venerdì 11 luglio 2014

Ancora Guerra In Medio Oriente

Difficile ragionare freddamente su quanto succede in Medio Oriente; prevale la stanchezza, e forse lo scetticismo, verso quella che sembra essere una sorta di "guerra eterna" con qualche momento di pausa. 

Ma forse in questo frangente così drammatico possiamo provare a vedere alcuni segni di speranza realistica.

L'atteggiamento dei genitori dei tre ragazzi israeliani uccisi, che hanno solidarizzato con la famiglia del ragazzo palestinese, per esempio; la netta e dura reazione del Governo israeliano contro l'orribile omicidio del ragazzo palestinese, e il coraggio di incriminare i suoi assassini come "terroristi"; le manifestazioni che si sono svolte contro le degenerazioni della violenza.

Tutto questo può voler dire per Israele iniziare un cammino, una riflessione profonda - e dura - sulla necessità di fermare a tutti i costi l'estremismo interno e sui rischi connessi al perdurare di una situazione di stallo nei rapporti con il "mai nato" stato palestinese.

E proprio questo sembra essere il punto dolente, la questione che rimane irresolubile "unilateralmente": con chi discutere? Lo stato palestinese non nascerà fino a quando le forze che vogliono governarlo (che si chiamino Hamas o Fatah, o altro nome) non saranno in grado di stabilire un'unica legge, e un monopolio della forza.

Le diverse reazioni nella galassia palestinese rispetto all'orrore del rapimento e uccisione dei tre giovani israeliani è stato il segno più grave di questa non-unità, e della incapacità (prima ancora della non-volontà) di voler contrastare nettamente qualsiasi violenza.

La possibilità di essere Stato è una condizione politica che i palestinesi devono giocarsi in un conflitto interno, per decidere chi governerà i territori, attuali e futuri. Non c'è pace senza una linea di comando certa; non c'è tregua che tenga, non c'è speranza.

Questa guerra possa essere un inizio, e non solo l'ennesima tragedia.

Francesco Maria

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(...) Diversi sono gli equilibri geopolitici, nuove sono le minacce, e non esistono più mediatori credibili. Per questo, se la guerra terrestre alla fine ci sarà, avrà tutto l’impeto di una guerra «nuova», non di una semplice ripetizione del dramma. E fermarla sarà molto più difficile (...)​
Ai capi di Hamas, che è sempre stata un ombrello di diverse organizzazioni estremiste, restano soltanto gli aiuti finanziari dal Qatar. Si vede in queste ore che malgrado il suo isolamento ha ricevuto missili più moderni e a più lunga gittata, provenienti forse dall’Iran, ma di sicuro non attraverso la vecchia rotta siriana in fiamme da tre anni. L’Egitto è diventato nemico, Damasco lotta per sopravvivere, Hezbollah è impegnato a sostenere Assad, con i tagliagole dell’Isis si potrebbe parlare ma il loro Califfato non è ancora maturo. Davvero stupisce che Hamas abbia tentato un governo di unione con il frustrato Mahmoud Abbas e la Cisgiordania, che le divisioni interne si siano moltiplicate e che la violenza sia riesplosa, prima con il sequestro e l’uccisione dei tre studenti israeliani cui ha fatto da contraltare l’orrendo assassinio di un adolescente palestinese, poi con la ripresa dei lanci di razzi e missili contro Israele?

E poi c’è Israele, appunto. Irritato per l’atteggiamento occidentale verso l’Iran. Disorientato e anche impaurito dagli sconvolgimenti che rischiano di creare roccaforti jihadiste in Siria e in Iraq mentre anche la Giordania è vicina all’esplosione. Deciso ad escludere ogni dialogo con un governo palestinese che comprendesse Hamas (la cui leadership, è giusto ricordarlo, continua a rifiutare ogni riconoscimento dello Stato ebraico). Tentato in definitiva di dare il colpo di grazia al nemico in difficoltà, ma più insicuro di altre volte in un contesto regionale che non lo favorisce. 

Troppe debolezze perché non ci sia una guerra.



​Ma la preoccupazione del governo israeliano, secondo alcuni esperti, è quella del vuoto. Il vuoto creato in questi anni dall’instabilità nata nella regione dal disfarsi delle rivolte arabe – nel Sinai egiziano, nella Siria della guerra civile – è stato riempito e sfruttato da movimenti estremisti islamici. La Striscia di Gaza è dal 2007 controllata da Hamas e da gruppi palestinesi che hanno costruito un arsenale. “Se Israele colpisce mortalmente Hamas, chi riempirà il vuoto governativo? – ha scritto Nahum Barnea sul quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth – Gaza rischia di trasformarsi in anarchia come la Somalia o rifugio per organizzazioni terroristiche affiliate ad al Qaida. In altre parole, Hamas è male, ma non il male peggiore”. L’editorialista israeliano non è il solo a chiedersi se Netanyahu sia di fronte a un “dilemma”, come scrive il Daily Telegraph: indebolire il gruppo di Gaza perché spara razzi sulle città israeliane o evitare il vuoto di potere? C’è Abu Mazen, certo, ma non ha un potere politico abbastanza solido da riempire una pericolosa assenza di governo​
Siamo alla terza operazione, quella iniziata lunedì. Israele è determinata. Vuole infliggere un durissimo colpo al movimento islamico. Questa volta, però, Hamas, è più isolata. Il Governo di unità formato in giugno con l'Anp dopo otto anni di crisi, è finora un'entità solo sulla carta. Hamas, peraltro, non può più contare sui Fratelli musulmani, sunniti anche loro ma dichiarati fuori legge in Egitto. Da quando si è schierata con i ribelli siriani, i suoi solidi rapporti con alleati strategici come l'Iran, la Siria di Bashar al Assad e gli Hezbollah libanesi (tutte forze sciite) si sono raffreddati. Hamas ha compreso che i raid israeliani, e le inevitabili vittime civili palestinesi, serviranno a ricompattare la popolazione
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/uTcNA1
La crisi scoppiata tra Israele e Hamas in seguito al ritrovamento dei corpi di tre giovani coloni e all’uccisione di un giovane palestinese non accenna a placarsi. La spirale di violenze si è rapidamente estesa dalla Cisgiordania a Gaza, dove le forze di sicurezza israeliane hanno risposto duramente al lancio di oltre 200 razzi delle fazioni palestinesi più estremiste con l’operazione Protective Edge, che da lunedì a oggi ha causato 53 vittime e circa 500 feriti tra gli abitanti della Striscia. In questo contesto di violenza crescente, l’eterogeneo esecutivo di Netanyahu, alla ricerca di una linea, ha minacciato un intervento di terra a Gaza, mobilitando 40 mila riservisti. L’Autorità palestinese di Abu Mazen sembra sempre più debole e marginalizzata, mentre la tensione continua a salire anche in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove sta lentamente tornando lo spettro del terrorismo e di una nuova Intifada. Il riacuirsi della crisi israelo-palestinese ha però nuove e ancor più inquietanti incognite rispetto al passato, soprattutto perché si inserisce in un quadro regionale estremamente instabile. (...)

Nel campo palestinese, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale. Abu Mazen si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani. Ma la pax cisgiordana degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio di tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite.

In questa vicenda è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso. L’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione.

A compiere quel crimine sono probabilmente stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale. Una scheggia, non un referente militare della peraltro divisa leadership di Gaza.

La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. Spirale infinita, ma non uguale a se stessa. A ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso. La crisi potrà essere sedata, magari a lungo. Non risolta.

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