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domenica 19 gennaio 2014

Quante bugie sul Fiscal compact (da First online)

(...) Su un punto, tuttavia, sembra esserci una sostanziale convergenza di vedute: il Fiscal Compact - sottoscritto nel 2012 dal governo Monti - deve essere rivisto, se non addirittura abolito come proposto da Beppe Grillo. Le nuove regole sono considerate un ostacolo alla crescita economica. A cominciare da quella sul debito (articolo 4) che impegna i 25 paesi firmatari (il Regno Unito e Repubblica Ceca non hanno aderito) a ridurre il proprio debito di un ventesimo per la parte eccedente la soglia del 60 per cento del Pil. Ciò comporterebbe per l’Italia un taglio di 45-50 miliardi l’anno, per un totale di circa 900 miliardi di euro nell’arco dei prossimi venti anni.

Se queste sono le cifre, verrebbe da pensare che chi ha firmato il Fiscal Compact fosse in preda alla follia. In realtà, non è così. E, infatti, una lettura attenta del Trattato mostra che il taglio del debito richiesto all’Italia non ammonta a 50 miliardi l’anno, bensì ad un massimo di 7 miliardi, da effettuare una tantum. Vediamo il perché.

Per valutare l’osservanza della norma, non si deve solo considerare la riduzione di un ventesimo - nella media del triennio precedente - del debito effettivo (criterio cosiddetto backward looking). Si può tener conto anche del ciclo economico (criterio del ciclo) e/o dell’andamento del debito previsto nei due anni successivi all’applicazione della regola (criterio forward looking). In sostanza, la regola del debito richiede i rispetto di almeno uno dei suddetti tre criteri.

Chiarito questo punto, veniamo al caso italiano. In base alle previsioni contenute nella Nota di aggiornamento del Documento economico e finanziario - pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze lo scorso ottobre -, sia il criterio del ciclo sia quello forward looking sono pienamente rispettati. Chi è al governo - o chi lo era nel mese di ottobre -, non ha quindi ragioni per preoccuparsi.(...)

lunedì 11 novembre 2013

Perché il Vincolo del 3%? (da NoiseFromAmerika.org)

(...) Eccolo, dunque, l'origine del famigerato 3% del rapporto tra deficit e Pil: era il valore che serviva a stabilizzare il rapporto debito/Pil al valore medio dell'epoca (60%) e a condizione che il Pil reale crescesse, in media, intorno al 3% annuo. Una volta fissato un valore numerico, è difficile abbandonarlo, non fosse altro per il segnale di scarsa credibilità che verrebbe recepito dai mercati finanziari. E così quel 3% è sopravvissuto indenne nel corso di questi due decenni, fino ai giorni nostri. A nulla è valso rendersi conto che i primi sforamenti del Patto di Stabilità e Crescita avvennero proprio all'inizio degli Anni Duemila, quando il ciclo economico favorevole della seconda metà degli Anni Novanta fu interrotto dalla recessione causata dallo scoppio della bolla della New Economy, e aggravata dagli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001. I tassi di crescita reali crollarono ben al di sotto del 3%, e come conseguenza per molti paesi europei divenne impossibile rispettare il fatidico vincolo.
In realtà il nostro piccolo esercizio dimostra (Figura 2) che qualora si volesse semplicemente prendere atto che il valore medio del rapporto debito/Pil dei paesi dell’Eurozona non è più 60% (bensì circa 90%), allora – pur in presenza del mantenimento delle aspettative sulla crescita nominale – la soglia-limite sul deficit di stato stazionario può essere rivista al rialzo. Oppure, alternativamente (Figura 3), si può mantenere la soglia del 3% ma prendere atto che la crescita nominale di stato stazionario è sensibilmente più bassa rispetto all’inizio degli Anni Novanta; come conseguenza, l’obiettivo sul rapporto debito/Pil diverrebbe più alto.
Questo significa che possiamo mandare in soffitta ogni vincolo di flusso sulla politica fiscale? Certamente no, per almeno due motivi distinti ma strettamente connessi:
1)      Rimane infatti intatta la necessità di centrare obiettivi di riduzione dello stock, soprattutto per un paese come l'Italia che presenta un valore di debito superiore del 100% alla media dell'area euro di inizio anni Novanta, e superiore di circa il 50% alla media attuale (che come detto è circa il 90%). E l'unico modo esistente per ridurre il debito pubblico (a parte le dismissioni patrimoniali) è rispettare precisi e stringenti vincoli sul fabbisogno, che equivale circa alla versione di cassa del deficit. Data la voglia famelica di spesa pubblica imperante a destra come a sinistra, poi, ci mancherebbe solo che saltasse tout-court ogni vincolo quantitativo sulla grandezza di flusso: torneremmo immediatamente a disavanzi crescenti e ad un ritmo di crescita del debito pubblico persino superiore a quello attuale. 
2)     L’equazione (1) – come detto – vale solo in stato stazionario, e fu utilizzata proprio per stabilire soglie massime oltre le quali debito e deficit non avrebbero dovuto andare, pena l’erogazione di sanzioni (in questa sede sorvoliamo sul fatto che in quindici anni la soglia del 3% è stata violata 97 volte, senza che nessuna sanzione sia mai stata erogata verso nessun Paese membro dell’Eurozona). La dinamica dell'aggiustamento al di fuori dello stato stazionario e' stata storicamente governata da due diversi vincoli. Dal 1997 al 2011 dalla fissazione dell'obiettivo (mai raggiunto da nessuno) di bilancio in pareggio nel medio periodo, vale a dire un deficit complessivo in media pari a zero attraverso le fluttuazioni cicliche, in modo da consentire l'attuazione di una politica fiscale realmente contro ciclica (che presenti cioè deficit  in periodi di contrazione e surplus in periodi di espansione). Dal 2013 in poi, invece, la dinamica di convergenza verso lo stato stazionario e' dettata dal vincolo (costituzionalmente sancito) del Fiscal Compact, che prevede un disavanzo corretto per il ciclo - cioè il deficit al netto degli effetti del ciclo economico su entrate e uscite pubbliche - pari a zero in ogni anno. Le due formulazioni sono in realtà molto simili: entrambe prescrivono, sostanzialmente, un ricordo al disavanzo giustificato solo da una crescita dell'attività economica reale inferiore a quella potenziale, limitando perciò fortemente ogni politica fiscale discrezionale e quindi favorendo una naturale diminuzione del rapporto debito/Pil.
In un modo o nell’altro, e indipendentemente dal vincolo fissato da Bruxelles, per un paese con il terzo debito pubblico del mondo la riduzione dello stock di passività rispetto al reddito nazionale è un obiettivo per se. (...) 
Proprio per questo non può certo essere all’ordine del giorno un “rilassamento” aprioristico dei criteri di Maastricht. Quello su cui però possiamo discutere, tuttavia, è se sia ancora così saggio considerare quei due numeri ( 3% e 60%) come messaggi consegnati da Dio sul Monte Sinai (e pertanto non questionabili) e non invece per quello che sono: vincoli derivati matematicamente da scenari macroeconomici che non esistono più da almeno dieci anni e che difficilmente potranno tornare. La vera sfida tuttavia, specialmente per Paesi con serissimi problemi di finanza pubblica come il nostro, è trovare il modo di conciliare questa consapevolezza con l'esigenza di evitare un tragico "tana libera tutti" e disegnare invece un nuovo (e credibile) sistema di vincoli di politica fiscale.

venerdì 2 marzo 2012

La Verità, Vi Prego, Sui Conti (Grecia, Spagna... Europa)

Pensando al caso greco e alla situazione della Spagna (pare che i dati economici vengano rivisti in peggio rispetto a quanto detto da Zapatero prima delle elezioni), credo che sia oramai necessario pensare, costruire e programmare strumenti e procedure che mettano in grado i cittadini di conoscere i veri dati di bilancio prima delle campagne elettorali. 

Un organismo terzo, magari Dirigenti non politici della UE e della BCE che controllino lo stato dei conti pubblici un mese prima del voto, costringendo chi esce a spiegazioni sullo stato delle  cose e forzando i contendenti del futuro a fare promesse che sia possibile mantenere. 

Sarebbe una sorta di "educazione finanziaria e politica" per tutti noi, e avremmo così una procedura comune per rendere credibili le politiche dei governanti. 

Si dovrebbe in questo senso pensare anche a momenti "istituzionali" di "campagna elettorale regolata" in cui le proposte dei contendenti vengano discusse in pubblico, con trasparenza, e con l'ausilio di pareri anche di parte, ma fondati e verificabili, ovvero discutibili e falsificabili. 

La democrazia europea è sotto stress e non può continuare nel giochetto delle stime riviste, o smentite; non possiamo più tollerare campagne elettorali in cui si promettono cose che poi non possono essere mantenute perché la precedente gestione non ha fatto bene i conti. 


In Italia questa cura andrebbe fatta fin da subito, per gli Enti Locali.

E' commissariare la democrazia? O è difenderla dai suoi mali interni?

Francesco Maria Mariotti

In Spagna il disastro della gestione Zapatero si fa sempre più evidente. Dopo il dato sul deficit del 2011, molto più alto delle attese, oggi il governo di Mariano Rajoy ha tagliato la previsione della crescita per il 2012 dal +2,3% al -1,7% mentre ll target per il deficit è stato elevato al 5,8%, molto di più rispetto al precedente vincolo concordato con l’Ue, fissato al 4,4 per cento. «Il premier Zapatero ci aveva garantito che i margini operativi per un veloce rientro del deficit c’erano. È evidente che non è così», spiega un alto funzionario della Commissione europea a Linkiesta. E ora per Madrid potrebbe scattare la procedura d’infrazione.



giovedì 10 novembre 2011

E' l'ora di un Prestito forzoso?

Dobbiamo tentare di essere lucidi, anche se è difficile in queste ore. Andare subito a elezioni è inutile: è l'ora di un governo tecnico di solidarietà nazionale e le mosse di Napolitano sembrano andare in questo senso.


Per fare cosa? Una misura di emergenza potrebbe essere quella del prestito forzoso, che in qualche modo - anche se il senso dell'iniziativa voleva essere diverso - è stata anticipata dall'appello di un cittadino apparso sul Corriere della Sera nei giorni scorsi.


Una mobilitazione volontaria può essere un'idea anche molto bella, ma probabilmente poco efficace.


Il momento drammatico richiede rapidità e certezza di "risultato".
Una patrimoniale? Si può anche fare un prelievo straordinario "classico" "una tantum", ma sono da tenere in conto molte controindicazioni; e per una riforma fiscale più complessiva sarebbe meglio non agire sotto emergenza.


A questo punto io personalmente accetterei anche un prelievo sui conti correnti, come fece Giuliano Amato nel 1992, ma forse la proposta del prestito forzoso, non certo rivolto a tutti, (dettagli nell'articolo qui riportato, apparso sul Corriere della Sera del 7 settembre scorso), può essere più accettabile.

(i grassetti nell'articolo sono miei, FMM)

(...) Occorre alleggerire la pressione sui titoli di Stato per dare sufficiente spazio e tempo al programma di riforme per la crescita. Come fare? Un elemento di sovranità nazionale che gli Stati possono ancora mobilitare è la tassazione. Partiamo quindi dal dibattito su una possibile patrimoniale in aggiunta alla manovra corrente, una misura difficile da introdurre sul piano sia politico che tecnico. La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è molto concentrata: circa il 50% in mano al 10% più ricco. Tale potrebbe essere la base imponibile di una patrimoniale. Di recente si è già parlato della possibilità di un intervento proattivo della parte più facoltosa del Paese, pronta a contribuire al risanamento economico e finanziario del Paese stesso. Tuttavia sarebbe rischioso procedere ad una riforma fiscale sotto la pressione del breve termine. Una patrimoniale sarebbe certo una misura di equità, ma andrebbe strutturata rispettando l' insieme del sistema fiscale per essere nel contempo giusta ed efficiente. Se tutti i Paesi europei modificassero la fiscalità sotto la pressione delle circostanze, senza coordinamento, ne nascerebbe una acerrima concorrenza fiscale. Come sfruttare questo elemento di sovranità, e ridare forza al Paese sui mercati, evitando però gli svantaggi di una nuova imposta? Tramite un prestito forzoso. Proponiamo quindi di introdurre un prestito forzoso decennale, nella forma di una sottoscrizione ad una o più emissioni dedicate di titoli di Stato. A parità di gettito, tale proposta, implicando la restituzione del patrimonio a scadenza dei titoli, sarebbe più accettabile per gli interessati e anche più equa, in quanto i titoli vengono sottoscritti dai contribuenti più abbienti, ad un tasso di interesse basso, simile a quello pagato sui titoli tedeschi. Già in Francia il prestito forzoso è stato utilizzato con successo, ad esempio dal governo Mauroy, per facilitare, nei primi anni Ottanta, il rimborso del debito estero.(...)