a far quadrare i conti. Assumere una rivalutazione compresa fra i 5 e i 7 miliardi non è ipotesi di scuola. Il comitato di esperti nominati dal governo per portare avanti la rivalutazione - esperti di indubbia caratura accademica se vi compare il rettore della Bocconi Andrea Sironi insieme a Franco Gallo e Luca Papademos (qui il link al rapporto) - ha individuato tale forchetta come valore congruo per le quote di Banca d’Italia. A prima vista potrebbe sembrare che saranno gli istituti di credito a pagare per le promesse del governo di larghe intese. Non è così purtroppo.


A giorni la commissione di esperti incaricati di valutare il patrimonio di Banca d’Italiaconsegnerà il suo rapporto al governatore Ignazio Visco. Ma i principali protagonisti della cosiddetta Cabina di Regia hanno già fatto i loro calcoli e  contano su questa operazione per finanziare nuove spese o riduzioni di tasse senza coperture. Vediamo prima di cosa si tratta e poi perché è un’operazione molto pericolosa, in cui le banche che detengono quote di Banca d’Italia e il Governo possono colludere ai danni dei contribuenti.
Le banche italiane che un tempo facevano parte del settore pubblico allargato detengono ancora il 94,33 per cento del capitale di Banca d’Italia. Solo il 5 per cento è proprietà di enti pubblici come Inps e Inail. È un retaggio del passato, che risale all’epoca delle banche d’interesse nazionale. Per quanto non abbiano mai consentito a queste banche, poi divenute private, la benché minima possibilità di incidere sugli indirizzi di vigilanza, né su qualsiasi altro aspetto dell’attività della Banca d’Italia, sarebbe opportuno, prima o poi, trasferire le quote ad enti pubblici oppure a una fondazione creata ad hoc, come in Francia. Del resto è lo stesso statuto di via Nazionale a contemplare che la Banca debba essere di proprietà pubblica. Ed è difficilmente immaginabile una banca nazionale posseduta da soggetti privati stranieri, quali sono già alcuni istituti bancari che detengono le quote e, presumibilmente, altri ancora lo saranno alla luce dei processi di aggregazione in atto a livello continentale dopo la crisi. Ma a che prezzo si può organizzare il trasferimento?

martedì 26 novembre 2013

Iran: Accordo Inevitabile? O Inutile?

L'accordo tra il "5+ 1" (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran è difficile da valutare: sembra essere inevitabile, forse anche per certi aspetti "positivo", al tempo stesso inutile. E comunque porta con sé una quota di "rischio" che non può essere sottovalutata, e che rende molto comprensibile la dura reazione israeliana. 

Inevitabile, perché ormai le mosse dei giocatori si erano portate su un territorio dal quale "ritirarsi" era forse impossibile, a meno di non voler aprire una fase "drammatica" ed "esplicita" del conflitto (la fase "implicita" e coperta essendo già in corso).

Positivo, sia pur detto con moltissime cautele, perché almeno sulla carta vengono posti limiti all'attività iraniana, pur con inevitabili ambiguità; e questi limiti - teoricamente - possono servire a "sorvegliare" Teheran, che è chiamata ad accettare le ispezioni dell'ONU, senza più alcun alibi (non che prima le motivazioni per rifiutarle fossero reali e fondate, ma è comunque importante togliere quasiasi pretesto); il problema è naturalmente capire se le ispezioni riusciranno a essere così stringenti da verificare effettivamente le eventuali violazioni al patto.

Inutile, perché questi sei mesi di prova possono funzionare, ma se il Medio Oriente tutto non viene coinvolto - e in questo senso all'orizzonte c'è anche la drammatica questione siriana - questo accordo non porrà certo le basi di una pace duratura (solo in un quadro di pace ogni paese potrebbe legittimamente rivendicare autonomia nelle scelte energetiche).

Anzi: come segnalato in uno degli articoli qui sotto riportati, il rischio è che l'accordo segni una "stabilizzazione" del regime iraniano, che può trovare ossigeno (anche finanziario) con il quale resistere ai segnali e ai tentativi di cambiamento.

E' proprio questa - in ultimo - la posta in palio con il nucleare, per Teheran: non un'improbabile guerra atomica, ma il "congelamento" della situazione politica interna, l'alzare il prezzo di qualsiasi possibile cambiamento profondo.

Non potendo e non volendo alzare la tensione, forse l'Occidente non poteva fare altro, per il momento.

Una scelta inevitabile, dunque. Ai fatti decidere se sarà stato un primo felice passo, o un azzardo che pagheremo più caro, più avanti.

Meglio prepararsi a tutto.

Francesco Maria Mariotti

Non è tutto oro quel che luccica. L’accordo tra il “5+1” (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran suscita perplessità e malcontento in più di un attore del grande gioco mediorientale, e non solo. La sospensione per sei mesi delle sanzioni sulla Repubblica Islamica iraniana, ottenuta in cambio di alcune concessioni all’Occidente sul programma nucleare, promette di portare circa sette miliardi di dollari nelle casse di Teheran. Un miglioramento, anche se lieve, delle condizioni economiche del Paese verrebbe sfruttato dal regime degli Ayatollah per legittimare la propria permanenza al potere, messa in crisi dalle proteste del 2009 e dal peggioramento delle condizioni di vita di milioni di iraniani, stretti tra disoccupazione e inflazione. I primi “sconfitti” di questo accordo sarebbero quindi gli oppositori interni del regime.(...)

«L’intesa sicuramente rafforza la Repubblica Islamica nel suo complesso», spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di Storia e istituzioni dei paesi islamici all’Università di Genova. «La questione è abbastanza complessa. I “falchi” del clero sciita e dei Pasdaran stanno già attaccando l’accordo raggiunto, sostenendo che ci si è spinti troppi avanti, ma si tratta del solito gioco delle parti. L’ala moderata rappresentata da Rohani e dal ministro degli Esteri Zarif è riuscita nell’impresa di ottenere al tavolo dei negoziati l’allentamento delle sanzioni, con conseguenze economiche favorevoli per la popolazione iraniana, stabilizzando di fatto la Repubblica Islamica. Questa è una cosa positiva per tutti i suoi sostenitori».(...)



A riassumere il capitolo meno noto della diplomazia dell’amministrazione Obama è stato il luogo della Casa Bianca scelto per annunciarne il successo: la State Dining Room, con alle spalle il grande ritratto di Abramo Lincoln. Proprio a Lincoln infatti Obama si riferì nel discorso di insediamento a Washington, il 20 gennaio 2009, ispirandosi alla sua scelta di «cooperare con i nemici» dopo la vittoria nella guerra civile per mandare un messaggio esplicito all’Iran: «Tenderemo la mano, se voi aprirete il pugno».


Cosa concede l'Iran in cambio dell'alleggerimento delle sanzioni? Il Paese non ha ceduto, per il momento, sull'arricchimento dell'uranio a scopi civili ma deve neutralizzare l'uranio già arricchito al 20% (considerato vicino a quello necessario per armi atomiche) riconvertendolo o diluendolo fino al 5 per cento. Nell'accordo la comunità internazionale concede infatti a Teheran di continuare ad arricchire l'uranio fino al 5 per cento. Le centrifughe in grado di effettuare un arricchimento superiore dovranno essere disattivate e il Paese non ne produrrà di nuove. Questa parte dell'accordo comporta che circa la metà delle centrifughe in funzione a Natanz e tre quarti di quelle di Fordow verranno rese inoperative. Congelerà le attività nell'impianto di acqua pesante di Arak che, se costruito, potrebbe produrre plutonio per un'arma nucleare. 

di Roberta Miraglia. Con un articolo di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/deALF

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lunedì 25 novembre 2013

Siria - Quali Vie di Uscita?

(...) Il pessimo stato in cui versa è l’effetto diretto delle spaccature fra quelli che sono (o che erano) i suoi principali sponsor regionali e internazionali. Turchia e Qatar, un tempo i due supporter più importanti dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana, oggi sembrano aver deciso di rivedere completamente il proprio impegno “in prima linea”. Da una parte Ankara sta cominciando ad ammettere gli errori di calcolo commessi quando due anni e mezzo fa quando decise di puntare tutto su una rapida caduta di Assad; recrudescenza degli attacchi curdi, centinaia di migliaia di rifugiati nell’est del paese, continui incidenti di confine e, soprattutto, l’inaspettata tenacia del regime di Damasco hanno costretto Erdogan a rivalutare la propria politica siriana e ad adottare un più basso profilo. Dall’altra il Qatar si sta ancora leccando le ferite dopo il clamoroso scacco subito con la caduta di Morsi in Egitto che ha frantumato l’ambizioso disegno qatarino di divenire una potenza regionale di primo piano spodestando gli alleati-rivali sauditi attraverso il sostegno alla Fratellanza musulmana internazionale.

Oggi il nuovo “padrino” dell’opposizione siriana è l’Arabia Saudita (seguita silenziosamente dagli Emirati Arabi Uniti), che dopo il golpe in Egitto ha frettolosa-mente giocato il proprio “asso piglia tutto” diventando il primo sponsor del nuovo regime militare al Cairo e spodestando gli uomini del Qatar dai posti chiave dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana. Lo scopo che guida la mano di Riyadh in Siria è ovviamente in primo luogo la volontà di sottrarre allo storico nemico, l’Iran, il suo alleato chiave nel mondo arabo. Ma non solo. Col tempo e con il crescere delle milizie legate ad al-Qaeda sul territorio siriano è diventato di primaria importanza per i sauditi anche arginare il fenomeno qaedista. Dopo il grave scorno subito dal mancato attacco statunitense – che ha portato a un raffreddamento probabilmente senza precedenti nei rapporti fra Riyadh e Washington – i sauditi sembrano aver deciso di far da sé, alla solita maniera: addestramento e armamento di salafiti “buoni” per contrastare i salafiti “cattivi”, con buona pace dei valori laici e di unità nazionale che guidavano i primi passi della rivoluzione siriana. La pressione saudita ha portato all’ulteriore smantellamento dell’Esercito libero siriano, che ha visto un’ulteriore scissione interna guidata dalle brigate più intrise di valori religiosi. Queste ultime, quasi un terzo del totale, sono andate a formare “l’Esercito dell’Islam”, finanziato da Riyadh con l’intenzione di creare una forza islamista in grado di contrastare le formazioni di al-Nusra e di al-Qaeda in Iraq e nel Levante, espressioni dirette della galassia jihadista internazionale in Siria.(...)


Si sarebbe tentati dal dire che è l’effetto dell’accordo del P5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu più i tedeschi) con Teheran sul nucleare, ma sarebbe troppo facile. Anche se sarebbe sbagliato non valutarlo come segno di un clima che sta cambiando. L’Onu ha annunciato che, dopo tanti rinvii, la conferenza internazionale per trovare una soluzione alla crisi siriana di terrà finalmente a Ginevra il 22 gennaio. 

Il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, mentre partecipava oggi al Media forum italo-russo insieme con la collega Emma Bonino, ha sottolineato: “La conferenza si poteva fare prima di gennaio se non ci fosse stato l’egoismo politico dell’opposizione siriana”.  

Come è noto l’opposizione è un complicato arcipelago composto da forze che si rifanno a vari sponsor come l’Arabia Saudita e la Turchia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, e altre, molto forti sul campo, che si rifanno all’estremismo salafita vicino all’icona terroristica di Al Qaeda.  

Il grosso ostacolo finora era che nessun gruppo, neppure quelli più moderati voleva trattare con Assad. (...)