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martedì 1 dicembre 2020

Perché Qe e monetizzazione del debito non sono sinonimi (Tommaso Monacelli, laVoce.info)

"Quantitative easing e monetizzazione del debito sono profondamente diversi per natura e obiettivi. E soprattutto il secondo porterebbe alla perdita di uno dei beni pubblici più importanti dell’Europa di oggi: l’indipendenza della banca centrale.

(...)

Immaginiamo una banca centrale che si impegni oggi ad acquistare ogni nuova emissione di debito dello stato. Così facendo, rinuncia completamente a gestire la quantità di moneta emessa nel sistema economico. Gli agenti capirebbero facilmente che la banca centrale non avrebbe l’autonomia operativa, ad esempio, per contrarre la quantità di moneta in circolazione quando l’economia esibisse spinte inflazionistiche. Quindi, nel regime di finanziamento monetario, non solo la banca centrale alimenterebbe l’effetto inflazionistico di maggiore spesa pubblica, ma quell’effetto verrebbe amplificato dal lievitare delle aspettative di inflazione.

L’indipendenza delle banche centrali

La teoria economica ha compreso molto bene il punto e non è un caso che la conduzione della politica monetaria sia stata negli ultimi decenni svincolata da quella della politica fiscale. L’idea chiave dell’indipendenza della banca centrale ha posto le basi – nei paesi avanzati, ma gradualmente anche in molti paesi in via di sviluppo – per una riduzione permanente del livello di inflazione rispetto agli alti e costosi livelli degli anni Ottanta e Novanta. Una lezione che pare dimenticata.

Oggi è infatti molto diffusa l’idea che le recenti politiche di acquisto di titoli di stato da parte della Banca centrale europea (il cosiddetto Quantitative easing) equivalgano a un finanziamento monetario del debito. Per giunta, si dice, senza che abbia dato alcun segno di incremento dell’inflazione in Europa. Il finanziamento monetario del debito sarebbe dunque possibile senza alcun costo inflazionistico.

In realtà, il Qe è cosa ben diversa dal finanziamento monetario del debito. Mentre il secondo consiste in un impegno permanente ad acquistare i titoli di stato emessi dallo stato (e a tenerli sul proprio bilancio), il primo ha per costruzione una natura temporanea. Nessuna banca centrale che abbia operato con il Qe negli ultimi anni ha mai segnalato, in alcun modo, che i titoli di stato acquistati sarebbero stati mantenuti sul bilancio in via permanente. È un aspetto cruciale, eppure sempre ignorato nel dibattito comune. Non è un caso che la Bce non abbia mai preso alcun vincolo ad acquistare titoli di stato dei paesi europei precludendosi la possibilità di rivenderli (seppur gradualmente) in futuro. In altre parole, la banca centrale utilizza il Qe come strumento non convenzionale di politica monetaria in un quadro di piena autonomia dalla politica fiscale. Autonomia, cioè, di decidere in futuro di rivendere quei titoli per regolare la massa monetaria in circolazione quando l’inflazione dovesse ricominciare a crescere. La stessa cosa vale per il Giappone, spesso indicato come esempio virtuoso in cui la banca centrale sta acquistando quote crescenti del debito pubblico. (...)

La natura e l’obiettivo del Qe sono profondamente diversi da un regime di monetizzazione del debito. Con il Qe l’obiettivo della banca centrale è di raggiungere un rialzo graduale, ma contenuto, dell’inflazione, in linea con il target. Mantenendo l’autonomia di regolare la massa monetaria in futuro quando l’inflazione dovesse ricominciare a crescere. La monetizzazione del debito non porterebbe ad altro, prima o poi, che a una perdita di controllo sull’andamento dell’inflazione (una tassa regressiva che colpisce innanzitutto i più poveri). E soprattutto porterebbe alla perdita di uno dei beni pubblici più importanti che l’Europa possiede oggi: l’indipendenza della banca centrale."

https://www.lavoce.info/archives/71021/perche-qe-e-monetizzazione-del-debito-non-sono-sinonimi/

martedì 7 maggio 2019

Perché il QE non ha prodotto inflazione (laVoce.info)

"(...) Come nasce allora la “moneta”? In due passaggi, nella cui distinzione logica risiede la ragione per cui a un’espansione di base monetaria non necessariamente segue una pari di moneta.

Nel primo passaggio, se la Bce vuole “creare” una nuova banconota da 10 euro, lo fa acquistando da una banca un titolo del valore di 10 euro. Nel bilancio della banca il titolo è quindi sostituito dalla nuova “base monetaria”. Se la banca decide di tenere quei 10 euro in cassa, quella banconota sarà “riserva bancaria in eccesso” e verrà tesaurizzata per il suo ruolo di riserva di valore (come una qualsiasi altra attività finanziaria) e depositata presso la Bce. Quella banconota non è ancora “moneta” spendibile, ma solo un asset.

La “moneta” si crea nel secondo passaggio: se e quando la banca decide che le conviene di più prestare quella banconota a un privato che la voglia spendere, trasformandola in “circolante” (e sostituendola nell’attivo di bilancio con il prestito concesso), o utilizzarla come leva per espandere il credito creando nuovi “depositi” (nei limiti imposti dai requisiti di riserva obbligatoria). Così quella banconota si riproduce e si moltiplica in nuovi mezzi di pagamento, cioè nuova “moneta” (cosiddetto moltiplicatore della base monetaria). (...)


Non è affatto contro-intuitivo quindi che il Qe non abbia generato una fiammata inflazionistica commisurata all’espansione del bilancio della Bce, ma è anzi in linea con l’evidenza che lega l’inflazione alla crescita della “moneta”, e non della “base monetaria”.

Val la pena sottolineare che l’incentivo a tesaurizzare le “riserve” create con il Qe deriva dal fatto che queste ultime sono prive di rischio non solo nominale (per costruzione) ma anche reale, nella misura in cui è credibile l’impegno della Bce di conservare stabile il valore di scambio di ciascun euro, cioè il livello dei prezzi. Alla credibilità contribuisce il fatto che queste espansioni di base monetaria sono esplicitamente temporanee, per quanto persistenti. In assenza di questo impegno, le banche cercherebbero di liberarsi delle riserve come oggi fanno con le attività rischiose, riversandole nel mercato finanziario, creando moneta, e alimentando inflazione."


https://www.lavoce.info/archives/58941/perche-il-qe-non-ha-prodotto-inflazione/

venerdì 9 maggio 2014

Perché Draghi Aspetta Giugno

Nel corso della conferenza stampa che tradizionalmente segue l'annuncio sui tassi, il presidente della Bce Mario Draghi ha confermato le previsioni già fatte dall'Eurotower sulla ripresa europea, spiegando che i tassi attuali, o eventualmente più bassi, sono destinati a restare per un periodo «prolungato» di tempo. Confermate la previsioni sull'inflazione destinata a restare bassa e a crescere in maniera molto modesta
 
con un'analisi di Riccardo Sorrentino - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/p8NXH
  
Perché aspettare? I rischi geopolitici sono stati ancora una volta citati dalla Bce, insieme all'euro e nello stesso contesto, come un fattore di preoccupazione. Gli effetti di un'escalation della crisi in Ucraina – ma anche, ha detto Draghi, di un peggioramento dell'attività economica in Russia o di un effetto eccessivo delle sanzioni – potrebbero manifestarsi in due modi diversi: attraverso una riduzione della domanda, che potrebbe colpire i paesi di Eurolandia con un ampio interscambio con la Russia e l'Ucraina, o attraverso un aumento dei prezzi
 
analisi di Riccardo Sorrentino - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/1iKoq
 
La politica delle aspettative rappresenta il meccanismo cruciale per governare la trasmissione della politica monetaria, soprattutto in una fase storica come questa, in cui una profonda recessione economica ha seguito una grave crisi finanziaria. Il mix tra crisi finanziaria sistemica e recessione economica - chiamiamola recessione sistemica - è micidiale. Guardando alla storia, le recessioni sistemiche hanno finora colpito in 63 casi Paesi avanzati ed in 37 casi Paesi emergenti. Tra le 35 peggiori recessioni sistemiche, sono già entrate in classifica cinque casi della recente crisi: Grecia, Irlanda, Islanda, Italia e Ucraina. Inoltre, quando la crisi è grave, nel 66% dei casi vi è una ricaduta recessiva. Dunque durante una recessione sistemica - come l'attuale - il meccanismo delle aspettative rischia di essere particolarmente delicato. Sbagliare il messaggio di politica monetaria può essere molto dannoso. L'annuncio di politica monetaria diventa una pallottola d'argento; non va sprecata.
 
di Donato Masciandaro - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/11BLFY

giovedì 30 gennaio 2014

Occhio Agli Emergenti

(...) Yellen non ha “la palla di cristallo” ma è considerata una specie di Cassandra della macroeconomia (le sue stime sono state le più accurate tra quelle dei consiglieri della Fed) e la competenza nella regolamentazione finanziaria può aiutare a temperare gli eccessi di Wall Street accanto, ovviamente, alla riduzione degli stimoli, cosa che in questi giorni agita i mercati emergenti, beneficiari della liquidità americana. Additare la Fed fa comodo pure ai governi di Argentina, Thailandia e soprattutto Turchia, sotto scrutinio degli investitori più che altro per i rivolgimenti politici interni e le politiche monetarie poco ortodosse. Il sussulto di indipendenza della Banca centrale turca, che ha alzato tutti i tassi di riferimento contravvenendo ai diktat del premier Recep Tayyip Erdogan, ieri ha risollevato la lira svalutata. Il governatore, Erdem Basci, ha riaffermato la credibilità dell’Istituto con una stretta volta a ridimensionare un’economia gonfiatasi a dismisura ma tuttora molto fragile in quanto estremamente dipendente dagli investimenti esteri.


(...) Sfortunatamente, per loro e per tutti noi, gran parte dei paesi emergenti “non hanno fatto i compiti a casa”, come direbbe la maestrina Merkel, cioè non hanno mai fatto riforme per rendere competitive le proprie economie, limitandosi a godere del boom creditizio che flussi di denaro “caldo” dall’Occidente hanno prodotto. Alcuni di questi paesi hanno così accumulato ampi deficit delle partite correnti, cioè di competitività, ed ora saranno brutalmente costretti a tirare la cinghia. Esemplare il caso della Turchia, che si ritrova con forti debiti in dollari del proprio sistema creditizio e produttivo, e riserve valutarie ormai al lumicino. Inevitabili i forti aumenti dei tassi d’interesse e la rotta di collisione tra autorità monetarie e potere politico, che dovrebbe fare l’altra metà del lavoro sotto forma di stretta fiscale. (...)


Non sono bastate le misure straordinarie. Almeno per ora. Dopo il meeting d’emergenza della banca centrale, la lira turca ha continuato il suo deprezzamento contro le altre valute. Lo stesso ha fatto il rand sudafricano. Lo stesso ha fatto il peso argentino. Lo stesso hanno fatto le valute degli emergenti. Gli investitori temono che le autorità monetarie dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e dei Mikt (Messico, Indonesia, Turchia, Corea del Sud), possano intervenire - per esempio attraverso l’introduzione di restrizioni sulla libera circolazione dei capitali - per frenare la fuga degli operatori. Il massiccio sell-off visto in queste settimane, avverte HSBC, non è che l’inizio. Il peggio, specie con l’avanzamento dell’assottigliamento del QE della Fed, deve ancora arrivare. Anche perché, lo ricorda la banca angloasiatica, il 63% delle riserve valutarie mondiali è denominato in dollari statunitensi. Più la Fed riduce la liquidità esistente, più si amplificano le distorsioni domestiche delle economie emergenti, più si restringono le vie di accesso al credito dei sistemi bancari di questi Paesi. E questo potrebbe peggiorare con l’innalzamento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali a livello globale, dopo il più lungo periodo di Zero-interest rate policy dal Secondo dopoguerra a oggi. In sostanza, una spirale della morte. 

http://www.linkiesta.it/brics-crisi-contagio-mondo


martedì 21 gennaio 2014

Cambiare l'Europa - Processo liberista all’euro e all’Italia che non sa crescere (da ilFoglio.it)

Un articolo molto interessante su cosa si può cambiare in Europa. Argomento che ovviamente da qui alle prossime elezioni seguirò con maggiore attenzione. Perché l'Europa diventi sempre di più la nostra nuova patria.
FMM

(...) L’altro aspetto che secondo me è importante ricordare è che noi siamo entrati nell’euro come meccanismo di credibilità della nostra politica monetaria e della nostra politica fiscale. Se avete fatto gli studi classici, ricorderete l’esempio di Ulisse che si fa legare all’albero maestro della nave per non farsi attrarre dalle sirene, è un esempio bellissimo di quello che si chiama una politica di legarsi le mani in anticipo per un fine strategico. La nostra entrata nell’euro ha avuto esattamente questa funzione.

Questa è stata pensata contro un rischio di inflazione e di eccesso di spesa. Oggi però ci troviamo in una situazione molto diversa, dove i rischi maggiori sono i rischi di fallimento dello stato e di deflazione. Il grosso rischio è dire: noi ci siamo legati le mani per non fare certe strategie, però se Ulisse fosse andato contro gli scogli per colpa della strategia di legarsi all’albero, quella si sarebbe rivelata la strategia peggiore visto che sicuramente, finendo contro gli scogli, non si sarebbe potuto liberare. In qualche senso noi siamo oggi in questa situazione: da un lato abbiamo ottenuto grossi vantaggi che abbiamo sprecato, e dall’altro lato non abbiamo una flessibilità di cui abbiamo bisogno – di cui l’Europa avrebbe bisogno – in questo momento. Allora quali sono le cose che si possono fare in un semestre europeo a presidenza italiana per cercare di cambiare questa situazione? La mia visione è che senza un cambiamento radicale della politica europea, questa situazione non sia nel lungo periodo sostenibile. Dopo di che questo non vuol dire che non possa essere sostenuta per molti anni, ma se sostenuta per molti anni ha dei costi che vi illustrerò a breve. Allora, cosa si può fare?

Secondo me. ci sono tre canali importanti su cui operare. Il primo è molto semplice, è stato iniziato, ma non è stato realizzato in maniera corretta: ovvero come permettere una Unione bancaria che tratti tutti nello stesso modo. Qual è il problema? Lo sapete ormai tutti, c’è un circolo vizioso tra solvibilità dello stato e solvibilità delle banche, per cui in un mondo in cui le banche hanno implicitamente un supporto da parte dello stato, gli stati ricchi hanno le banche solide, gli stati poveri hanno delle banche non solide. E delle banche non solide creano problemi economici che rendono gli stati ancora meno solidi; è un circolo vizioso da cui non è facile uscire. Quindi l’idea di dire “facciamo un’assicurazione sui depositi a livello europeo”, come è stato iniziato con l’Unione bancaria, e “facciamo una vigilanza bancaria a livello europeo”, secondo me è corretta. Come è corretta la posizione tedesca di dire: “Noi non vogliamo semplicemente fare chi paga per gli errori altrui”. Il modo più corretto per risolvere questo problema è di recidere radicalmente questa connessione tra solvibilità dello stato e solvibilità delle banche, e questa garanzia implicita dello stato nei confronti delle banche. Con un collega di Harvard, ho lavorato a un meccanismo di pronto intervento sulle banche per evitare che si arrivi alla situazione in cui gli stati devono intervenire. Se noi avessimo una situazione di “pronto intervento” uguale per tutti gli stati europei, avremmo due vantaggi: il primo, interromperemmo questa spirale tra banche e stati; secondo, metteremmo tutte le banche europee sullo stesso piano. Invece il meccanismo che ha prevalso nell’Unione europea è un meccanismo in cui inizialmente – è vero – sono i creditori delle banche a pagare il costo, però alla fine c’è anche un fondo comune e in parte però rimane la possibilità per gli stati di intervenire. Perciò oggi, implicitamente, le banche tedesche hanno una maggiore solvibilità delle banche italiane.

Ricordatevi che i tedeschi, che sono contro tutti i “bailout” (o salvataggi, ndr) degli altri paesi, hanno fatto un bailout enorme delle loro banche, specie di quelle locali, all’indomani della crisi. Queste banche erano piene di titoli tossici americani e lo stato tedesco ha trasferito un grosso ammontare di risorse verso tali istituti di credito. Quindi la prima cosa da combattere è questo sistema di due pesi e due misure. (...)

Il secondo punto importante è un meccanismo di redistribuzione fiscale. Durante la crisi, in Italia c’è stata una forte pressione verso gli Eurobond. Questa mi pare una strategia sbagliata. Noi non possiamo, a livello europeo, andare a dire “voi dovete pagare i nostri crediti”, perché è una strategia che non funziona. Siccome nessun paese ha un grosso interesse a pagare i crediti altrui, noi possiamo chiedere quello che vogliamo ma non andremo da nessuna parte. Invece possiamo fare una differenza – e il semestre europeo a presidenza italiana per questo è un’enorme opportunità – dicendo: quello che noi vogliamo non è un meccanismo permanente di redistribuzione dal nord al sud, considerato che nessuno al nord vorrà questo meccanismo. Tuttavia un’area comune con una moneta comune deve avere dei meccanismi di stabilizzazione automatica con fondi comuni, quindi meccanismi che assicurino un certo “smoothing” del ciclo economico tra le varie aree europee.

Qual è il meccanismo automatico di stabilizzazione migliore che noi conosciamo? Sono i sussidi di disoccupazione; quindi la vera battaglia che noi come italiani dobbiamo fare durante il semestre europeo, è di dire: “Noi vogliamo un meccanismo di assicurazione della disoccupazione a livello europeo pagato con dei fondi europei”. Il bello di questo meccanismo è che non è un meccanismo permanente di trasferimento dal nord al sud. (...). Tra l’altro il grosso vantaggio di una iniziativa di questo tipo è anche di tipo politico, se posso permettermi di dirlo visto che io non sono un esperto in materia: nel senso che oggi l’Europa soffre una crisi di consenso generalizzato; nella misura in cui i disoccupati vedessero arrivare un assegno con il simbolo dell’Europa sopra, essi avrebbero una passione per l’Europa sicuramente molto maggiore di quella che è presente oggi. E di fronte agli estremismi che vedono l’Europa come una creazione di un’élite molto limitata, avere invece un meccanismo come quello di assicurazione contro la disoccupazione, riduce questo rischio.

Il terzo punto che è spesso ignorato ed è molto importante, riguarda chi e come disegna la regolamentazione. Naturalmente ogni paesi fa i suoi interessi; però essendo la Germania, e in parte la Francia, molto influenti, sia per dimensione sia anche per qualità del proprio personale burocratico, noi abbiamo oggi una situazione in cui la regolamentazione a livello europeo è una regolamentazione franco-tedesca. (...) Quindi la terza cosa che andrebbe fatta in questo semestre è un ripensamento degli effetti competitivi della regolamentazione, soprattutto sulle imprese del sud Europa.(...)

venerdì 15 novembre 2013

Abe In Dieci Punti (da ilSole24Ore.it)

​Vediamo in dieci punti luci e ombre, risultati positivi e aspetti problematici di un esperimento di politica economica e fiscale che ha suscitato grande attenzione internazionale come un modello alternativo _ sia pure rischioso _ per rilanciare la crescita economica in un Paese avanzato ad altissimi livello di indebitamento. Alternativo soprattutto rispetto alle politiche prevalenti nell'Eurozona, da molti considerate insufficienti o anche controproducenti
 
di Stefano Carrer - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/F92HC
 

mercoledì 13 novembre 2013

À La Guerre Comme À La Guerre? (Europa in tensione, Monete in guerra...)

Dunque l'Europa prende posizione "contro" la Germania, con cautela e con precisazioni varie, che vogliono evitare l'esplosione di una tensione che in realtà da tempo è presente nella zona Euro. Il passo potrebbe essere l'inizio di una svolta rispetto alla tendenza "solo-austerity" che ha segnato fin qui il percorso europeo nella crisi, ed è comunque importante come segnale nei confronti di tutta la comunità europea.

E' però lecito dubitare che mettere "sotto accusa" la Germania serva, senza ulteriori passaggi politico-comunitari (anche perché - lo si ricordava qualche giorno fa - il riequilibrio degli squilibri commerciali non è cosa che si possa imporre). L'Italia può giocare forse una partita diversa, appoggiandosi alle scelte odierne, ma proponendo agli stati più affini alla sua situazione - Spagna e Francia - di premere affinché la governance europea sia diversa. E' necessario quindi immaginare un "gioco di squadra" dei paesi del sud Europa (estremizzando irrealisticamente: si potrebbero "forzare" gli eurobond, comunque da soli non risolutivi, se alcuni paesi dicessero "noi li faremo comunque?") - che porti a rideterminare alcune scelte complessive della nostra Comunità.

Parallelamente al tentativo di riequilibrare le dinamiche "interne", si alzano voci sempre più decise contro l'Euro forte. Le preoccupazioni legittime si mescolano così alla tentazione di entrare nell'arena della "guerra delle valute", iniziata da tempo. La BCE in questi anni ha tentato di rimanere fuori da questa battaglia; ora le pressioni si fanno più forti. 

Su questo, ragiono ad alta voce da "inesperto", mi pare si possa dire che - come nelle guerre "vere" - il rischio è di sapere bene perché e come si "entra in battaglia", ma non capire, non sapere, non riuscire a definire come "se ne esce". La guerra monetaria può dare respiro all'Europa? forse, per un breve periodo. Ma il rischio è che le tensioni fra le diverse aree si rendano sempre più acute, vanificando anche i benefici immediati.

Inoltre, giocare con la svalutazione della moneta ( cosa forse oramai necessaria?) rischia di creare l'illusione di una manovra risolutiva, rendendo più difficile, meno urgente, più complicato dal punto di vista politico, il percorso per irrobustire realmente le economie dell'Eurozona.

Forse l'Europa dovrebbe giocare veramente una partita più politica, provando a presentare al mondo un'idea di "governo mondiale" dell'economia, qualcosa che dica ai Grandi Giocatori: "Gli equilibri sono cambiati. Prendiamone atto. Non distruggiamoci reciprocamente, ma creiamo qualcosa di nuovo". Se - e solo se - si fosse capaci di proporre questo, allora varrebbe la pena "entrare in battaglia".

FMM

L'idea è semplice: la Germania deve spendere di più per permettere ai paesi del sud come il Portogallo di allargare il loro mercato e vendere i loro prodotti. L'idea è generosa e si basa su una convinzione: in questo momento i tedeschi approfittano della zona euro. In che modo? Per il semplice motivo che se avessero avuto il marco tedesco al posto dell'euro, la loro valuta si sarebbe apprezzata molto di più e la loro competitività (le loro esportazioni) si sarebbe deteriorata. Inoltre a causa della divisione finanziaria dell'euro le banche tedesche e lo stesso stato sono diventati il rifugio degli investitori internazionali, disposti a pagare caro per avere la sicurezza della più grande economia della moneta unica.
Sì, chiediamo la solidarietà della Germania, tanto più che alcuni paesi come il Portogallo devono fare drastici aggiustamento della loro economica e devono farli rapidamente. Il problema è sapere quello che devono fare i tedeschi per favorire la forza economica europea e un progetto che affermano di voler difendere.
Con il rischio di essere accusato di scarso patriottismo, non penso che la soluzione migliore passi attraverso un aumento delle spese in Germania (...) Viviamo in un'unione monetaria caratterizzata da grandi disparità sul piano finanziario. È qui, a questo livello, che gli europei devono chiedere un altro tipo di solidarietà alla Germania, per bilanciare gli squilibri esterni nella zona euro. Se infatti un deficit del 6 per cento della bilancia delle transazioni correnti è un cattivo risultato, non possiamo neppure rallegrarci di un eccedenza del 6 per cento in un altro paese della stessa zona monetaria. Come correggere questi squilibri?
Per esempio istituendo una vera e propria gestione economica della zona euro in cui la sovranità sia più condivisa e creando una vera e propria unione bancaria che non ha mai visto la luce. È su questi due aspetti che la Commissione europea e i dirigenti dei paesi dell'Europa meridionale devono concentrarsi, invece di perdere tempo a chiedere ai tedeschi di non essere tedeschi.
Se la Germania, nelle ultimi indagini di Bruxelles, non presentava sbilanci particolari, in quest’ultimo report si sottolinea invece come a partire dal 2007 Berlino abbia registrato un surplus superiore alle soglie previste (fissate al 7 per cento). Il fatto che la Commissione europea abbia avviato un'"indagine approfondita" sull'eccessivo surplus della bilancia commerciale tedesca non significa che disapprovi la competitività della Germania. Lo ha chiarito il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso. "E' prematuro - ha aggiunto - anticipare se ci saranno conseguenze per Berlino" al termine dell'indagine, i cui risultati saranno noti la prossima primavera. La Germania è uno dei principali "motori dell'economia europea e "non si sta criticando la sua competitività", che dovrebbe essere un esempio per tutti gli altri Paesi.

(...) Il tasso di cambio dell'euro troppo elevato è disastroso a tutti i livelli: perché è in grado di distruggere in pochi giorni tutti i risultati in materia di competitività costati anni di sforzi; perché costringe le aziende ad abbassare i prezzi e licenziare gli impiegati, per preservare la loro competitività interna ed esterna. Diminuendo i costi delle importazioni, riduce l'inflazione a un livello troppo basso e porta a un eccessivo consumo energetico. Si tratta di un circolo vizioso in cui ogni tentativo di ridurre i deficit di governo tagliando le spese pubbliche porta a un alto tasso di disoccupazione e alimenta la crisi economica. Inoltre, l'euro troppo forte mette i paesi più indebitati nella posizione di non essere più in grado di ripagare il loro debito pubblico senza dissanguare i risparmiatori: Cipro ne è un esempio.(...)
La Germania è ancora ostile all'idea perché diffidente nei confronti di tutto ciò che possa dare l'impressione di una valuta debole e di un ritorno dell'inflazione. Questo non per salvaguardare la democrazia (Hitler, contrariamente a quanto si crede, non salì al potere per domare l'inflazione, ma dopo che questa era già stata domata), ma per i suoi timori in materia demografica: il paese ha bisogno di surplus commerciali e stabilità dei prezzi in modo che il surplus continui a crescere per pagare le pensioni degli attuali lavoratori, considerando che le generazioni future non saranno in grado di finanziarle.
Una volta convinti i responsabili delle decisioni, i ministri delle finanze dovranno solamente ribadire all'unanimità, durante ogni riunione del gruppo dell'euro, che il tasso di cambio dell'euro è troppo forte; a quel punto, la BCE non dovrà fare altro che dichiararsi a favore di un calo del valore dell'euro. Inoltre, se necessario, la BCE potrebbe ulteriormente diminuire il suo tasso ufficiale di riferimento, che è persino più alto di quello della Fed, la banca centrale degli Stati Uniti (0,25 contro lo 0,08%).(...)
Un euro indebolito a un livello ragionevole (un euro per dollaro) rappresenta dunque la scelta migliore; deve diventare una priorità e mettere in gioco tutte le sue forze. La Francia deve rivendicare tutto ciò, insieme a tutti gli altri sforzi per ripristinare la competitività tramite l'innovazione. Più l'euro sarà debole, più la posizione dell'Europa nel mondo sarà forte. E viceversa.

Cosa servirebbe subito per invertire la rotta? 
«L’Europa deve accelerare sull’Unione bancaria, accompagnandola con un’assicurazione europea dei depositi e un meccanismo di Risoluzione comune; abbandonare le politiche di austerità e puntare invece su politiche per favorire la crescita, sfruttando ad esempio i fondi Bei per finanziare le piccole e medie imprese che faticano ad ottenere credito, e investendo su istruzione e innovazione tecnologica; introdurre gli eurobond, così tutti i Paesi possono indebitarsi a tassi negativi».

domenica 10 novembre 2013

Incubo Deflazione?

(...) Ad occhio, l’idea di un sistema economico dove, mese dopo mese, i prezzi continuano a diminuire, sembra ideale. Ma non è così. Durante lunghi periodi di deflazione non sono solo i prezzi di quello che compriamo a calare, sono anche i prezzi dei servizi, dei trasporti e quindi, con il tempo, anche gli stipendi. C’è una cosa che però rimarrà probabilmente a un valore stabile: gli interessi sui debiti. Quindi, mentre gli stipendi calano e in generale il reddito nazionale diminuisce, diventa in proporzione sempre più difficile pagare gli interessi sul proprio mutuo o sul proprio debito pubblico.
Il secondo principale effetto della deflazione è che rende poco conveniente spendere i propri soldi. Se ad esempio qualcuno volesse comprare un televisore in un periodo di deflazione, avrebbe la tendenza a rimandare ancora un po’ l’acquisto, aspettandosi che il suo prezzo scenda. Questa tendenza non è solo dei privati: anche un’azienda potrebbe decidere di rimandare un investimento produttivo in attesa di trovare un prezzo più conveniente. Soprattutto in una situazione come quella attuale, il meccanismo può far sparire anche i timidi segni di ripresa economica a cui stiamo assistendo.
Quando il PIL non cresce può accadere un’altra cosa a paesi con un altissimo debito pubblico come l’Italia: il rapporto debito/PIL è formato da un numeratore, il valore del debito, e un denominatore, il PIL. Più è alta l’inflazione più il denominatore sale, anche in assenza di crescita “reale”, per il solo fatto che i prezzi aumentano. Nella stessa situazione, con il PIL reale fermo o in crescita molto bassa, se non c’è inflazione, o addirittura con deflazione, il PIL nominale cala, rendendo il rapporto debito/PIL sempre più elevato e potenzialmente ingestibile.(...)


Servirebbe probabilmente qualcosa di simile alle operazioni non convenzionali attuate dalle altre maggiori banche centrali del mondo ma, come noto, ciò è precluso alla Bce dalla intransigenza tedesca, la cui fobia inflazionistica trova nuova linfa nella tendenza al rialzo dei prezzi immobiliari in alcune aree del paese. A ciò si aggiunge che i tedeschi si oppongono alla revisione della metodologia proposta dalla Commissione europea per calcolare il deficit strutturale di bilancio, cioè quello calcolato rispetto al Pil potenziale. Secondo la prima versione di tale metodologia gran parte del deficit pubblico dei paesi più deboli sarebbe strutturale e non ciclico. Cioè persisterebbe anche in caso di ripresa, rendendo l’austerità necessaria. Come sempre, il diavolo si nasconde nei particolari, soprattutto in quelli più esoterici per il grande pubblico.

venerdì 8 novembre 2013

Difendere Draghi Con i Fatti: Riforme e Disegno Europeo

Attenzione a sottovalutare le critiche della Germania a Draghi. Attenzione anche a reagire in modo sbagliato, rimproverando ai tedeschi - come si sta facendo da tempo - l'eccessiva severità. 

Il modo migliore per "fare quadrato" attorno a Draghi è smentire con i fatti le preoccupazioni tedesche: approfittare delle azioni della BCE per andare avanti in un percorso di riforme coordinato fra i paesi europei, e sfidare la Germania, convincendola che solo con un disegno europeo di una maggiore integrazione politica ed economica si potranno fare i passi giusti per combattere la crisi, che non può essere curata - soprattutto per motivi di urgenza - solo con manovre di austerità. 

La Germania ha approfittato della possibilità di sforare la soglia del 3% a suo tempo, ma ha fatto riforme che ora sembrano funzionare, anche se problemi di eguaglianza e di precariato permanente, per esempio, sembrano esserci anche lì. 

Deve essere preparato un piano complessivo di riforme per tutta l'Eurozona, che convinca i cittadini europei - tedeschi come greci, come italiani - che nello stare insieme si conquista una forza diversa, che può sconfiggere il male terribile che rischia di rovinare definitivamente le nostre comuità.

FMM

La stampa tedesca dà eco alle critiche delle associazioni dei consumatori tedeschi, che vedono minacciati i risparmi di chi mette da parte per la vecchiaia. Il presidente dell'Associazione dei titolari di polizze assicurative, Axel Kleinlein, dichiara al Tagesspiegel che il calo dei tassi di interesse fa svanire le speranze di un'adeguata sicurezza in vecchiaia, poiché «vengono puniti quelli che risparmiano per quando saranno vecchi». Anche il presidente dell'Associazione delle società di assicurazione (Gdv), Joerg von Fuerstenwerth, parla di «segnale fatale per chi in Germania risparmia per la vecchiaia». Rimbalza sui media tedeschi la notizia della Reuters, secondo cui oltre un quarto dei 23 componenti del Consiglio direttivo della Bce, capeggiato dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, si sarebbe opposto alla decisione di abbassare i tassi di interesse. 

articoli di Elysa Fazzino e Rossella Bocciarelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/rPBZH

Una politica monetaria comune, ma effetti asimmetrici (da laVoce.info)

(...) Prima dell’introduzione dell’euro, ogni banca centrale nazionale aveva differenti approcci verso la stabilità dei prezzi e verso la crescita economica. Dal 1999, la Bce ha sostituito le banche nazionali e ha “imposto” una politica monetaria comune a un insieme di paesi membri ancora caratterizzati da persistenti divari strutturali, ad esempio in termini di rigidità sul mercato del lavoro, competitività e livelli del debito pubblico. Un ambiente così diversificato rende il processo di decisione della Bce particolarmente difficile, dal momento che le reazioni alle sue decisioni potrebbero essere diverse tra i paesi europei. (...)

La politica monetaria unica non può agire sull’esistenza di queste asimmetrie, che presentano natura idiosincratica. In altre parole, le differenti reazioni alla manovra di politica monetaria sono prevalentemente attribuibili alle caratteristiche strutturali e socio-economiche dei singoli paesi: su di esse i Governi nazionali potrebbero incidere con appropriate politiche di riforma e di regolamentazione dei mercati. Non sorprendentemente, infatti, le restanti asimmetrie a livello di prezzi si osservano nei paesi del Mediterraneo che, storicamente, sono caratterizzate da prezzi meno flessibili e minore concorrenzialità interna.
In conclusione, i paesi dell’area euro reagiscono in maniera asimmetrica alle decisioni di politica monetaria in merito ai prezzi e alla disoccupazione, mentre non si notano differenze rilevanti in termini di Pil. Sebbene la riduzione delle asimmetrie rilevata dopo il 1999 sia coerente con gli obiettivi della Bce, le restanti divergenze esulano dagli obiettivi di politica monetaria, e quindi devono essere oggetto di adeguate politiche strutturali da parte dei governi nazionali.
Al di là dell’interesse intrinseco dei risultati del nostro studio, il primo a documentare empiricamente l’esistenza di asimmetrie nell’area euro, essi dovrebbero rappresentare un campanello di allarme per l’area euro, indirizzando i paesi verso una maggiore armonizzazione nella regolamentazione. Solo in questo caso, infatti, gli effetti della politica monetaria della Bce potranno essere maggiormente uniformi.(...)


domenica 13 ottobre 2013

Chi E' Janet Yellen?

Janet Yellen differisce in molti aspetti dallo stereotipo del banchiere centrale. Innanzitutto, nelle apparenze. Non da duro banchiere con il sigaro, ma da nonna dolce che prepara la torta di mele per i nipotini. Ma la sua apparenza non deve trarre in inganno. Cresciuta professionalmente in un mondo tradizionalmente maschile (e un po' maschilista) come quello degli economisti, Yellen è una lady di ferro che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Un mio collega – tra i più aggressivi in un'università famosa per la sua aggressività - mi ha confessato di essere stato umiliato intellettualmente da Janet Yellen in una conversazione sulla disoccupazione. Lei ne sapeva molto più di lui e, con gentilezza ma determinazione, gli ha spiegato come le sue conclusioni erano sbagliate perché non era abbastanza al corrente dei fatti.
 
Questa fiducia nelle proprie capacità intellettuali, unita ad una apertura a idee diverse, sarà cruciale nei mesi a venire. La Fed deve sottrarre l'enorme liquidità che ha immesso nel sistema durante e dopo la crisi. Deve farlo abbastanza lentamente da non interrompere la fragile espansione americana, ma non così lentamente da creare pressioni inflazionistiche. Una manovra di queste proporzioni non ha precedenti e quindi esempi a cui rifarsi. Le pressioni da entrambi i lati saranno fortissime. Da qui l'importanza di un leader sicuro di sé, ma non arrogante, che riesca a creare un consenso all'interno della Fed e del Paese, senza lasciarsi traviare dalle varie pressioni. C'è bisogno di un leader che proietti al Paese e al mondo un'immagine di competenza e sicurezza. Penso che Janet Yellen possa essere questo leader.
 
Janet Yellen differisce dallo stereotipo dei banchieri centrali anche nella sostanza: non solo ha un cervello, ma anche un cuore. Per lei il tasso di disoccupazione non è solo un'altra statistica, è una tragedia umana. Per questo sul fronte inflazionistico è sempre stata considerata una colomba. E in un certo senso questo è vero. Se deve errare in una direzione nell'uscire dal quantitative easing, Yellen errerà nella direzione di un'uscita troppo lenta, non una troppo veloce. Ma sarebbe sbagliato considerarla alla pari di Krugman una sostenitrice di una politica monetaria ultra accomodante. Nel 1996 si scontrò con l'allora presidente della Fed Allan Greenspan perché sosteneva un rialzo dei tassi di interesse per controbattere pressioni inflazionistiche. Greenspan non la ascoltò, favorendo così la bolla internet.
 
di Luigi Zingales - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/5Du3b
 
(...) La Yellen, fino a ieri vice presidente della banca centrale americana, è sposata con il premio Nobel George Akerlof e ha un figlio che fa il professore di economia. Da quando Bernanke aveva fatto intendere che era pronto a lasciare l’incarico, e Obama non aveva fatto nulla per trattenerlo, lei era naturalmente entrata nella “short list” dei candidati. Le voci di corridoio, però, dicevano che il capo della Casa Bianca era più incline a scegliere Larry Summers, il suo ex consigliere economico, ex ministro del Tesoro nell’amministrazione Clinton, ed ex presidente dell’università di Harvard. Summers dava più sicurezza ad Obama, insieme alla garanzia di essere un falco, incline ad interrompere progressivamente gli stimoli all’economia varati da Bernanke per fare fronte alla crisi iniziata nel 2008.
Intorno al nome di Summers, però, si era costruita in fretta una coalizione di oppositori, che andava da un folto gruppo di senatori come la rappresentante del Massachusetts Elizabeth Warren, fino al premio Nobel per l’economia Stiglitz. Il motivo era che queste persone dell’ala liberal democratica consideravano Summers troppo vicino alle banche e al mondo della finanza, che dopo la crisi aveva aiutato, invece di far pagare loro il prezzo degli errori commessi. Con Larry, invece, si era schierato tutto il clan Clinton, incluso l’ex segretario al Tesoro Rubin.
La pressione degli oppositori è cresciuta, fino a quando tre senatori della Commissione che avrebbe dovuto approvare la nomina hanno annunciato che avrebbero votato contro. A quel punto Summers si è arreso, aprendo la strada alla Yellen. (...)


La nomina alla guida della Federal Reserve fa di Janet Yellen, 67 anni, attuale numero due di Ben Bernanke, la donna più potente del pianeta. La svolta è epocale: è la prima volta nei cento anni di storia della Banca centrale americana (il compleanno cade nel 2014) che si affida tanto potere nelle mani di una donna. Perché il presidente della Federal Reserve, con le sue decisioni di politica monetaria, è il faro che guida l’economia e i mercati non solo americani ma di tutto il mondo. L’ investitura di Yellen provoca anche un’altra circostanza eccezionale: la guida e la sorveglianza dei mercati Usa dal prossimo febbraio sarà declinata tutta al femminile, visto che anche il numero uno della Sec, l’autorità di controllo dei mercati americani, è una donna, Mary Jo White, 65 anni.

Pronti a un pizzico di ottimismo in Borsa? Oggi è possibile perché almeno un tormentone si è chiuso a Washington: sarà Janet Jellen, 67 anni, la numero due di Ben Bernanke. la nuova guida della Federal Reserve, la Banca Centrale americana. Barack Obama darà l'annuncio formale questa sera ora italiana, ma la decisione finale dopo mille tergiversazioni e un'epica battaglia con Larry Summers è presa. di Mario Platero con un commento di Luigi Zingales - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/SB24O

Janet L. Yellen took office as Vice Chair of the Board of Governors of the Federal Reserve System on October 4, 2010, for a four-year term ending October 4, 2014. Dr. Yellen simultaneously began a 14-year term as a member of the Board that will expire January 31, 2024.

giovedì 8 agosto 2013

Il "Sentiero Annunziato"

Per valutare l'efficacia degli annunzi monetari bisogna infatti considerare tre elementi che caratterizzano ciascuna delle banche centrali considerate: la missione, la strategia e la tattica. Un annuncio è credibile se è coerente con la missione del banchiere centrale che si sta legando le mani. Qui emerge la prima differenza tra la Bce, che ha un mandato specializzato, e le due banche centrali anglosassoni, che hanno un mandato duale. Dal 1999 la Bce ha una priorità da tutelare: la stabilità monetaria, (...) 
Donato Masciandaro - Il Sole 24 Ore - leggi su Un arma a doppio taglio

mercoledì 9 gennaio 2013

La curva di Phillips in otto parole (in memoria di Luigi Spaventa - laVoce.info)


Traggo dal sito la Voce.info un breve ricordo di Luigi Spaventa. Mi sembra molto bello e attuale. Allo stesso indirizzo sono scaricabili gli articoli di Spaventa raccolti in un dossier.

FMM

La curva di Phillips in otto parole, di Francesco Daveri

Luigi Spaventa non era solo un economista brillante e curioso. Era anche un grande comunicatore, capace di condensare in poche battute concetti complicati. Un esempio riguarda la sua fulminea trattazione della curva di Phillips durante un seminario alla Bocconi.
Per i non addetti ai lavori, la curva di Phillips è una relazione stimata molti anni fa da un economista inglese (Phillips) che, con i dati della prima metà del XX secolo per l’economia inglese, credeva di avere scoperto la possibilità di uno scambio tra disoccupazione e inflazione. I dati di Phillips sembravano cioè dimostrare che accettando un po’ di inflazione i politici potevano ottenere una minore disoccupazione, semplicemente allentando i cordoni della borsa della spesa pubblica. Dalla fine degli anni Sessanta in poi, però, l’esistenza di questa relazione è stata messa in dubbio da Milton Friedman che su questo punto vinse il premio Nobel e si guadagnò il consenso della maggior parte della professione economica. Per questo nei corsi di macroeconomia di solito si spiega che il guadagno di minor disoccupazione al costo di più alta inflazione implicato dalla curva di Phillips è, al più, temporaneo e che quindi non vale la pena che un governo faccia deficit e inflazione per far scendere per poco tempo la disoccupazione.
Tutto questo lungo (e verboso) discorso tecnico fu riassunto da Luigi Spaventa in poche parole efficaci, dicendo che molte volte i governi “Si fanno una botta di vita sulla curva di Phillips”. Otto parole invece di otto righe. Anche per questo ci mancherà.

martedì 12 giugno 2012

Un piano per l'Unione politica (da AffarInternazionali)

(A parte i titoli, sottolineati, i grassetti sono miei, FMM)


(...)
Con Berlino
Questo risultato va ottenuto con e non contro Berlino. La cancelliera va messa alla prova. I tedeschi sanno che il loro futuro, economico e politico, è nell’Unione europea. Il raggiungimento della stabilità finanziaria non è un’invenzione tedesca. La causa scatenante della crisi deriva dall’entità del debito. È giusto pretendere dalla Germania solidarietà ma non una carta di credito illimitata. È realistico tenere presente che la Germania è tutt’altro che isolata nella difesa del rigore. Il consenso in Irlanda all’accordo sulla disciplina di bilancio dimostra fiducia nella stabilità come premessa della crescita. È tuttavia fondamentale che non rimanga avvitata dai propri incubi (l’inflazione degli anni 20), vinca l’ossessione giuridica e contabile che la tormenta, sia propositiva, contrasti i sentimenti nazionalistici latenti che si addensano contro Berlino.

venerdì 25 maggio 2012

Draghi, Caffè, i giovani (da Linkiesta)


Davanti alla platea che lo ascolta proprio nel giorno del ricordo di Federico Caffè, pioniere della divulgazione del pensiero di Keynes, il presidente della Banca centrale europea ricorda le debolezze del paradigma keynesiano, che “sminuisce il ruolo della moneta ed esclude l’ipotesi del default”. A coloro che per superare la crisi finanziaria invocano una forte immissione di liquidità da parte dell’istituto monetario di Francoforte, e chiedono di adottare una strategia di investimenti in deficit per alimentare la domanda interna, Draghi risponde illustrando le conseguenze di una simile politica: “Indebitamento esponenziale degli Stati e perdita della loro credibilità agli occhi di investitori e creditori, drastica diminuzione del valore della nostra moneta, aumento della spirale inflazionistica che nel medio periodo provoca una ricaduta negativa sul piano occupazionale e sociale. È la storia degli anni Settanta, che all’inizio del decennio seguente ha determinato la spinta a cambiare strada”.


domenica 15 aprile 2012

La tentazione pericolosa della BCE (ilSole24Ore)

La Bce può obbiettare, con qualche ragione, che la politica monetaria non è lo strumento adatto per riequilibrare l'economia europea. Un taglio dei tassi di riferimento o una politica di espansione quantitativa chiamata in un altro modo non servono a migliorare la competitività delle traballanti economie del Sud Europa. È vero. Ma senza crescita economica difficilmente potrà esserci la volontà politica di prendere misure difficili a livello nazionale. - di Barry Eichengreenn - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/YXW1I

lunedì 2 gennaio 2012

Da cosa dipende lo sviluppo (FULM - Fondazione Ugo La Malfa)

(...) In questi ultimi tempi si è assistito a un profondo mutamento degli obiettivi della politica monetaria; le banche centrali si sono dedicate alla cura della stabilità finanziaria piuttosto che al più classico controllo dei prezzi, pur essendo due facce della stessa medaglia. Ciò è stato possibile perché l'inflazione è controllata dalla bassa crescita della domanda, soprattutto in Europa, ma gli interventi necessari a stabilizzare i mercati del credito e dei titoli hanno creato un habitat inflazionistico globale che può esplodere appena la situazione gira.

E ciò accadrà, perché le crisi comunque finiscono. Per questo motivo le banche centrali si rifiutano di inviare segnali forti di sostegno dell'attività produttiva, negando che sia un loro compito farlo, e sono prodighe di avvertimenti che prima o dopo devono rientrare nell'ortodossia delle gestioni monetarie. Fa eccezione la Fed americana che si è avventurata ad annunciare un orizzonte temporale pluriennale (fino a metà 2013) per la sua politica espansiva. È cosa nota che gli Stati Uniti pongono poca attenzione al valore del dollaro, che considerano la loro moneta, ma un nostro problema.
Infatti lo è ed è per questo motivo che tra le incognite dello sviluppo vi è anche l'andamento del cambio dollaro-yuan, i cui mutamenti, una volta risolta la crisi dell'euro, possono incidere sulla capacità di esportare delle imprese italiane attraverso rivalutazioni del cambio della moneta europea.
Va aggiunto che l'uso di un'unica lente di lettura dell'economia italiana non si adatta alla profonda spaccatura che si va accentuando tra Nord e Sud d'Italia, con andamenti che, per alcune regioni, Lombardia in testa, non possono lasciarle indifferenti, perché la domanda meridionale rappresenta una parte significativa del loro prodotto interno lordo. È quindi necessario estendere il campo visivo alla considerazione degli andamenti del Mezzogiorno, con una particolare attenzione alla natura e all'entità delle politiche di coesione europea e all'applicazione che di esse verrà data dal nuovo governo.
Se esso non si indirizzerà a pioggia, come in passato, ma rafforzerà le esportazioni e la sostituzione di importazioni dall'esterno con prodotti locali, dal Sud potrebbe provenire un contributo positivo alla stabilità economica e sociale dell'intero Paese. Le crisi affrontate dall'Italia nel corso dei 150 anni della sua storia, che quest'anno celebriamo, testimoniano che i problemi italiani non covano nell'economia, ma nella società.