E' la ciliegina sulla torta di questo strano "populismo democratico", l'uso della retorica che accusa i "disfattisti". Toni che non dovrebbero appartenere al dibattito democratico, che si nutre di dubbi e richieste di chiarimento.
Stamani Davide Faraone - membro della segreteria nazionale del PD - a Omnibus si è lasciato scappare un'espressione molto vicina al noto "lasciateci lavorare" ("laciate a noi, al governo... tutte queste cose..."), ed è stato giustamente "richiamato" su questo da un giornalista presente al dibattito. Non ho potuto seguire il prosieguo della trasmissione, ma il punto in questo caso non è il merito delle questioni economiche in discussione in questi giorni (su cui invito a leggere la breve rassegna stampa che riporto di seguito).
La questione è che - più o meno volutamente - il Presidente del Consiglio e la sua squadra sembrano voler utilizzare una retorica che a lungo andare può essere pericolosa, indipendentemente dai buoni propositi del nostro attuale Governo. Non spetta a chi governa valutare le motivazioni di chi si oppone, se sia sincero o meno, se sia utile o meno, se sia "disfattista" o meno.
Non c'è scelta: in una sana democrazia liberale non si può sopportare più di tanto - anche se a volte può essere necessario, ma non per troppo tempo - il "richiamo all'ordine", anche se fatto - forse soprattutto se fatto - "per il bene della patria", e soprattutto se il bene della patria viene indicato come coincidente con il destino politico di una persona.
Le istituzioni democratiche sono più forti dei retorici richiami del tipo "state buoni se potete", "lasciatelo lavorare", "politica 1 - disfattismo 0". I leader sono apparizioni veloci, le istituzioni democratiche rimangono.
Per questo forse in questi giorni si deve essere "disfattisti" senza paura.
Francesco Maria Mariotti
***
Breve rassegna stampa sulla conferenza stampa del Preidente del Consiglio; i grassetti sono miei
Il fatto è che la scommessa di Renzi è ad alto rischio e presenta comunque dei vuoti altrettanto impressionanti. Primo: la manovra di taglio dell'Irpef per 10 milioni di lavoratori e la riduzione dell'Irap non sono oggi né un decreto legge né un disegno di legge ma sono (solo) parte di una relazione del Presidente del Consiglio approvata dal Governo. Secondo: la riduzione dell'Irap, una tassa sul lavoro odiosa, verrà però finanziata per un importo (2,6 miliardi) non certo capace di determinare grandi svolte con l'aumento di un'altra tassa, quella sulle rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato) dal 20 al 26%. Trattandosi di materia così sensibile doveva essere introdotta al momento ritenuto opportuno con misure operative e non con propositi verbali. Terzo: provvedimenti annunciati come decisivi per il lavoro (il famoso Jobs Act) e per il ripristino della legalità (sblocco dei debiti della Pa) viaggiano sui binari dei disegni di legge, che non sono adatti all'alta velocità istituzionale operativa. Quarto: sul tema delle coperture finanziarie il Governo non ha sciolto tutti i dubbi. Anzi li ha fatti crescere. (...)
A parte il fatto che il Commissario per la spending review Cottarelli ha specificato che i risparmi concretamente possibili per il 2014 ammontano a circa 3 miliardi, va detto con chiarezza che qui il premier rischia grosso. In Italia e in Europa, dove non tira aria di sconti. Le coperture finanziarie non sono l'imposizione di qualche burocrate-frenatore. Sono l'architrave di qualsivoglia manovra di governo, in assenza della quale non ci sono né scosse né credibilità. Gli annunci su questo terreno non valgono: senza coperture il bazooka non spara.
di Guido Gentili - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/ERMuL
Coperture multiple, su cui andrà acquisito il via libera preventivo di Bruxelles, con alcuni dubbi e perplessità che l'"informativa" del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dedicata al capitolo più rilevante e ambizioso della sua «cura shock», non ha ancora dissolto. A partire dai risparmi attesi dalla spending review, che Bruxelles ha chiesto di indirizzare alla riduzione del deficit strutturale in direzione del pareggio di bilancio, e che invece il governo intende convogliare alla riduzione del prelievo fiscale. La trattativa potrà chiudersi a favore delle tesi sostenute dal governo, a patto che vi siano precise garanzie sul percorso di attuazione delle riforme strutturali, necessarie per accrescere il potenziale di crescita dell'economia.
di Dino Pesole - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/znWCE
Ci sono, per l’appunto, alcuni aspetti che lasciano intravedere che ci saranno più danni che benefici. Il primo è legato alle stime del governo. Secondo Renzi il gettito previsto sarà pari a 2,6 miliardi di euro. Una cifra significativa, specie considerando che senza il supporto dei titoli di Stato, la cui aliquota resterà al 12,5%, si andrà a colpire una fetta di mercato molto più piccola. Ma non per questo meno importante, sia per la liquidità sistemica sia per il corretto funzionamento dei mercati finanziari. Come conciliare la riduzione della piscina da cui attingere con un aumento delle stime sul gettito, dato che la prima previsione parlava di circa 1 miliardo di euro? I dettagli tecnici sono ancora un mistero. Soprattutto perché colpendo di più gli investitori in classi di asset differenti dai bond governativi domestici c’è il timore di una diminuzione dei volumi negoziati. E farlo in mercati così sottili come quelli italiani, è l’equivalente di un suicidio. Allo stesso tempo, è lecito attendersi una minore diversificazione degli investimenti. In altre parole, potrebbe esserci un incremento dell’allocazione delle risorse sui titoli di Stato. Buono nel breve termine, complice l’attuale calma piatta dettata dalla Banca centrale europea (Bce) a livello di eurozona. Male nel lungo, perché aumenterà l’autarchia degli investitori domestici, che potrebbero effettuare aumentare la percentuale di bond governativi italiani in portafoglio, circa 183 miliardi di euro a fine novembre 2013 secondo i dati della Banca d’Italia. Uno scenario giapponese che non riduce la frammentazione finanziaria dell’area euro. (...) C’è infine un quarto aspetto, più tecnico. Dato che si parla di tassazione delle rendite finanziarie bisogna distinguere le due principali categorie di investitori secondo l’erario, ovvero nettisti e lordisti. I primi, rappresentati perlopiù dalla clientela retail (vedasi, famiglie e imprese), vedono applicata alla fonte la ritenuta sulle plusvalenze che derivano dall’operatività in prodotti finanziari. I secondi, che sono gli investitori istituzionali, vedono una tassazione ben differente, che dipende dal regime della dichiarazione all’erario. Traduzione: l’investitore istituzionale ha l’obbligo di dichiarare il risultato economico dell’operatività in prodotti finanziari e viene tassato in base alla fascia di aliquota in cui rientra. Stop. Nessun impatto della nuova misura di Renzi. Gli istituzionali continueranno quindi la loro normale attività, dato che non saranno colpiti dalla rimodulazione. E tutta l’iniziativa sarebbe stata inutile. Nel migliore dei casi, ovviamente.
Dunque Draghi contro Renzi? È presto per dirlo, ma certo prende corpo l’ipotesi che gli eroici furori renziani abbiano subito nei giorni scorsi una netta frenata. Ecco perché dal consiglio dei ministri del cosiddetto super-mercoledì non è uscito nessun provvedimento concreto, ma solo un elenco di impegni, alcuni positivi (bisogna mettere in circolo del denaro e sostenere una domanda interna al collasso), altri ancora troppo fumosi (come la riforma del mercato del lavoro rinviata a una problematica legge delega), altri negativi come il prelievo sulle cosiddette rendite finanziarie o la minaccia di tagliare le pensioni medie, perché tali sono quelle oltre i 2.500 euro. Ma, al di là delle dietrologie, emerge chiaramente una sfasatura netta, prima ancora che sulle misure concrete, sull’analisi della situazione. Renzi sembra convinto non che bisogna compiere scelte per superare la crisi, ma che la crisi sia finita e quindi possa cominciare una nuova fase. La svolta che egli ha annunciato con quelle pirotecniche slide, è una politica redistributiva, da attuare subito, prima che sia ripartita l’accumulazione.(...) Il deficit spending lo hanno chiesto per anni i neokeynesiani di sinistra e di destra. Adesso c’è un governo che lo realizza. Ma il fatto è che non si può fare il keynesismo in un paese solo. Tanto più quando si fa parte di un’area economica con un’unica moneta. La Bce lo ha subito ricordato. Fa bene Renzi a volere una svolta rispetto agli anni della terribile austerità, ma prima deve tagliare poi spendere, prima bisogna far ripartire la produzione poi distribuirne i frutti. L’albero degli zecchini d’oro non esisteva nemmeno in Pinocchio.
Dire che le conferenze stampa alla Renzi sono ispirate alla più completa irritualità è diventato in poco tempo un eufemismo. Il neopremier ieri ha illustrato le scelte e i provvedimenti votati poco prima in Consiglio dei ministri alla stregua di un banditore e francamente il metodo non aiuta. Specie quando sono in gioco misure complesse, quando si tratta di valutare i delicati equilibri di finanza pubblica o solo individuare il perimetro delle novità normative, una più pacata trasmissione delle informazioni giova. Sicuramente al lavoro dei media (compresi quelli stranieri) ma ancor di più a quella trasparenza del rapporto tra politica e cittadini che rientra tra gli intendimenti prioritari di Matteo Renzi.
Ieri quest’obiettivo non è stato centrato perché alla fine dello show sappiamo i titoli dei provvedimenti che il premier ha fatto approvare, conosciamo l’indirizzo di alcuni di essi ma ci è rimasta la sensazione di non aver del tutto chiara la relazione che intercorre tra le decisioni di spesa adottate (e scandite) e le coperture di bilancio. Al punto che dovremo giocoforza aspettare il Def (il Documento economico-finanziario) per poter usufruire di elementi più certi di valutazione. Come riuscirà, ad esempio, il bisturi della spending review nel 2014 a raddoppiare i risparmi dai 3 miliardi previsti finora da Carlo Cottarelli ai 7 promessi ieri da Renzi? E ha senso adottare come riferimento per il rimborso dei debiti della pubblica amministrazione una stima di Bankitalia (90 miliardi) contestata ancora pochi giorni fa dal ministro del Tesoro uscente, che ha parlato di un pregresso limitato a 50 miliardi?
I 1.000 euro all’anno nelle buste paga dei dieci milioni di italiani che guadagnano meno di 1.500 euro al mese, ricavati dalla riduzione dell’Irpef, sono una decisione a effetto: un tentativo di guadagnare consensi a sinistra e da parte dei sindacati. Renzi voleva l’entrata in vigore del provvedimento all’inizio di aprile. Ma «sono stato sconfitto con perdite», ha ammesso in conferenza stampa. Lo spostamento al 1° maggio conferma comunque un potenziale effetto elettorale: si voterà per le Europee poco più di tre settimane dopo. E la volontà di semplificare il mercato del lavoro riceve il plauso anche degli alleati del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Il problema sarà di ottenere un «via libera» a livello europeo, che è dato per scontato ma non c’è ancora.
E rappresenta un ostacolo per le ambizioni e la velocità renziane. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha avallato il «piano-choc» del premier. In parallelo, però, ha anche usato toni prudenti e quasi preoccupati sulla possibilità di tirare troppo la corda della spesa pubblica. «Il 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil è il margine massimo disponibile», ha detto, «per evitare di rientrare nella procedura di deficit eccessivo» a Bruxelles. Padoan ha insistito sui vincoli da rispettare nel processo per «mobilitare risorse». Ma in questa fase la volontà politica di Palazzo Chigi punta soprattutto a rimarcare la «portata storica» di quanto Renzi ha annunciato
Il ministro Padoan, che nel suo intervento in conferenza stampa, scurissimo in volto, non ha speso una sola parola sul tema, a domanda diretta ha però sciolto una volta per tutte il nodo delle coperture. "Ci saranno tagli di imposte finanziati da tagli di spesa permanente - ha detto il ministro- e questo sarà a regime, a partire dall'anno prossimo. Per quest'anno invece - ha continuato - c'é una situazione di transizione, per finanziare questa transizione si utilizzeranno i margini dell'indebitamento nel modo più parsimonioso possibile, perché il rispetto del vincolo di deficit eccessivo é fondamentale per noi".
Ma il punto, non indifferente, é che l'utilizzo di questo margine non sarà automatico, e andrà negoziato con l'Europa, e - ha detto Padoan - "dovrà essere giustificato da aggiustamenti permanenti". La partita quindi, é tutt'altro che chiusa. Per quest' anno, nelle intenzioni del premier, il taglio del cuneo sarebbe coperto per 3 miliardi dalla spending review di Cottarelli, e per il resto - meno dei dieci miliardi perché si partirà da maggio - dal margine sul deficit, Ue permettendo.
Renzi è puntiglioso nell'illustrazione delle coperture. Cioè, come ha recuperato i 10 miliardi in questione. «Sul tema ho assistito a polemiche incredibili», commenta. I primi 6,4 miliardi arriveranno dalla scelta (tutta politica) di non rispettare l'obiettivo di deficit di quest'anno, fissato al 2,6% del Pil. E di riprogrammarlo al 3%. «Nessuno si è mai sognato di sforarlo», spiega. Quello 0,4% in più dovrebbe garantire al governo di recuperare, appunto, 6,4 miliardi.
Il problema è quel livello di deficit era rapportato a una crescita dell'economia interna dell'1,1%. In realtà, l'aumento del Pil sarà dello 0,6%. Ne consegue che già oggi il deficit atteso per quest'anno sale al 2,8%, e non al 2,6%. In più, i Trattati europei obbligano i governi in carica a raggiungere il pareggio di bilancio (principio sancito anche dalla Costituzione) e di migliorare ogni anno il deficit strutturale dello 0,5% del Pil. Renzi non solo non riduce il deficit, ma lo aumenta. E Pier Carlo Padoan, successivamente, quasi prende le distanze dal premier: «Il 2,6% è il margine massimo per evitare di rientrare in procedura per deficit eccessivo». Renzi, però, sembra non voler ascoltare il ministro dell'Economia.
Nessun commento:
Posta un commento