(...) Non ci sono dubbi, però, sul fatto che l’Asia centrale sia già uno dei campi principali del confronto tra le due maggiori economie del pianeta, Cina e Stati Uniti. È sufficiente guardare ai progetti energetici. Da una parte la pipeline che i cinesi vogliono costruire fino al porto pakistano di Gwadar, dall’altra la "nuova via della seta" che gli americani intendono mettere in piedi per trasferire il gas turkmeno verso l’India. Solo mantenendo una forte presenza militare in Afghanistan gli americani potrebbero tenere a bada i cinesi, che stanno mettendo in campo il loro peso economico e con grande pragmatismo strizzano l’occhio a tutti, talebani compresi.
Già negli anni Novanta, dopo la presa del potere da parte degli studenti coranici, la Cina aveva avviato contatti con il mullah Omar. Il timore principale di Pechino era che l’Afghanistan talebano diventasse una base operativa per i separatisti uiguri dello Xinjiang - una regione della Cina occidentale - turcomanni e di religione islamica. Anche dopo l’intervento della Nato a Kabul, i cinesi, pur conservando buoni rapporti con Karzai, hanno mantenuto un canale di comunicazione con la shura di Quetta, un gruppo di talebani afghani del vicino Pakistan. Adesso che anche gli americani, in vista del ritiro, hanno avviato contatti coi taliban - sebbene i primi tentativi di intesa, in Qatar, si siano immediatamente arenati - l’attivismo cinese si è fatto più intenso.
Probabilmente anche al Dragone non converrebbe il prevalere della cosiddetta “opzione zero”, che porterebbe gli Stati Uniti a mollare del tutto gli ormeggi, come in Iraq. Ciò che interessa primariamente alla Cina è la stabilità, l’ordine, premessa necessaria per il business. Se a questo provvedono gli americani, tanto meglio. Ma Pechino vuole essere preparata ad ogni evenienza. Il focus è sempre orientato sulle risorse minerarie afghane, necessarie per continuare ad alimentare il motore dell’economia più dinamica del G-20.(...)
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