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mercoledì 17 aprile 2019

“Lavorare meno, lavorare tutti” sogno o realtà? (da laVoce.info)

"(...) Le leggi francesi degli anni Ottanta e Novanta con cui i governi socialisti approvarono riforme significative dell’orario di lavoro a parità di salario sono state oggetto di vari studi. Bruno Crépon e Francis Kramarz (2002), per esempio, analizzando la riforma francese del 1982, che ha ridotto le ore settimanali da 40 a 39 a salario invariato, non trovano un effetto positivo sull’occupazione, ma, anzi, un aumento del rischio di disoccupazione a causa del costo orario più elevato, in linea con le previsioni della “teoria classica”. Matthieu Chemin e Etienne Wasmer (2009) studiano l’impatto della famosa riforma delle 35 ore di fine anni Novanta e anch’essi, comparando con il resto della Francia l’andamento dell’occupazione in Alsazia-Mosella, regione meno toccata dalla riforma in quanto più autonoma per motivi storici, non trovano effetti particolari (lo studio, però, è stato non poco criticato in patria).
I risultati per altri paesi vanno in direzione simile. In Germania, per esempio, Jennifer Hunt (1999) non trova effetti positivi delle riduzioni graduali degli orari di lavoro avvenute tra gli anni Ottanta e Novanta. Anche nel caso del Québec, dove l’orario di lavoro è stato gradualmente ridotto da 44 a 40 ore, non si sono registrati aumenti del numero di occupati (Mikal Skuterud, 2007). Stessa storia in Cile: la riduzione nel 2001 da 48 a 45 ore non ha avuto effetti tangibili sul numero di occupati (Rafel Sanchez, 2013). Un paese in controtendenza, invece, è il Portogallo dove secondo Pedro S. Raposo e Jan C. Van Ours (2010) la riforma che nel 1996 ha fatto scendere da 44 a 40 le ore di lavoro settimanali ha ridotto il tasso di distruzione di posti di lavoro (cioè licenziamenti o chiusure aziendali) con un effetto positivo sul totale dell’occupazione. Gli autori, cercando di comprendere il risultato in controtendenza con il resto della letteratura, ipotizzano che l’effetto positivo sia dovuto ai più ampi margini di flessibilità di aggiustamento dell’orario di lavoro che la riforma ha dato alle imprese.
Le esperienze europee non sembrano suggerire che ridurre le ore di lavoro porti ad aumenti dell’occupazione. Tuttavia, la discussione sul tempo di lavoro resta pertinente se si volge lo sguardo, e gli obiettivi, verso altre questioni: uno studio sulle riforme in Francia e Portogallo (Anthony Lepinteur, 2018), per esempio, fa vedere come quelle degli anni Novanta abbiano portato nei due paesi a un aumento del benessere dei lavoratori, con un effetto duraturo nel tempo. Altri studi, poi, mostrano come, in casi specifici, orari ridotti possano avere effetti benefici sulla produttività del singolo lavoratore (si vedano, per esempio, John Pencavel, 2015 e Marion Collewet e Jan Sauermann, 2017). (...)"

martedì 26 agosto 2014

Il problema del lavoro (Gianni Cuperlo)

La riflessione di Gianni Cuperlo - che trovate integrale su Facebook -  è interessante; anche se il problema dell'Italia è che il mix di interventi di cui ha bisogno è complesso; e quindi . diciamo così - i due diversi "approcci" alla crisi di cui parla Cuperlo vanno forse calibrati, e non si escludono reciprocamente. 


FMM 


"(...) Ci sono due modi per aggredire la creazione di lavoro. Uno è insistere sul fatto che le economie uscite meglio dalla crisi in termini di occupazione sono state quelle con più flessibilità (come quella tedesca, si dice sempre). L'altro mette in risalto un aspetto diverso. E cioè che non è bastata l'azione sulla flessibilità del mercato del lavoro a rendere più competitive alcune economie. La verità è che sono serviti investimenti pubblici e privati senza i quali non sarebbe aumentata la produttività, e dunque la crescita sarebbe stata semplicemente impossibile.
Sono proprio due modi di approcciare la crisi.
Il primo ha tra i suoi seguaci una lunga schiera di analisti ed esponenti della politica (da Ichino, Alesina, Giavazzi alla destra di Forza Italia e Ncd). Il secondo comincia a farsi largo anche sul piano teorico come dimostrano i saggi (spesso citati qui sopra) di Mariana Mazzucato o Thomas Piketty (a proposito, ma Bompiani si spiccia a mandare in libreria la traduzione?).
Ora, per la verità anche l'uso disinvolto del modello tedesco merita qualche osservazione. È vero che in questi anni i salari in Germania sono stati tenuti a freno (e la cosa non è stata priva di conseguenze sul versante della domanda interna) ma quella è stata la conseguenza di un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l'unificazione del paese nei primi anni ’90.
Quell'accordo peraltro prevedeva di mantenere i livelli occupazionali, ma insieme a una riduzione dell'orario di lavoro (35 ore) e a investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione. Sono questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri paesi sul versante della produttività. Il vero disastro con il quale misurarsi non è, dunque, il costo del lavoro, ma la produttività.(...)"


giovedì 5 dicembre 2013

La Tragedia Di Prato, Il Futuro Di Una Comunità

Trasformare la tragedia in opportunità dovrebbe essere il senso della politica. Quanto successo a Prato non meraviglia, ci dice di un percorso che non può essere portato avanti solo sul fronte della repressione, anche se non devono esserci timidezze su questo versante.

Viene infatti da domandarsi: si conoscono i nomi di chi guida la mafia cinese in Italia? E' possibile accordarsi con la Cina per rimpatri immediati di chi si verificasse essere responsabile di queste forme di schiavitù? Stiamo facendo veramente tutto il possibile a livello di persecuzione legale dei capi perché questa mafia non si radichi irreparabilmente nella nostra società?

La partita più importante è quella però che la comunità cinese - le nuove generazioni soprattutto - dovrà giocare con se stessa, sfidandosi all'integrazione nella legalità. La democrazia italiana può crescere solo se si usano sapientemente durezza e incentivazione politica, inclusione e esclusione.

Perché comunque cittadinanza non è - forse non può essere - totale apertura; né ovviamente chiusura impaurita.

La posta in palio è costruire una comunità che può vincere la scommessa del futuro, facendo giustizia dell'orrore esplicito di questi giorni, e dei tanti piccoli orrori silenziosi che l'hanno preceduto e lo seguiranno.


FMM

(...) Da un lato una comunità cinese paludata con la tendenza a vivere di regole impenetrabili, dall’altro l’emorragia di un distretto ormai lontano dai fasti che ne fecero uno dei miti fondativi della Terza Italia. Ma un conto sono i cinesi di Prato, un altro i cinesi di Cina. La difficoltà del nostro tessile non è dovuta alla presenza cinese in città. Confondere i piani serve solo da alibi per coprire un sistema industriale spesso incapace di tenere il passo dell’innovazione. Dal distretto non sono mai emersi gli emuli di Benetton, Tod’s o Zegna, ossia brand capaci di imporsi sui mercati con propri prodotti. Un gran lavoro per il mondo della moda ma poco distintivo e riconosciuto. Questo è un punto importante, troppo spesso nascosto sotto l’alibi dell’invasione cinese.(...)
Claudio Bettazzi, attuale presidente della Cna di Prato, è titolare di un laboratorio per filati da guglieria e lavora gomito a gomito con Wang. Sua moglie è impiegata proprio in un’azienda cinese. Anche suo figlio ha amici cinesi così come alle feste di paese, intorno a Prato, spuntano le prime coppie miste. Certo preoccupano gli abusi e la criminalità interna alla comunità, ma c’è un pezzo di seconda generazione che si sta integrando. Nel frattempo cominciano a intuirsi i vantaggi commerciali di una presenza così radicata. A Prato arrivano parenti cinesi facoltosi che comprano agli Outlet, gustano il buon vino, alloggiano negli alberghi della zona. Nessuno fa il francescano ma solo così si sviluppano occasioni di business. La stessa veglia funebre dell’altra sera, con mille cinesi che hanno reso omaggio ai loro caduti, è un fatto nuovo e sintomatico che va consolidato. È come fossero usciti all’improvviso dall’ombra dei laboratori, si sono fatti visibili alla comunità locale, dicendo di voler rispettare le leggi italiane. Siamo solo all’inizio di un lungo percorso, ma se si riusciranno a fare passi avanti sulla trasparenza, le regole, l’integrazione e le vere ragioni di una crisi di sistema del nostro tessile, senza accampare facili scuse, forse il rogo non sarà successo invano.


Per non andare tanto distante riavvolgiamo il nastro allo scorso anno. 7 dicembre 2012, commissione parlamentare antimafia. A parlare davanti ai commissari è l’allora prefetto di Firenze Luigi Varratta: «All'interno della mafia cinese – afferma - sono state distinte tre tipologie criminali. Rilevante è quella delle triadi, che opera nel settore dello sfruttamento dei clandestini, del gioco d'azzardo, della prostituzione e dei centri di benessere. Qualche giorno fa è stata condotta a Firenze un'operazione congiunta, tra Forze dell'ordine, Inps, Inail, Asl e Direzione provinciale del lavoro, su 11 centri di benessere gestiti da cinesi. Per due centri è stata sospesa l'attività per mancanza di autorizzazione. Va detto che non è stata notata presenza di clandestini; le irregolarità più importanti rilevate riguardano l'aspetto fiscale e l'assunzione di lavoratori in nero. A parte queste attività, il settore nel quale la criminalità gialla è più permeata è quello della contraffazione, in virtù del fatto che il tessile e la pelletteria sono molto floridi in Toscana. Stesso scenario troviamo anche Prato, Pistoia e nel Valdarno fiorentino. Dagli elementi che abbiamo sulla presenza della criminalità cinese si può forse dire che questa criminalità, che tra quelle straniere è quella che rappresenta il maggior pericolo per la sicurezza e per la legalità del territorio non solo fiorentino, ma toscano in generale, potrebbe diventare la quarta o quinta mafia».



(...) La storia della Chinatown in riva al Bisenzio è rimasta per troppo tempo sotto traccia, sono stati compiuti errori macroscopici dalle amministrazioni locali e dalle autorità nazionali quando si sono chiusi tutte e due gli occhi mentre nasceva un distretto parallelo del tessile-abbigliamento, un agglomerato industriale che ha via via fatto dell’illegalità il modello di business vincente.
Sia chiaro, il declino di Prato e della sua straordinaria storia di imprenditoria dei tessuti non è avvenuto per esclusiva colpa dei cinesi (i nuovi arrivati si sono posizionati con il loro “pronto moda” a valle delle manifatture locali) ma è nato comunque qualcosa di storto. Abbiamo permesso che nel cuore della civilissima Toscana in centinaia di laboratori clandestiniimprenditori cinesi senza scrupolo obbligassero i loro connazionali più deboli e ricattabili a lavorare come schiavi.
A dormire accanto alle macchine da cucire, ad allattare i bambini rubando il tempo alla produzione. Grazie a questo tipo di sfruttamento il distretto cinese di Prato si è rivelato negli anni una straordinaria macchina da soldiche ha venduto sui mercati di mezza Europa quantità incredibili di un made in Italy griffato di lavoro illegale, intimidazione ed evasione fiscale.
Se è questa la storia che c’è dietro il rogo di Prato è necessario chiedersi cosa fare, come conciliare la convivenza con le comunità cinesi con il pieno rispetto della nostra civiltà e dei diritti elementari del lavoro. Non possiamo tollerare zone franche ma in parallelo dobbiamo essere capaci di costruire un dialogo che veda protagoniste le autorità dei due Paesi e passi, però, anche dentro la società civile.(...)

mercoledì 20 novembre 2013

Salario minimo, contratti e democrazia (da Phastidio.net)

(...) La Spd ha due punti programmatici che paiono non negoziabili. Un salario minimo su base nazionale, fissato a 8,50 euro l’ora, e la doppia cittadinanza per le persone di origine straniera ma nate in Germania. Tra le altre richieste socialdemocratiche figurano un aumento della spesa per investimenti pubblici infrastrutturali, le quote rosa nei consigli di amministrazione ed un aumento delle pensioni.

Riguardo il salario minimo, il timore degli osservatori è che il livello possa essere tale da escludere dal mercato del lavoro un elevato numero di soggetti non qualificati (unskilled). Alcune stime fissano la quota di lavoratori che percepisce meno di 8,50 euro orari al 15% all’Ovest ed al 25% nei Laender dell’Est. Secondo l’Economist Intelligence Unit, a 8,50 euro orari il salario minimo tedesco sarebbe il sesto più alto in Unione europea (dove è adottato da 21 paesi su 28). Tuttavia, rapportandolo al salario mediano a tempo pieno, una grandezza rappresentativa del “salario medio di mercato”, la Germania salirebbe al secondo posto, dietro solo allaFrancia. Il nuovo salario minimo tedesco risulterebbe, secondo un istituto di ricerca legato ai sindacati, pari al 58% della retribuzione mediana a tempo pieno nell’Ovest, e a ben il 70% di quella dell’Est del paese.
Preso singolarmente, questo livello di salario minimo dovrebbe essere gestibile dall’economia tedesca, ma non si deve dimenticare che la sua introduzione segnerebbe anche il forte ridimensionamento del ricorso a impieghi temporanei e di breve termine, che sinora hanno rappresentato una importante fonte di flessibilità per le imprese tedesche. Né si deve dimenticare che la fissazione di un salario minimo rappresenta, per i partiti di sinistra, un’arma per rispondere al processo di desindacalizzazione in corso da molti anni.(...)

domenica 15 aprile 2012

La tentazione pericolosa della BCE (ilSole24Ore)

La Bce può obbiettare, con qualche ragione, che la politica monetaria non è lo strumento adatto per riequilibrare l'economia europea. Un taglio dei tassi di riferimento o una politica di espansione quantitativa chiamata in un altro modo non servono a migliorare la competitività delle traballanti economie del Sud Europa. È vero. Ma senza crescita economica difficilmente potrà esserci la volontà politica di prendere misure difficili a livello nazionale. - di Barry Eichengreenn - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/YXW1I