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giovedì 28 novembre 2013

Afghanistan, terra di scontro tra Cina e America (da Linkiesta.it)

(...) Non ci sono dubbi, però, sul fatto che l’Asia centrale sia già uno dei campi principali del confronto tra le due maggiori economie del pianeta, Cina e Stati Uniti. È sufficiente guardare ai progetti energetici. Da una parte la pipeline che i cinesi vogliono costruire fino al porto pakistano di Gwadar, dall’altra la "nuova via della seta" che gli americani intendono mettere in piedi per trasferire il gas turkmeno verso l’India. Solo mantenendo una forte presenza militare in Afghanistan gli americani potrebbero tenere a bada i cinesi, che stanno mettendo in campo il loro peso economico e con grande pragmatismo strizzano l’occhio a tutti, talebani compresi.
Già negli anni Novanta, dopo la presa del potere da parte degli studenti coranici, la Cina aveva avviato contatti con il mullah Omar. Il timore principale di Pechino era che l’Afghanistan talebano diventasse una base operativa per i separatisti uiguri dello Xinjiang - una regione della Cina occidentale - turcomanni e di religione islamica. Anche dopo l’intervento della Nato a Kabul, i cinesi, pur conservando buoni rapporti con Karzai, hanno mantenuto un canale di comunicazione con la shura di Quetta, un gruppo di talebani afghani del vicino Pakistan. Adesso che anche gli americani, in vista del ritiro, hanno avviato contatti coi taliban - sebbene i primi tentativi di intesa, in Qatar, si siano immediatamente arenati - l’attivismo cinese si è fatto più intenso.
Probabilmente anche al Dragone non converrebbe il prevalere della cosiddetta “opzione zero”, che porterebbe gli Stati Uniti a mollare del tutto gli ormeggi, come in Iraq. Ciò che interessa primariamente alla Cina è la stabilità, l’ordine, premessa necessaria per il business. Se a questo provvedono gli americani, tanto meglio. Ma Pechino vuole essere preparata ad ogni evenienza. Il focus è sempre orientato sulle risorse minerarie afghane, necessarie per continuare ad alimentare il motore dell’economia più dinamica del G-20.(...)

lunedì 12 novembre 2012

Gli Stati Uniti saranno i più grandi produttori di petrolio al mondo? (da ilPost)


(...) Il rapporto AIE dice che «gli Stati Uniti, che attualmente importano circa il 20 per cento del loro fabbisogno energetico, diventeranno del tutto autosufficienti in termini netti», con un notevole cambiamento degli attuali flussi commerciali di petrolio. I principali paesi esportatori dirotteranno parte delle loro forniture verso l’Asia, con probabili cambiamenti anche nei rapporti politici internazionali.
Come spiegano sul Financial Times, gli Stati Uniti potrebbero quindi cambiare il loro atteggiamento in politica estera. Potrebbero disinteressarsi progressivamente alle principali rotte e oleodotti per trasportare il petrolio per il loro consumo interno. Altri paesi orientali, a partire dalla Cina, potrebbero invece fare il contrario per assicurarsi un maggiore controllo di una risorsa fondamentale per i loro ritmi di sviluppo. D’altra parte il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ripete da anni di essere convinto che l’indipendenza dal petrolio straniero sia indispensabile per la politica estera ed economica del paese.
Secondo la AIE gli Stati Uniti raggiungeranno l’autonomia sostanzialmente grazie a due fattori: da un lato l’aumentata produzione di petrolio grazie ai nuovi sistemi per la sua estrazione, dall’altro le politiche energetiche adottate in questi ultimi anni tese a ridurre e ottimizzare i consumi. Semplificando, si produrrà più petrolio e se ne consumerà molto di meno, cosa che consentirà agli Stati Uniti di perdere la loro dipendenza dagli esportatori di petrolio. Stando alle stime AIE, i volumi di importazione di petrolio nei prossimi dieci anni crolleranno dagli attuali 10 milioni di barili al giorno ad appena 4 milioni di barili. Entro il 2035, inoltre, gli Stati Uniti stessi potrebbero diventare esportatori di petrolio.
I dati e le previsioni fornite dalla AIE non convincono però tutti gli analisti.(...)