(...) Eccolo, dunque, l'origine del famigerato 3% del rapporto tra deficit e Pil: era il valore che serviva a stabilizzare il rapporto debito/Pil al valore medio dell'epoca (60%) e a condizione che il Pil reale crescesse, in media, intorno al 3% annuo. Una volta fissato un valore numerico, è difficile abbandonarlo, non fosse altro per il segnale di scarsa credibilità che verrebbe recepito dai mercati finanziari. E così quel 3% è sopravvissuto indenne nel corso di questi due decenni, fino ai giorni nostri. A nulla è valso rendersi conto che i primi sforamenti del Patto di Stabilità e Crescita avvennero proprio all'inizio degli Anni Duemila, quando il ciclo economico favorevole della seconda metà degli Anni Novanta fu interrotto dalla recessione causata dallo scoppio della bolla della New Economy, e aggravata dagli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001. I tassi di crescita reali crollarono ben al di sotto del 3%, e come conseguenza per molti paesi europei divenne impossibile rispettare il fatidico vincolo.
In realtà il nostro piccolo esercizio dimostra (Figura 2) che qualora si volesse semplicemente prendere atto che il valore medio del rapporto debito/Pil dei paesi dell’Eurozona non è più 60% (bensì circa 90%), allora – pur in presenza del mantenimento delle aspettative sulla crescita nominale – la soglia-limite sul deficit di stato stazionario può essere rivista al rialzo. Oppure, alternativamente (Figura 3), si può mantenere la soglia del 3% ma prendere atto che la crescita nominale di stato stazionario è sensibilmente più bassa rispetto all’inizio degli Anni Novanta; come conseguenza, l’obiettivo sul rapporto debito/Pil diverrebbe più alto.
Questo significa che possiamo mandare in soffitta ogni vincolo di flusso sulla politica fiscale? Certamente no, per almeno due motivi distinti ma strettamente connessi:
1) Rimane infatti intatta la necessità di centrare obiettivi di riduzione dello stock, soprattutto per un paese come l'Italia che presenta un valore di debito superiore del 100% alla media dell'area euro di inizio anni Novanta, e superiore di circa il 50% alla media attuale (che come detto è circa il 90%). E l'unico modo esistente per ridurre il debito pubblico (a parte le dismissioni patrimoniali) è rispettare precisi e stringenti vincoli sul fabbisogno, che equivale circa alla versione di cassa del deficit. Data la voglia famelica di spesa pubblica imperante a destra come a sinistra, poi, ci mancherebbe solo che saltasse tout-court ogni vincolo quantitativo sulla grandezza di flusso: torneremmo immediatamente a disavanzi crescenti e ad un ritmo di crescita del debito pubblico persino superiore a quello attuale.
2) L’equazione (1) – come detto – vale solo in stato stazionario, e fu utilizzata proprio per stabilire soglie massime oltre le quali debito e deficit non avrebbero dovuto andare, pena l’erogazione di sanzioni (in questa sede sorvoliamo sul fatto che in quindici anni la soglia del 3% è stata violata 97 volte, senza che nessuna sanzione sia mai stata erogata verso nessun Paese membro dell’Eurozona). La dinamica dell'aggiustamento al di fuori dello stato stazionario e' stata storicamente governata da due diversi vincoli. Dal 1997 al 2011 dalla fissazione dell'obiettivo (mai raggiunto da nessuno) di bilancio in pareggio nel medio periodo, vale a dire un deficit complessivo in media pari a zero attraverso le fluttuazioni cicliche, in modo da consentire l'attuazione di una politica fiscale realmente contro ciclica (che presenti cioè deficit in periodi di contrazione e surplus in periodi di espansione). Dal 2013 in poi, invece, la dinamica di convergenza verso lo stato stazionario e' dettata dal vincolo (costituzionalmente sancito) del Fiscal Compact, che prevede un disavanzo corretto per il ciclo - cioè il deficit al netto degli effetti del ciclo economico su entrate e uscite pubbliche - pari a zero in ogni anno. Le due formulazioni sono in realtà molto simili: entrambe prescrivono, sostanzialmente, un ricordo al disavanzo giustificato solo da una crescita dell'attività economica reale inferiore a quella potenziale, limitando perciò fortemente ogni politica fiscale discrezionale e quindi favorendo una naturale diminuzione del rapporto debito/Pil.
In un modo o nell’altro, e indipendentemente dal vincolo fissato da Bruxelles, per un paese con il terzo debito pubblico del mondo la riduzione dello stock di passività rispetto al reddito nazionale è un obiettivo per se. (...)
Proprio per questo non può certo essere all’ordine del giorno un “rilassamento” aprioristico dei criteri di Maastricht. Quello su cui però possiamo discutere, tuttavia, è se sia ancora così saggio considerare quei due numeri ( 3% e 60%) come messaggi consegnati da Dio sul Monte Sinai (e pertanto non questionabili) e non invece per quello che sono: vincoli derivati matematicamente da scenari macroeconomici che non esistono più da almeno dieci anni e che difficilmente potranno tornare. La vera sfida tuttavia, specialmente per Paesi con serissimi problemi di finanza pubblica come il nostro, è trovare il modo di conciliare questa consapevolezza con l'esigenza di evitare un tragico "tana libera tutti" e disegnare invece un nuovo (e credibile) sistema di vincoli di politica fiscale.
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