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sabato 5 dicembre 2020

Mes, cos'è e cosa prevede la riforma (AdnKronos)

"L'Esm o Mes, Meccanismo Europeo di Stabilità, è il meccanismo per la risoluzione delle crisi creato nel 2012 per gli Stati dell'area euro. Serve a fornire assistenza ai Paesi dell'Eurozona che hanno seri problemi finanziari; raccoglie fondi sul mercato dei capitali e mediante transazioni sul mercato monetario. Non è finanziato da denaro dei contribuenti, capitale a parte: si finanzia sui mercati, emettendo obbligazioni. (...) 

BACKSTOP - Tra questi obiettivi, c'è anzitutto il backstop , cioè la garanzia di ultima istanza, per il Single Resolution Fund (Srf), o Fondo Unico di Risoluzione: quest'ultimo è un fondo, finanziato dalle banche stesse e non dai contribuenti, che interviene per 'risolvere', come si dice in gergo, le banche fallite. Questa garanzia (backstop) dovrebbe essere fornita dall'Esm, con una linea di credito che fa, appunto, da garante di ultima istanza, cioè nel caso in cui l'Srf si trovi a corto di fondi. La sua esistenza dovrebbe contribuire a scoraggiare attacchi speculativi.

Il backstop, nelle intenzioni originarie, sarebbe dovuto entrare in vigore, entro il primo gennaio 2024; ora dovrebbe entrare in vigore prima, a inizio 2022, avendo le banche fatto progressi sufficienti nella riduzione degli Npl, come vengono detti in gergo i crediti deteriorati. Le banche del Sud Europa, specie in Italia quelle più grandi, hanno in gran parte ripulito i bilanci dalle sofferenze eredità della passata crisi, e ora dovranno caricarsi quelle che verranno prodotte dalla crisi in corso. (...)

LINEE DI CREDITO AGLI STATI - Il Mes ne ha a disposizione di due tipi, le Precautionary Conditioned Credit Lines (Pccl) e le Enhanced Conditions Credit Line (Eccl); la riforma punta a rendere le prime più "efficaci".

Le linee del Pandemic Crisis Support creato nella prima metà del 2020 per aiutare gli Stati a combattere la pandemia di Covid-19, e finora inutilizzate, non fanno parte della riforma.

Le Pccl sono a disposizione di Stati membri dell'area euro con fondamentali economici "solidi", ma che vengono colpiti da choc avversi al di là del loro controllo. La Pccl funziona come una polizza di assicurazione: in pratica, l'assunzione di base è che il fatto stesso che esista sia sufficiente a placare i mercati; in questo modo, non ci dovrebbe essere neanche bisogno di utilizzarla.

In poche parole, le Pccl servono a disinnescare le crisi, impedendo che diventino più gravi  (...)

Chi richiede la Pccl non dovrà firmare un memorandum d'intesa e fare riforme, ma firmerà una lettera di intenti, in cui si impegna a continuare a rispettare tutti i criteri di eligibilità; il rispetto degli stessi verrà valutato ogni sei mesi. Se un Paese membro del Mes non rispetta più i criteri, allora la linea di credito viene interrotta, a meno che il board non decida per consenso di mantenerla.

Il Paese cui viene recisa la linea di credito può comunque chiedere un altro tipo di aiuto dall'Esm. I membri dell'Esm che non rispettano i criteri per la Pccl possono chiedere la Eccl, Enhanced Condition Credit Line; devono comunque avere una situazione economica e finanziaria "solida". Il Paese che richiede una Eccl deve siglare un memorandum d'intesa, con cui si impegna a rispettare le condizioni previste dal memorandum stesso.

Il Paese si impegna ad adottare misure correttive che affrontino le sue debolezze e per evitare problemi futuri per quanto riguarda l'accesso ai mercati. Quando ottiene una Eccl oppure preleva da una Pccl, il Paese è soggetto a sorveglianza aumentata da parte della Commissione Europea, sorveglianza che copre le condizioni finanziarie del Paese e il suo sistema finanziario. Queste regole esistono dal 2012 e rimangono invariate nel trattato che dovrebbe emergere dalla riforma. 

LE CACs - C'è poi il capitolo delle Cacs, le clausole di azione collettiva (Collective Action Clauses, previste nei titoli di Stato: consentono di cambiare le condizioni contrattuali a maggioranza, rendendo i cambiamenti efficaci per tutti i titoli, non solo per quelli detenuti da coloro che hanno acconsentito ad una ristrutturazione.

Le Cacs esistono da anni (vengono previste nei titoli di Stato dell'Eurozona, quindi anche nel nostro debito, fin dal 2013) e non sono un'invenzione della riforma; sono state introdotte per rendere più facili e ordinate le ristrutturazioni dei debiti sovrani.

Le Cacs sono essenzialmente uno strumento per rendere più gestibile, rapida e ordinata, per quanto possibile, la ristrutturazione di un debito, senza che rimanga incagliata per anni per via di cause giudiziarie. Attualmente, le Cac sono 'Double-Limb': prevedono cioè, per cambiare le condizioni contrattuali e rendere le condizioni di ristrutturazione efficaci erga omnes una doppia maggioranza, una al livello di ogni serie di titoli e l'altra a livello di tutte le serie combinate.

Con la riforma verrebbero introdotte le Single-Limb Cacs, che prevedono solo la seconda delle due maggioranze, rendendo così meno probabile la formazione di minoranze di blocco tra i bondholders, minoranze che possono ostacolare la ristrutturazione del debito. Le Single-Limb Cacs verrebbero introdotte a partire dal primo gennaio 2022. Su questa parte della riforma, come su quella relativa alle linee di credito, incidono le tradizionali preoccupazioni dei Paesi nordici, che vedono i rendimenti dei titoli di Stato come un utile freno alle supposte tendenze dei Paesi mediterranei ad allargare i cordoni della borsa. (...)

RUOLO DELLA COMMISSIONE E DEL MES - Tornando alla riforma, il Mes, nell'ambito della ristrutturazione di un debito, può, se richiesto dallo Stato stesso, facilitare il dialogo tra il Paese e gli investitori privati. Nei prossimi programmi di assistenza finanziaria, l'Esm avrà un ruolo maggiore, specie nel delineare la condizionalità politica: ogni memorandum d'intesa verrà firmato sia dalla Commissione che dal direttore dell'Esm.

Commissione e Mes prepareranno insieme le valutazioni necessarie ai nuovi programmi. Nel caso in cui il Mes e la Commissione non concordino sull'analisi di sostenibilità del debito, la seconda sarà responsabile dell'analisi, il primo valuterà la capacità del Paese di rimborsare l'Esm. Il nuovo trattato sull'Esm entrerà in vigore solo dopo la ratifica in tutti i 19 Stati membri, il che comporta il via libera dei Parlamenti nazionali, dopo la firma nel gennaio 2021.

https://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2020/11/30/mes-cos-cosa-prevede-riforma_NLGSSd4RvKQIdhoRtJ5u2K.html?refresh_ce


Mes, cosa prevede la riforma? Le modifiche e il significato per l’Italia (Federico Fubini, Corriere della Sera - Economia)

"(...)  vale la pena vederne almeno i cinque aspetti salienti: tre rilevanti perché sono stati varati dall’Eurogruppo lunedì scorso e due rilevanti proprio perché non fanno parte della riforma (anche se alcuni Paesi avrebbero voluto introdurli). Vediamo dunque prima di tutto cosa c’è nella riforma del Mes e poi cosa non c’è.

1. Il paracadute per le banche

La riscrittura del trattato sul Mes introduce la possibilità di anticipare all’inizio del 2022, cioè di fatto fra un anno, il cosiddetto «backstop» al Fondo unico di risoluzione per le banche. Di che si tratta? Si può pensare al «backstop» come a un paracadute finanziario, le cui risorse proverrebbero dal Mes, da aprire quando una banca in dissesto va smantellata, ma le risorse disponibili per farlo in modo ordinato - cioè mantenendo l’operatività per i clienti - non bastano. (...)


2. Le «clausole di azione collettiva» sul debito

Le CACs, o clausole di azione collettiva sul debito, sono già inserite dal 2013 nei prospetti che fissano i termini contrattuali di tutti i bond emessi da Stati dell’area euro con maturità di un anno e oltre. Sono peraltro ormai pratica molto diffusa a livello internazionale. Queste clausole dicono in pratica una cosa sola: lo Stato emittente può modificare i termini del bond che ha emesso (per esempio, decide di rimborsarlo dopo o di rimborsarlo in parte, in sostanza decide una forma di default) se c’è l’approvazione di una maggioranza qualificata dei suoi creditori. L’iniziativa dev’essere sempre dello Stato in questione e presumibilmente viene presa solo quando quest’ultimo è in profonda crisi finanziaria, schiacciato dal proprio debito e incapace di trovare nuovi prestiti sul mercato per rimborsare regolarmente i vecchi. Le CACs essenzialmente servono a rendere il processo di default più ordinato, prevedibile e senza trattamenti di favore o discriminazioni verso singoli creditori.

Ma quale è la novità nella riforma del Mes? L’esperienza dei default degli Stati mostra che, quando questi avvengono, ci sono sempre fondi speculativi che comprano i bond coinvolti a valori frazionali (per esempio, cinque centesimi quando il valore teorico di rimborso regolare sarebbe un euro) e rifiutano l’offerta ristrutturata di rimborso da parte dei governi in crisi (per esempio, trenta cent invece di un euro). Sono i cosiddetti «holdout» (i «resistenti»), che non di rado fanno appello ai tribunali per ottenere pieni rimborsi anche molti anni più tardi. Per esempio, nel default dell’Argentina del 2005 i fondi speculativi «holdout» dopo dieci anni riuscirono a farsi rimborsare al 100% bond per venti miliardi di dollari (mentre molti piccoli risparmiatori italiani restarono quasi interamente bruciati). E nel default della Grecia del 2012 alcuni degli stessi «holdout» riuscirono a fare lo stesso con 6,5 miliardi di euro di titoli di Atene, mentre i cittadini italiani e europei contribuirono a pagarli tramite costosissimi salvataggi a ripetizione.

Per rendere le ristrutturazioni del debito meno soggette ai raid degli «holdout», la riforma del Mes introduce un meccanismo già raccomandato dal Fondo monetario internazionale: le votazioni singole, le cosiddette «Single-Limb CACs». Di che si tratta? In sostanza, per uno Stato che vuole ristrutturare il debito si introduce la possibilità di mettere la decisione sulla ristrutturazione con un unico voto di tutti i creditori. Non più dunque doppio voto come oggi («Double-Limb CACs») in cui prima votano i detentori di ogni singolo bond e poi votano insieme tutti i detentori di tutti i bond. Questo sistema a doppio voto dà ai fondi speculativi la possibilità di comprare a prezzi di saldo, per esempio, il 40% di un singolo bond e bloccare la decisione di ristrutturarlo, se essa necessita del 70% dei consensi. La mossa successiva degli «holdout» sarà poi andare in tribunale per farsi restituire il 100%. Ma questo significa che tutti gli altri creditori dovranno subire perdite ancora maggiori, proprio perché le risorse di quello Stato in default sono comunque limitate. (...)


3. Le linee di credito precauzionali

Si tratta di linee di credito più leggere a titolo precauzionale se uno Stato minaccia di finire in difficoltà, ma non ha ancora perso l’accesso ai finanziamenti di mercato. Come sempre, la decisione di richiede il prestito del Mes spetta solo e soltanto al governo interessato. In teoria - anche se è poco plausibile - un governo a corto di liquidità per pagare pensioni e stipendi potrebbe anche decidere di chiedere un prestito alla Cina, al Fondo monetario internazionale o di fare default e non onorare i propri impegni finanziari (ma questo gli renderebbe impossibile trovare altri prestiti in futuro). Le linee «precauzionali» (che esistono già da anni) vengono naturalmente molto prima di questi scenari drammatici. (...)


Ma altrettanto importante è sottolineare quello che nella riforma del Mes non c’èO magari poteva esserci ma alla fine non è stato inserito.

4. Nessun «bail-in» del debito pubblico

Non c’è nella riforma del Mes alcun «bail-in» del debito pubblico, come inizialmente richiesto da molti in Germania o in Olanda. L’idea era che, prima di ricevere l’assistenza del Mes, uno Stato fosse obbligato in via preliminare a fare default sui suoi creditori esistenti. Questa proposta non è entrata nella riforma del Mes: si è valutato che avrebbe reso più nervosi gli investitori, alzato gli interessi di mercato sul debito pubblico dei Paesi fragili e reso una crisi più probabile. Ci sarà invece una valutazione preliminare di sostenibilità del debito ad opera della Commissione europea e dello stesso Mes. Ma questo cambia molto poco rispetto alla situazione attuale e alla normale pratica di organismi del genere, per esempio del Fondo monetario internazionale.

5. La Commissione Ue ultimo arbitro

Non c’è nella riforma del Mes un trasferimento dei compiti di sorveglianza di bilancio dalla Commissione europea (organismo comunitario, che decide a maggioranza) al consiglio del Mes (organismo intergovernativo, che decide con diritti di veto di ciascuno degli Stati sulle scelte più importanti). In sostanza Paesi «frugali» come Olanda o Finlandia non potranno divenire arbitri ultimi della misura in cui l’Italia rispetta o non rispetta le regole di bilancio. Lo sarà sempre la Commissione europea, più abituata al negoziato e ai compromessi. Anche questa richiesta era stata avanzata da ambienti dell’Europa del Nord, ma è stata respinta. Il direttore generale del Mes avrà il compito di preparare le decisioni sui singoli Paesi da parte del consiglio dell’ente. Ma questo cambia poco rispetto alla situazione attuale. (...)"


https://www.corriere.it/economia/finanza/20_dicembre_03/mes-cosa-prevede-riforma-modifiche-significato-l-italia-34487b72-34b5-11eb-b1bc-a76a672bf85e.shtml

sabato 7 settembre 2019

Sul Governo cosiddetto "Conte-bis"

[Scritto il 5 settembre come post su Fb]

Commento del tutto personale, e "a prima vista", da approfondire e magari da rivedere: ottima scelta per ministero dell'Interno, vista la situazione. Brutte, molto, su Giustizia e Esteri.
Su Economia vedremo, potrebbe essere scelta interessante, se Commissione europea "apre" e se saremo capaci di muoverci come sistema-Paese.

In breve: forse questo governo era un tentativo da fare. Magari riuscirà. Ma.

Ma molta parte del paese, come ho già scritto, non capisce, temo; e forse ha anche "perso" dei passaggi, magari più seguiti e conosciuti dagli appassionati che seguono la politica anche in vacanza. E questa gestione "tutta estiva" della crisi può creare grandissime difficoltà.

Un monito, già scritto: la gestione della questione migratoria e della sicurezza non può "ribaltarsi" in brevissimo tempo; un nuovo stile (non "cattivista", diciamo) deve comunque essere contrassegnato da rigore, lucidità, e capacità di dialogo con tutti i cittadini, soprattutto con chi è più esasperato e abbandonato. Altrimenti si rischia di fare un regalo a chi fomenta odio e divisione.

Un ulteriore monito che riguarda anche situazione in UK e Europa in genere. Le questioni che il "sovranismo" - "nazionalismo" pone (in modi inaccettabili) alle nostre democrazie rimangono tutte in piedi.

Attenzione a non perdere di vista la necessità di risposte di lungo periodo, che non passano attaverso "vittorie politico-parlamentari".

(Su Giustizia magari ci tornerò su più avanti)

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10220698566955445&id=1274444055

lunedì 26 agosto 2019

Un percorso europeo per le riforme italiane (Maurizio Ferrera, Corriere della Sera)


"(...) La nuova Commissione avrà infatti il sostegno dei partiti tradizionalmente europeisti: popolari, socialisti e democratici, liberali. Sarebbe sbagliato però dire che la Ue è rimasta quella di sempre. La nuova legislatura sarà sicuramente meno «austera» delle due precedenti (Juncker e Barroso), meno orientata alla stabilità fiscale in quanto tale e più aperta verso i temi della crescita, dell’occupazione, della sostenibilità ambientale e sociale. Lo testimoniano innanzitutto i programmi dei partiti che ora formano la maggioranza a Strasburgo. Rispetto alle elezioni del 2014, essi hanno formulato proposte precise su tutti questi fronti (si vedano le analisi su www.euvisions.eu). Il segnale più forte viene tuttavia dall’«Agenda per l’Europa» preparata dalla neopresidente Ursula von der Leyen per il prossimo quinquennio. Una lettura attenta di questo documento sarebbe molto utile a chi sta lavorando per risolvere la crisi di governo. Vi si trovano infatti idee e proposte molto calzanti per l’Italia. In primo luogo, von der Leyen richiama l’attenzione sui temi ambientali e sulla necessità di un vero e proprio «Patto verde» europeo. Non solo per affrontare la sfida oggi più dirompente per l’intero pianeta — il cambiamento climatico — ma anche per stimolare la crescita. Economia circolare, risanamento ambientale, rilancio delle aree e delle attività rurali, investimenti massicci in sostenibilità: preso seriamente, il perseguimento di questi obiettivi avrebbe enormi ricadute in termini di Pil e occupazione. Sul versante del lavoro, la neopresidente propone un salario minimo Ue e la regolazione della cosiddetta gig economy (i lavori tramite piattaforma, che interessano un numero crescente di giovani europei). In tema di welfare, l’obiettivo prioritario è il rafforzamento della garanzia giovani, nonché di una nuova «garanzia minori» (reddito, asili, formazione primaria, salute per tutti i bambini/ragazzi in condizioni disagiate). Dato il suo successo come ministra per gli affari sociali e la famiglia in Germania, von der Leyen propone poi un piano ambizioso per le donne (conciliazione, pari opportunità, protezione contro violenze e femminicidi) e la piena realizzazione del nuovo Pilastro europeo dei diritti sociali. Inoltre, la sua Agenda insiste moltissimo sugli investimenti digitali e in capitale umano: istruzione, ricerca e sviluppo. Nel documento c’è molto altro (compresa la revisione del Regolamento di Dublino sull’immigrazione). Ma i punti menzionati sono tutti rilevantissimi anche per l’Agenda Italia. Se un nuovo governo li includesse nel programma, si tratterebbe (questa volta sì) di un cambiamento epocale rispetto agli approcci del passato, prevalentemente basati sulla difesa a oltranza dell’esistente (settori economici tradizionali, previdenza pensionistica) piuttosto che investimenti per il futuro e per l’inclusione attiva delle persone più svantaggiate. Oltre che per i contenuti, la svolta di von der Leyen merita attenzione anche per altri motivi. In vari Paesi membri non vi sono oggi i margini fiscali per muovere nelle direzioni indicate dalla neopresidente. Certo, con incisive riqualificazioni della spesa pubblica e una lotta a tutto campo contro l’evasione, un po’ di margini si potrebbero (e dovrebbero) trovare. Ma difficilmente basterebbero, almeno nel breve periodo. In Italia abbiamo una complicazione in più. Le clausole sull’Iva introdotte dal governo giallo-verde ci obbligano a trovare 23 miliardi per il 2020 e 29 per il 2021. Se non le disinneschiamo, si rischia di tarpare ancor di più le ali a una crescita già intorno allo zero. E senza crescita il debito non scende. C’è un modo per uscire da questo circolo vizioso? Immaginiamo il seguente scenario. Il nuovo governo elabora (preferibilmente con l’assistenza tecnica della Commissione) un ambizioso piano di riforme in linea con l’Agenda Ursula, indicandone anche i costi. Poi lo presenta come Nota aggiuntiva al programma di Stabilità che tutti i Paesi devono sottoporre a Bruxelles nel mese di ottobre. Come reagirebbe la Commissione? È difficile che ci risponda con un no secco. Vorrà sicuramente essere sicura che non si tratti di una richiesta opportunistica, come è già avvenuto in passato. Chiederà assicurazioni su contenuti e tempi delle riforme, forse vorrà essere coinvolta nel monitoraggio e nella valutazione in corso d’opera. Inoltre si aspetterà che la legge di Stabilità per il 2020 si allinei alle raccomandazioni di politica economica e sociale ricevute dall’Italia lo scorso giugno (ad esempio rivedere quota 100 e il reddito di cittadinanza, per renderlo più efficace). (...)"

venerdì 30 maggio 2014

Dopo Il Voto, In Europa


Dal 22 al 25 maggio i 28 stati membri dell’UE, compresa l’Italia, hanno votato per il rinnovo del Parlamento europeo, l’unica istituzione europea a essere eletta direttamente dai cittadini.
Dopo il voto sono iniziate anche le trattative per decidere diverse nomine, a partire da quella del presidente della Commissione, e le trattative per la formazione dei nuovi equilibri (cioè dei gruppi politici) all’interno del Parlamento. Ma chi andrà dove e a fare cosa?

Prima cosa importante da sapere: le principali istituzioni dell’UE sono il Parlamento, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione europea, la Corte di giustizia dell’UE, la Banca centrale europea e la Corte dei conti. Ci sono poi vari organismi e comitati.
 
Si è detto che la Germania ha esercitato un dominio non una leadership e che la sua politica si è ri-nazionalizzata. Vero, ma non perché l’attuale classe dirigente voglia andarsene per la propria strada, ma perché è convinta che il suo modello di successo possa essere esportato e replicato. I risultati elettorali non sono tali da modificare questa linea politica, ma certo indurranno a cambiar tattica. Lo si vedrà subito, con i primi incontri a Bruxelles, e ancor meglio la settimana prossima, il 5 giugno, quando la Banca centrale europea è chiamata ad adottare la nuova politica monetaria per fermare la deflazione e rilanciare la crescita. A quel punto, Kaiser Draghi prenderà di nuovo in mano le redini delleconomia. La Bundesbank continuerà ad avere il mal di pancia, ma dovrà prendersi un imodium.
Il risultato clamoroso di Renzi mette l’Italia sugli scudi e rende importante il semestre di presidenza (normalmente mera routine), tanto più in questa Europa senza assi preferenziali. Berlino, rimasta orfana di Parigi, ascolterà Roma? La risposta più gettonata è sì a condizione che il governo italiano si presenti al tavolo con le riforme ben avviate (mercato del lavoro, amministrazione pubblica, giustizia civile, sistema elettorale, tutte le slide illustrate anche agli uomini della Merkel). È vero, ma non basta. L’Italia dovrà essere in grado di avanzare proposte concrete per sbloccare il doppio impasse nel quale si dibatte l’Unione e che ha favorito le convulsioni anti-europeiste: la moneta senza sovrano e la tecnocrazia senza politica.
 
Per la Francia invece è in questione quella sintesi fra vocazione europea e fierezza nazionale che ha dettato il suo ruolo nel processo di unificazione e nell’intero contesto internazionale. Quello che era l'asse Parigi- Bonn, poi Berlino-Parigi, è ora ulteriormente sbilanciato, come già sottolineava Affarinternazionali. Vi subentra una stella, di cui la capitale tedesca occupa il centro e quella francese è certo una delle punte, ma non la sola. La gestione della stella è la sfida che si pone oggi alla Cancelliera tedesca e ai suoi partner socialdemocratici. Una storia lunga e spesso tragica è prodiga di ammaestramenti. Un primo è che la Germania è stata sempre più capace di costruire (e ricostruire) potenza nazionale che di formare coalizioni internazionali forti e solidali. Il rischio inerente alla centralità è l’isolamento. Un secondo, più recente ammaestramento è che la sovranità non è condizione necessaria alla potenza. Qui il rischio che discende dalla centralità è la tentazione del recupero sovranista, di cui abbiamo già avuto alcune avvisaglie. L’espansione dell’economia e un minimo di politica estera comune sono i prossimi banchi di prova. -

domenica 12 gennaio 2014

Dublino, Madrid, Lisbona, Atene: le 4 facce della crisi (F.Goria su Linkiesta)

Segnalo un bell'articolo di Fabrizio Goria sui risultati dell'azione della troika in quattro paesi europei. C'è da riflettere su un fattore: forse gli sforzi "maledetti" della troika funzionano - se e quando funzionano (Goria dettaglia bene le ambiguità e le contraddizioni degli interventi) - anche perché - soprattutto perché - la forza della troika è anche quella di un'entità "esterna" ai compromessi dei paesi "in cura". 

Proprio questo però alimenta la percezione di una "non autonomia" dei paesi, e di una lontananza dei processi decisionali nei momenti di crisi, che però sono i momenti in cui sarebbe necessario far percepire maggiormente che "nessuno rimarrà indietro". 

Nella tensione fra queste due facce della "soluzione" della crisi, vediamo lo spazio che potrebbe esserci per una politica comunitaria europea non di "facile spesa risolvi-tutto", ma di coordinamento e di indirizzo per far capire a tutti i cittadini europei che stiamo diventando una comunità. 

Se ci fosse una comunità politica coesa, forse gli sforzi comuni sarebbero stati diversi, e le sofferenze - e la percezione di solitudine, se non anche di diperazione, dei cittadini - avrebbero potuto essere minori.

FMM

La narrativa delle crisi dell’eurozona è mutata. La sua storia pure. Una lieve ripresa economica, seppur disomogenea e assai fragile, è arrivata e sul fronte finanziario le tempeste vissute fra 2010 e 2012 sono un ricordo. Il 2014 inizia con le quattro storie: due di sostanziale successo, due chiaroscurali ma comunque più positive delle aspettative. Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia sono i Paesi che hanno richiesto un programma di salvataggio alla troika composta da Commissione Ue, Banca centrale europea (Bce) e Fondo monetario internazionale (Fmi). I primi due ne sono usciti, il terzo lo sta per fare e il quarto, nonostante le enormi difficoltà, potrebbe farlo prima del previsto. Quattro nazioni che hanno avuto crisi diverse l’una dall’altra, quattro nazioni per le quali il tunnel della peggiore crisi dal Secondo dopoguerra sta terminando, quattro esempi di come la troika ha agito - ora bene, ora male - per fronteggiare l’emergenza.(...)

Il maggior difetto procedurale della troika in questi anni è stato forse il suo dogmatismo. O meglio la credenza, poi mutata in corsa non senza diversi ritardi sulla tabella di marcia, che si potesse applicare lo stesso modello a tutti i Paesi che hanno chiesto un sostegno finanziario. Le autorità europee, nonostante le pungolature del Fmi, hanno compreso tardi l’entità delle singole crisi sovrane, cercando poi di porre una pezza che molto spesso, vedasi il Psi sulla Grecia effettuato senza un Osi, ha fatto più danni che benefici. Il vento però ha cambiato direzione. L’uscita dai piani di salvataggio da parte di Irlanda e Spagna, e i segnali positivi che arrivano da Lisbona, possono aiutare l’intera eurozona a creare, con il supporto della Bce, una nuova normalità. A patto che non ci si dimentichi che il percorso è ancora lungo e che senza riforme (e sforzi) da parte di tutti i membri dell’area euro il rischio di un collasso potrà tornare a galla. Capito, Italia?

lunedì 16 dicembre 2013

Dove va l'Irlanda? (da ilPost)

Domenica 15 dicembre l’Irlanda è uscita dal programma di aiuti europei (il cosiddetto “bailout”) cominciato tre anni fa in seguito allo scoppio della crisi finanziaria. Da allora, l’Irlanda aveva ricevuto una serie di prestiti pari in tutto a 85 miliardi di euro. Questi prestiti sono stati concessi in cambio di alcune misure fiscali, un esempio della cosiddetta “austerity” che ha riguardato diversi altri paesi europei.

Da adesso, l’Irlanda tornerà a fare affidamento sul mercato per finanziare la propria spesa pubblica. Il paese sta attraversando un momento di ripresa economica, ma, come fanno notare quasi tutti gli osservatori, si tratta di una ripresa ancora fragile. Nonostante questo, il governo ha già promesso che dall’anno prossimo le tasse, alzate fino a raggiungere il record storico durante la crisi, saranno abbassate.

L’uscita dal programma di aiuti ha fatto tornare attuale una discussione che divide da molto tempo gli economisti, i commentatori e la stessa Commissione europea: l’Irlanda è davvero la dimostrazione che austerity più riforme incisive possono salvare un paese dalla crisi e riportare la crescita economica?

La crisi dell’Irlanda
Il Financial Times ha scritto che l’uscita dell’Irlanda dal programma di aiuti è un segno dell’importanza di rimuovere i legami tra lo stato e le banche. Nel 2010, infatti, il bilancio dell’Irlanda era in una situazione ancora gestibile, ma le sue banche si trovavano in una profonda crisi. Il governo intervenne per aiutarle in una maniera che si rivelò poi disastrosa.
La soluzione scelta per salvare il sistema finanziario dal governo dell’epoca – legato ai dirigenti e ai proprietari di diversi istituti bancari – fu di garantire completamente i debiti di sei banche. Questa garanzia si rivelò immensamente più costosa di quanto il governo aveva immaginato. In sostanza, il debito delle banche divenne debito dello stato, che passò in pochi anni dal 25 per cento del PIL all’attuale 124 per cento. A causa di questa situazione, alla fine del 2010 l’Irlanda chiese l’aiuto dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale e cominciò ad adottare una lunga serie di misure di austerità. (...)

martedì 19 novembre 2013

Germania, la preoccupante fuga dagli investimenti (da Linkiesta.it)

(...) Quasi a conferma delle preoccupazioni espresse poche giorni fa dalla Commissione europea, che ha aperto una procedura per l’eccessivo surplus delle partite correnti (bilancia commerciale in testa) di Berlino – chiedendo proprio più investimenti e misure per aumentare i consumi interni - questo lunedì è giunta una indagine dell’Institut für deutsche Wirtschaft (istituto per l’economia tedesca, IW, di Colonia) che ha lanciato un non tanto velato allarme per il 2014.
L’IW ha condotto un’indagine su 3.300 imprese tedesche, traendone un quadro non troppo rassicurante. Certo, il 28% ha in programma nuove assunzioni, cifra che farebbe stappare champagne in Italia, non però in Germania, che è in tutt’altra situazione economica. Al tempo stesso, però, solo poco meno di un terzo delle imprese ha intenzione di aumentare gli investimenti il prossimo anno – esattamente lo stesso valore della primavera 2013. Investimenti, insomma, in piena stagnazione, e questo nonostante il clima economico nettamente migliorato. A questo si aggiunge che una impresa su sei vuole addirittura ridurli. (...) Keynesiamente, molti esperti ritengono che gli investimenti delle imprese potrebbero essere stimolati, come accennava Hüther, da quelli di Stato. Che invece sono – ormai a detta di tutti gli esperti – drammaticamente in ristagno, come dimostrano le infrastrutture sempre più fatiscenti in molte parti del paese. «Il governo – ha dichiarato Charles Wyplosz, un noto economista, a Die Welt – dovrebbe utilizzare i propri margini finanziari (i conti pubblici tedeschi sono in ottima forma, con un aumentato gettito fiscale e tassi di interesse sui titoli germanici ai minimi termini, ndr) per stimolare la domanda interna. Questo potrebbe incoraggiare le imprese a investire facendo così diminuire l’elevato surplus delle partite correnti tedesche». Più o meno lo stesso messaggio di Bruxelles.(...)

giovedì 29 novembre 2012

Rischio Ungheria?



Condivido con voi la dichiarazione dell'ottima Debora Serracchiani in occasione dell'interrogazione alla Commissione europea con cui denuncia la richiesta del partito di estrema destra Jobbik, che ha proposto di stilare una lista di tutte le imprese ungheresi di proprietà di ebrei, e una lista di persone con doppia cittadinanza ungherese e israeliana , che rappresenterebbero un 'rischio per 
la sic
urezza nazionale.

"In Ungheria è in corso una minaccia dei comuni valori europei non dovrebbe essere necessario sottolineare la gravità di quanto sta accadendo in Ungheria dove, da parte di formazioni organizzate, il richiamo all'antisemitismo e ai metodi del nazismo è sempre più esplicito e arrogante; I precedenti storici dovrebbero allarmarci, e non farci accontentare delle minimizzazioni che vengono dal Governo ungherese, né farci placare dalla condanna della Commissione europea, pur importante. Bisogna valutare seriamente se questi fatti possano rappresentare la condizione prevista dall'articolo 7 del Trattato dell'Unione Europea, che prevede un meccanismo di prevenzione, in caso di rischio di una violazione dei valori comuni da parte di uno Stato membro, e un meccanismo di sanzione in caso di violazione di questi valori"

Sull'Ungheria puoi leggere anche:





lunedì 13 febbraio 2012

Cosa ci dice la rabbia dei greci (da laStampa)


Osserviamo con attenzione la Grecia, perché può insegnarci molto. I leader dei due principali partiti politici sono coscienti, d’accordo con il primo ministro tecnico, che altri sacrifici sono inevitabili. Ma la gente non ne può più, perché i sacrifici finora sono stati distribuiti male, e segni di speranza non se ne vedono. Nei nostri tempi, nessuna democrazia era mai stata sottoposta a uno stress simile a quelli da cui nacquero le dittature degli Anni 30.


Vediamo un sistema politico e amministrativo corrotto avvitarsi su sé stesso. Il medico-sindacalista ateniese intervistato ieri da questo giornale sosteneva che i tagli di spesa fanno mancare le medicine negli ospedali. Fino a ieri, peraltro, risultava come prassi corrente rivendere all’estero, dove i prezzi sono più alti, i medicinali acquistati dal sistema sanitario pubblico greco. Non a caso la spesa pro capite per farmaci l’anno scorso è stata oltre il 15% superiore rispetto all’Italia, benché il reddito sia alquanto più basso.

In questo caso come in altri, la corruzione che pervade il sistema scarica tutto il peso dei sacrifici sui più deboli, ovvero su chi non fa parte di una clientela o di una categoria protetta.

Peggio ancora, l’incapacità di toccare i privilegi blocca ogni tentativo di rivitalizzare l’economia. Ai deputati risulta più facile aumentare le tasse a tutti che pestare i piedi a gruppi di interesse compatti. Dopodiché una amministrazione corrotta riesce a riscuotere le maggiori tasse solo dai soliti noti, mentre i furbi se la cavano (portare l’aliquota Iva dal 19 al 23% non ne ha accresciuto il gettito).

Il sindacato dei poliziotti ellenici vorrebbe mettere in galera gli inviati della «troika» (Commissione europea, Bce, Fondo monetario). Eppure a tormentare la «troika» è assai più la mancanza di riforme strutturali. Ad esempio, poco o nulla si è fatto in materia di privatizzazioni, perché i politici non volevano rinunciare a strumenti di potere. E perché mai un Paese in queste condizioni è pronto a tagliare le spese militari solo se «non pregiudicano le capacità difensive»?

Dall’altro lato dello Ionio arrivano a punte estreme fenomeni che ben conosciamo. (...)


Cosa ci dice la rabbia dei greci (di Stefano Lepri, da laStampa)


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(...) Un paese dove, sino all’altro giorno, le figlie nubili dei dipendenti pubblici ottenevano uno stipendio dal governo e i barbieri vanno in pensione, pubblica e sussidiata, a 50 anni perché maneggiano sostanze pericolose! Impressiona la continua falsificazione della situazione greca sulla stampa italiana “indipendente” mentre persino Claudi Perez, uno dei giornalisti economici spagnoli più quotati ma anche più dichiaratamente schierati a sinistra e vicino al movimento de los indignados, riporta su El Pais che i partners europei si sono stancati oramai delle continue bugie e dei subdoli trucchi dei politici greci e che «Hasta ahora, la métrica del rescate griego ha sido crédito a cambio de promesas».
Perché qui sta il punto: per qualche ragione misteriosa gli italiani sono convinti che in Grecia siano lacrime e sangue, in termini di tagli ed austerità, da decine di mesi, mentre son quasi tutte chiacchere. Come lo stesso Claudi riporta, delle sbandierate multe per evasione fiscale pari a 8,6 miliardi di euro emesse durante gli ultimi due anni, il governo greco è riuscito a farsi pagare sino ad ora ... 80 milioni circa!
L’Italia è di fatto l’unico paese europeo in cui l’opinione pubblica vive nella credenza che la Grecia sia una innocente vittima dei caimani finanziari internazionali per i quali i Merkelzy lavorano (un certo, malinteso, nazionalismo suggerisce ai più di non nominare il nome di Mario Draghi invano ...) e che la Grecia risolverebbe i propri problemi facendo default ed andandosene dall’euro. Vogliano gli dei dell’Olimpo che questo mai succeda e ringrazino Merkel per averglielo impedito.(...)