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martedì 22 ottobre 2013

Chi è Karnit Flug?

È Karnit Flug il nuovo governatore della Banca centrale d’Israele. Già vice del predecessore Stanley Fischer, e facente funzione dopo le dimissioni di quest’ultimo lo scorso giugno, Flug è stata scelta dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dal ministro delle Finanze Yair Lapid, dopo una saga durata 112 giorni e l’evaporazione delle candidature di tre economisti di punta (...) Nel frattempo, Flug, nata in Polonia nel 1955, emigrata in Israele con la famiglia a tre anni, laurea all’Università ebraica di Gerusalemme, dottorato alla Columbia di New York, esperienze al Fondo monetario internazionale e all’Inter-American Development Bank, teneva il timone e aspettava. Pur con la sponsorizzazione di Fischer infatti, non riscuoteva la simpatia del premier Netanyahu. Che però alla fine si è reso conto di avere davvero in casa migliore delle soluzioni possibili, dopo mesi di incertezza e frustrazione che rischiavano di irritare i mercati. L’intero processo di nomina è stato fortemente criticato da Lapid, che lo ha definito orribile e sbagliato. Cosa aspettarsi ora da Flug? Scelte in linea con quelle del suo predecessore, una politica monetaria espansiva per favorire la crescita, trasparenza e fissazione di obiettivi quantitativi da perseguire. Tra le preoccupazioni maggiori in questo momento, quella di contrastare la debolezza del dollaro rispetto allo shekel, in particolare per quanto riguarda le esportazioni, paventando società costrette a pagare i dipendenti con la costosa moneta israeliana, ricevendo pagamenti nella valuta dello zio Sam. Fenomeno che, senza correre ai ripari, Flug ritiene possa comportare la perdita di posti di lavoro. È stata proprio la lucidità dei ragionamenti dell’economista su questi temi, esposta nel corso di una delle riunioni estive, a convincere Netanyahu alla svolta. Anche se alcuni fanno notare come anche la recente scelta del presidente degli Stati Uniti Barack Obama di nominare alla guida della Federal Reserve proprio una donna, Janet Yellen, pure lei vice del precedente governatore Ben Bernanke, non sia certo passata inosservata a Gerusalemme. -
 

domenica 4 novembre 2012

Speriamo di non finire come gli USA (Mario Deaglio su La Stampa)

Il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Mitt Romney, ha affermato, un paio di giorni addietro, che il suo Paese rischia di finire come l’Italia. Gli italiani potrebbero replicare che sperano di non finire come gli Stati Uniti: l’emergenza dell’uragano Sandy - per quanto correttamente gestita, a differenza di quella dell’uragano Katrina del 2005 - ha posto in luce una realtà di infrastrutture pubbliche deboli al punto che il maggior centro finanziario del mondo ha dovuto chiudere per due giorni, quasi quanto per l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001
Pur spendendo per la sanità, in rapporto al prodotto interno lordo, circa il doppio di quanto spende l’Italia, gli Stati Uniti presentano indicatori sanitari nettamente peggiori: la speranza di vita alla nascita è di 78 anni contro gli 81 dell’Italia e il numero delle donne morte di parto è di 21 ogni centomila nati contro 4 dell’Italia. Se poi passiamo all’economia, scopriamo che il deficit pubblico degli Stati Uniti è pari circa l’8 per cento del prodotto interno lordo, quello dell’Italia a circa il 3 per cento.  

Naturalmente l’America di Obama/Romney può vantare iniziativa e innovazione, un mercato finanziario agile e una moneta rispettata, un’eccellenza tecnologica in molti settori, una forza militare senza rivali. Che a vincere sia Romney oppure Obama, però, le debolezze strutturali, sovente trascurate, finiranno per pesare e renderanno molto faticosa la vita del prossimo inquilino della Casa Bianca. Se poi, come è ben possibile, il partito del Presidente non avrà il controllo del Congresso, per l’America si porrà, come per diversi Paesi europei, un problema di governabilità reso più complicato dalla crisi. 

lunedì 2 gennaio 2012

Da cosa dipende lo sviluppo (FULM - Fondazione Ugo La Malfa)

(...) In questi ultimi tempi si è assistito a un profondo mutamento degli obiettivi della politica monetaria; le banche centrali si sono dedicate alla cura della stabilità finanziaria piuttosto che al più classico controllo dei prezzi, pur essendo due facce della stessa medaglia. Ciò è stato possibile perché l'inflazione è controllata dalla bassa crescita della domanda, soprattutto in Europa, ma gli interventi necessari a stabilizzare i mercati del credito e dei titoli hanno creato un habitat inflazionistico globale che può esplodere appena la situazione gira.

E ciò accadrà, perché le crisi comunque finiscono. Per questo motivo le banche centrali si rifiutano di inviare segnali forti di sostegno dell'attività produttiva, negando che sia un loro compito farlo, e sono prodighe di avvertimenti che prima o dopo devono rientrare nell'ortodossia delle gestioni monetarie. Fa eccezione la Fed americana che si è avventurata ad annunciare un orizzonte temporale pluriennale (fino a metà 2013) per la sua politica espansiva. È cosa nota che gli Stati Uniti pongono poca attenzione al valore del dollaro, che considerano la loro moneta, ma un nostro problema.
Infatti lo è ed è per questo motivo che tra le incognite dello sviluppo vi è anche l'andamento del cambio dollaro-yuan, i cui mutamenti, una volta risolta la crisi dell'euro, possono incidere sulla capacità di esportare delle imprese italiane attraverso rivalutazioni del cambio della moneta europea.
Va aggiunto che l'uso di un'unica lente di lettura dell'economia italiana non si adatta alla profonda spaccatura che si va accentuando tra Nord e Sud d'Italia, con andamenti che, per alcune regioni, Lombardia in testa, non possono lasciarle indifferenti, perché la domanda meridionale rappresenta una parte significativa del loro prodotto interno lordo. È quindi necessario estendere il campo visivo alla considerazione degli andamenti del Mezzogiorno, con una particolare attenzione alla natura e all'entità delle politiche di coesione europea e all'applicazione che di esse verrà data dal nuovo governo.
Se esso non si indirizzerà a pioggia, come in passato, ma rafforzerà le esportazioni e la sostituzione di importazioni dall'esterno con prodotti locali, dal Sud potrebbe provenire un contributo positivo alla stabilità economica e sociale dell'intero Paese. Le crisi affrontate dall'Italia nel corso dei 150 anni della sua storia, che quest'anno celebriamo, testimoniano che i problemi italiani non covano nell'economia, ma nella società.

giovedì 29 dicembre 2011

Quando cambiano gli equilibri del mondo

Come ha ben visto il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, la recente decisione di Cina e Giappone di rinunciare al dollaro per le transazioni fra i due paesi è una specie di allarme che non rigurda solo gli Stati Uniti. L'Europa è chiamata a fare la sua parte in un mondo che si sta riorganizzando, ci piaccia o no. 
E' quanto mai necessario - anche per mettere a punto una reale e duratura "soluzione" (se è possibile parlare di una soluzione, forse dovremmo dire un "tentativo di governo"...) della crisi economico-finanziaria - prendere atto del potere della Cina e "costringerla" a definire insieme a Europa e Stati Uniti una agenda complessiva che riguardi tutti i temi globali (non solo economici) oggi in campo: a partire dalla fluttuazione delle monete (da controllare in una sorta di "Serpente monetario globale"), per arrivare a temi come la concorrenza (dove è sempre più probabile il ritorno di un clima protezionistico, che almeno sul breve periodo potrebbe temperare le economie e permettere il riavvio di una domanda interna ai vari continenti), e definendo anche standard comuni per ambiente e lavoro. 
Un tavolo comune - che avrà anche inevitabili risvolti più direttamente politici, come si è già detto in passato - da "convocare" al più presto.

Francesco Maria Mariotti

(...) non c' è dubbio che l' intesa è piena di simbolismi destinati a rafforzare l' immagine di un' Asia sempre più autonoma e con una forte capacità d' attrazione. Accordi che, al di là delle ragioni tecnico-economiche che li hanno ispirati - ragioni che hanno un loro fondamento oggettivo - entro pochi anni potrebbero anche innescare nuovi processi di tipo politico. In sé la scelta di utilizzare di più yen e yuan nelle transazioni tra i due Paesi risponde all' esigenza di contenere i rischi sui cambi, ridimensionando il ruolo della valuta - il dollaro - che negli ultimi anni si è dimostrata più debole e instabile e archiviando la possibilità di ricorrere maggiormente a un euro che negli ultimi mesi ha perso credibilità e valore. Anche l' intenzione di Tokio di investire di più in titoli cinesi risponde a una ragionevole strategia di diversificazione del rischio: il Giappone, secondo solo alla Cina per l' imponenza delle sue riserve valutarie (1.300 miliardi di dollari, mentre Pechino ne ha per ben 3.200 miliardi), sta, infatti, registrando grosse perdite sui suoi massicci investimenti denominati nella valuta Usa. In questo Cina e Giappone, storiche nemiche sul campo, registrano una crescente convergenza d' interessi in campo commerciale e finanziario. Una convergenza che ha reso possibile un' intesa tra due Paesi comunque divisi da dispute territoriali (isole contese del Pacifico), che faticano a tenere a bada opinioni pubbliche attratte più dal falò dei contrapposti nazionalismi che dalle ragioni del dialogo. Proprio per questo l' accordo ha preso di sorpresa molti osservatori. E ora, davanti a una Cina che ha messo a segno un altro colpo sulla strada del riconoscimento del ruolo internazionale dello yuan, ci si chiede quanto peserà, nel lungo periodo, questo processo. (...)


(...) L'11 dicembre 2011 la Cina ha celebrato il primo decennale di adesione alla World Trade Organization; pochi giorni prima, al G20 di Cannes, il premier cinese aveva annunciato una politica di free market per l'export proveniente dai paesi più poveri del mondo. Si tratta di eventi e determinazioni che, insieme con le recenti misure neoprotezioniste verso gli Usa, mostrano che la Cina, attraverso diverse strategie, intende assumere un ruolo preminente di leadership sulla scena mondiale.